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Che cosa ci può dire la vicenda del Papa alla Sapienza

Gabriella Cotta

La recente vicenda che ha visto coinvolta la più grande università d’Italia e d’Europa in un clamoroso infortunio è l’occasione buona per riflettere su di una situazione, sempre più evidente, di tensione tra le posizioni dei cosiddetti ‘laici’ e quelle dei cattolici. L’evidente distorsione del senso delle parole di Benedetto XVI nel famoso discorso tenuto alla cappella universitaria di Roma e ripreso poi a Parma, che, riportando affermazioni di Feyerabend di critica a Galileo, si limitavano ad evidenziare i dubbi della scienza contemporanea su di sé, esortando tuttavia a non fondare su questi una frettolosa ed inconsistente apologetica, ci dovrebbe indurre ad una riflessione preoccupata. Che cosa è successo se scienziati –che dovrebbero essere abituati a costruire il proprio ragionamento sull’analisi di fatti scrupolosamente verificati– dimostrano un atteggiamento obiettivamente e infondatamente ideologico? Perché si è creata un’opposizione così violenta tra laici e cattolici tanto da far parlare di ‘indignazione’ per la visita papale, da escludere la possibilità di un confronto con gli argomenti della religione, da manifestare –Cini– un evidente disprezzo per la teologia, che –erroneamente supposta non presente in alcuna università europea– non sarebbe degna di cittadinanza neppure alla Sapienza?
E, dall’altra parte, che cosa è successo perché tanto spesso, in Italia, ci si debba riferire alla ‘posizione dei vescovi’ e/o del Papa in tutte le questioni eticamente sensibili in cui il paese –e la sua incerta politica– sono continuamente coinvolti, e che non riguardano solo lo statuto dell’embrione, l’aborto, la clonazione, ma, anche, problemi purtroppo correnti come lo sfascio della scuola, dell’amministrazione, la corruzione dilagante e la volgarità e violenza dei mezzi di comunicazione? Che cosa perché molte tra le nostre forze politiche sembrino troppo interessate ad ottenere un avallo delle gerarchie? Questa situazione, particolarmente acuta in Italia, tuttavia si va affermando in tutto il mondo: le chiese diventano sempre di più il centro propulsivo di visioni etiche forti ed assertive, proprio mentre, da parte ‘laica’, le si richiama sempre di più all’interiorità ed alla privatezza della fede. Cerchiamo dunque di identificare alcune delle ragioni che hanno prodotto questo stato di tensione.
Le radici di questa crescente tensione sono rintracciabili da quando è apparso evidente il definitivo scacco dell’ultimo grande progetto filosofico-politico: quello del comunismo realizzato. Da più parti si è notato che lo spazio, lasciato vuoto dal crollo delle utopie politiche, veniva riempito da una forte riaffermazione della religione. Certamente, in questa occasione, non si può pensare, però, che sia stata la religione a sostituirsi arbitrariamente alla politica se è vero, come Del Noce –ed altri insieme a lui– hanno sostenuto, che fosse il marxismo ad essere, per molti aspetti, una forma di secolarizzazione della prospettiva escatologica del cristianesimo. Dopo il crollo della speranza marxista, il cristianesimo non avrebbe, dunque, fatto altro che riprendere il proprio ruolo tradizionale. In realtà, a fianco di un indubbio recupero di capacità attrattiva del cristianesimo –tuttavia in sensibile calo numerico– e delle religioni in generale, nel vuoto lasciato dall’indebolimento della tensione culturale, etica, politica alla realizzazione dell’uguaglianza, della liberazione generale dal bisogno, della giustizia sociale, è riemersa con forza un’altra importante linea caratterizzante la modernità: quella individualistico-desiderante.
Se comunemente si attribuisce a Machiavelli in politica e a Cartesio in filosofia il ruolo di fondatori della modernità, vi è un’altra linea di sviluppo il cui fondamentale dato onto-antropologico è stato posto da Lutero e del quale bisogna tenere conto. Questa tematizza – per la prima volta in modo chiaro e completo – un soggetto che, opposto a Dio nel proprio status irrimediabilmente malvagio, appare costituito dal e nel proprio desiderio, terreno ed autoreferenziale. Per questo motivo, la ragione dell’uomo è da Lutero inibita ad occuparsi delle questioni riguardanti la fede. In quest’ambito «prostituta del demonio», come il Riformatore l’ha definita, diviene il più utile dono di Dio nell’ambito delle vicende umane, precostituendo così una netta separazione di funzioni: l’interiorità, totalmente condizionata dalla grazia, rivolta alla vita della fede, la ragione alle cose umane.
Se nella linea cartesiana la modernità si caratterizza invece per la centralità del soggetto, che interpreta il mondo con gli strumenti della ragione e le modalità della propria capacità conoscitiva, in quella originata da Lutero e diffusa dal protestantesimo, elemento centrale è un individualismo pulsionale e autoreferenziale. Questa linea subisce evoluzioni significative il cui legame, tuttavia, è evidente: da Lutero si arriva a Hobbes ed alla sua idea di un uomo totalmente costituito da impulsi attrattivi e repulsivi, gettando così le basi di una visione antropologica strutturalmente conflittuale, periodicamente riaffiorante, fino alle recenti teorizzazioni di Schmitt. Si passa poi per la fondamentale tappa economicistica dell’individuo di Locke che, nella primaria attività di possesso di sé e dell’oggetto-natura –da lui fatta propria e trasformata– realizza il proprio fondante desiderio autoconservativo. Si attraversa il nodo emblematicamente rappresentativo del pensiero libertino della normatività del desiderio, cui tanta attenzione proprio Del Noce ha riservato. Si incrocia la drammatica riflessione sulla volontà desiderante di Schopenhauer, per arrivare all’assunzione del desiderio, vitalistico e tragico, come cifra della propria autoappartenenza in Nietzsche, e, infine, in una lettura che oltrepassa Freud, agli esiti di una psicoanalisi che legittima il desiderio in ogni sua forma. In epoca contemporanea, la liberazione del desiderio diventa proclama del surrealismo e dell’erotismo di Bataille. Ma il desiderio, che ha rappresentato la linea individualistico-desiderante della modernità, ne decreta anche il superamento in favore di ciò che lo costituisce per essenza: la differenza. Nulla, infatti, è tanto differenziante quanto il desiderio, tanto che è proprio la differenza a costituire quella cifra della post-modernità, che si propone, nei suoi esiti estremi, di estinguere perfino il soggetto desiderante che l’ha portata al mondo, decretandone la morte. Ciò che si insegue, perciò, è una differenza sempre più inafferrabile e «differante» – per utilizzare Derrida – in un nichilismo che rischia di travolgere ogni possibilità di comunicazione e di senso, e che, tuttavia, non riesce a espungere dalla cultura diffusa il modello dell’individuo desiderante, ormai largamente acquisito nella comune sensibilità.
A questo punto, possiamo cercare di evidenziare quanto questa linea della modernità abbia condizionato il quadro culturale odierno, contribuendo a creare il clima cui più sopra si è accennato. Certamente, la convinzione dell’impossibilità/negatività della ragione di occuparsi delle ‘cose divine’, di origine luterano-protestante, si è, nel tempo, ampiamente diffusa. Ma è bene notare che la radicalità di questa posizione –che supera di gran lunga le critiche antimetafisiche di fallacia naturalistica di Hume, ormai in gran parte ridimensionate nella loro portata– è inversamente proporzionale alla propria sostanziale indimostrabilità. Se, infatti, in passato essa traeva la propria giustificazione dall’opzione antropologica totalmente pessimistica, di questa oggi si sono perse le originarie motivazioni ontologiche, sì da apparire del tutto in controtendenza rispetto alla mentalità odierna. Rimane, tuttavia, inalterata la pretesa di separazione tra ambito della fede e della ragione. Tale linea, che spesso si salda con la tradizione antimetafisica ebraica, si è inoltre ampiamente trasfusa, sia in ambito cattolico, sia in molta parte del mondo laico, ponendosi come dato acquisito ed incontrovertibile. Essa individua nella fede e nella sequela personale a Cristo l’unica via di una religiosità divenuta esclusivo fatto esistenziale e, perciò, privato, o, al massimo, di pura testimonianza. Peraltro, come si diceva, essa non è più in grado di giustificare l’esclusione della ragione, religiosamente indirizzata, dalle vicende di questo mondo. L’altra linea, che discende dall’individualismo desiderante e possessivo, e che coniuga la normatività del desiderio all’uguale realtà –dunque della sostanziale equivalenza culturale ed etica– di ogni differenza, propria delle teorizzazioni relativistiche, confluisce anch’essa nella cultura attuale, condizionandola profondamente. Entrambi gli elementi nutrono di sé una cultura ormai largamente diffusa, a volte mescolandosi, a volte trovandosi occasionalmente sulla stessa sponda.
In questa prospettiva, si spiega –ma non si giustifica– l’insofferenza –arrivata, nel caso recente del Papa alla Sapienza, ai limiti dell’offesa diretta– di gran parte del mondo ‘laico’ –a volte anche cattolico, certamente protestante– nei confronti di una Chiesa che ‘parla’, prende posizioni su questioni antropologiche, etiche, critica le carenze della politica, indica i contenuti di un bene condivisibile. Il complesso humus culturale sopra descritto sta producendo effetti di chiusura dialogica, ma, anche, di contraddittoria ambiguità. Non si può invitare, neppure nella clericale/anticlericale Italia, il capo riconosciuto di un miliardo di fedeli senza sapergli e volergli garantire libertà di parola. Né si può sostenere che non abbia qualche ragione da comunicare al di là del proprio patrimonio dottrinario. Questo è evidentemente paradossale, se non altro per l’esperienza che la Chiesa ha accumulato in due millenni di storia e nel confronto costante con il proprio popolo ormai universale. Di fronte a posizioni che teorizzano l’assoluta incomunicabilità tra mondo “laico” e religioso –quasi che la fede, perfino la più semplice, non utilizzasse, come perfino Barth dichiara, le armi della ragione– è legittimo chiedersi, piuttosto, se il relativismo non abbia distrutto ogni strumento culturale in grado di confrontarsi –anche criticamente– con chi possiede, non solo gli argomenti della fede, ma che rivendica anche l’uso legittimo di quelli della ragione. Il tentativo di chiudere la religione nel recinto privatistico della fede, d’altra parte, non è conseguente alla proclamata posizione culturale del relativismo, che dovrebbe garantire a chiunque di proporre la propria visione del mondo, a condizione di assumersi l’onere di una plausibile argomentazione di essa. Non sarà forse perché il relativismo mescola la propria visione di un uomo liberamente desiderante, aperto ad ogni differenza, eticamente variabile, a quella ormai lontana –e difficilmente giustificabile– di un uomo sostanzialmente malvagio, impossibilitato a dar conto delle proprie convinzioni nelle questioni religiose, dunque di tematizzare le vie della realizzazione del bene, della pace, della relazione con l’altro? Come abbiamo visto, però, questa posizione è lontana dall’essere un assunto indiscutibile, tanto da apparire più contestabile di quella lunga tradizione di pensiero che, accanto alla perfettibilità, alla carenza, alla finitezza dell’uomo, gli riconosce una capacità strutturale di ricercare il bene, un bene che può essere detto e condiviso.
Il dubbio che sorge è che i limiti posti alla ragione in questa direzione, coniugati ai frutti del relativismo, filosofico ed etico, possano aver pesantemente condizionato, non solo la nostra pacifica e costruttiva capacità dialogica, ma anche i comportamenti pubblici di una classe politica sempre più priva di senso etico, angustamente guidata dall’interesse di parte, autoreferenziale, e la capacità generale di elaborare giudizi critici.


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