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La riflessione rosminiana sulla libertà

Michele Nicoletti
Articolo pubblicato nella sezione "Libertà e democrazia nella cultura politico-giuridica italiana tra ’700 e ’800"

1. La condanna della schiavitù

Nel tentativo di comprendere l’approccio rosminiano alla dimensione giuridica e politica della libertà è utile prendere le mosse dalla sua ferma condanna della schiavitù. È da questa condanna che vale la pena partire perché nel parlare delle moderne avventure della libertà non vada persa la memoria di questa sua radice antica: la libertà come negazione della schiavitù, come affrancamento - giuridico, morale, intellettuale - da essa. E al tempo stesso non vada persa la consapevolezza di come la schiavitù, ossia l’essere come mera cosa in possesso d’altri, non sia condizione di un’umanità soltanto primitiva, definitivamente superata dal processo di civilizzazione, ma sia realtà presente per molti ancora e possibilità non tolta.
Per questo non è fuori luogo andare a quelle pagine rosminiane della Filosofia del diritto dove si trova una radicale condanna della schiavitù, in quanto atto contrario alla dignità dell'uomo che mai può essere trattato come mero strumento. In esse la schiavitù - qui definita appunto come «l'uso che un uomo pretende di poter fare costantemente di un altro uomo come di un mero mezzo ai suoi fini» (Rosmini 2014a, p. 43) - viene considerata come l'atto che assomma in sé «virtualmente ogni possibile violazione di tutti affatto i diritti umani», perché colpisce il principio di tutti i diritti, ossia la libertà personale, l'essere padroni di se stessi. Questo principio è così legato alla natura dell'uomo stesso, che l’uomo, neanche volendolo, potrebbe separarsi da esso: egli non lo può alienare né moralmente, né fisicamente. “Alienare” la libertà vorrebbe infatti dire mettere la propria libertà nelle mani di un altro, ma ciò è palesemente contraddittorio, poiché la libertà è la padronanza di sé e, nel momento in cui essa viene alienata, viene negata, giacché la padronanza di sé da parte di se stessi si trasforma in padronanza di sé da parte di altri e dunque in spogliazione del proprio essere principio del proprio agire: con ciò non si nega solo la libertà, ma l’umanità stessa. La schiavitù non incide solo sulla condizione esteriore dell’uomo, ma più profondamente sul suo essere stesso: «Che altro è la schiavitù, se non un tentativo di fare che non sia libero nell'uomo quel principio stesso, che non può esser altro che libero, perché è la stessa libertà?» (ivi, p. 44 in nota). Come non si può consegnare ad altri la propria libertà, così non si può esercitare la libertà di un altro quanto poco si può pensare al posto di un altro. Proprio per questo suo carattere di radicale negazione dell’umanità stessa dell’uomo, la schiavitù - che Rosmini distingue dallo stato di servitù - deve essere totalmente e immediatamente abolita. Nei suoi confronti non può esservi nessuna tolleranza, neppure parziale o temporanea: «La schiavitù in questo senso non può essere nè pure un istante conservata, e non può abolirsi gradatamente da' governi; ma dee essere annientata d'un tratto» (ivi, p. 44).
Là dove la schiavitù non è abolita da parte dei governi, è quindi riconosciuto all’uomo il diritto di ricorrere anche alla forza pur di evitare di essere ridotto in catene, qualora questo obiettivo non possa essere conseguito con altri, più pacifici, mezzi: «Dopo la difesa della verità religioso-morale, il Diritto razionale non riconosce, per la violenza e la guerra, una causa più giusta di quella, che tende a difendersi dalla minacciata schiavitù (presa questa in senso stretto) o a liberarsi da un tale stato obbrobrioso all'umana natura» (ivi, p. 75).
Dunque la schiavitù ha da essere abolita e ogni energia - non solo politica, ma anche morale e religiosa - deve essere indirizzata a questo scopo. La storia del processo di “incivilimento” è storia di progressiva liberazione dalla schiavitù e a questa storia il cristianesimo ha dato un contributo fondamentale. A riprova di tale tesi, nella Filosofia del Diritto Rosmini cita ampi stralci del Rapporto di una Commissione istituita dal re di Francia il 20 maggio 1840 e presieduta dal Duca di Broly, per esaminare il problema della schiavitù. In tale rapporto viene detto apertamente che l’affrancamento delle colonie inglesi non fu dovuto alla filantropia o agli interessi degli inglesi, ma all’influenza delle idee del Cristianesimo: «Veramente fu LA RELIGIONE, che liberò i neri nelle Colonie inglesi [...]. Fu la religione, che venne formando a grado a grado, prima nella nazione, poi nel medesimo Parlamento, questo grande partito abolizionista, che ogni dì s’ingrossa e quasi s’infiltra in tutti i partiti, obbligandoli tutti [...]» (Rosmini 2014b, p. 241 in nota).
In questa lotta contro la schiavitù, per Rosmini, si realizzava dunque la missione, religiosa e civile assieme, del cristianesimo: restituire all’uomo, a tutti gli uomini, a quelli spogliati e privati della loro umanità, la libertà di essere se stessi e di poter godere del sommo bene.


2. La capacità di “dare inizio”

Da questa considerazione del problema della schiavitù, sembrerebbe emergere una definizione anzitutto negativa della “libertà” sul piano giuridico, raggiunta attraverso una negazione della condizione opposta, quella appunto di schiavitù. Ma a ben guardare ciò che è desunto per via negativa è la realtà originaria, quella che è propria dell’essere dell’uomo in quanto uomo e che perciò non può essere negata senza negare - come abbiamo visto nel caso della schiavitù – l’umanità stessa dell’uomo. Insomma l’approdo di questa via negativa non è la libertà concepita come vuoto spazio, privo di vincoli ed ostacoli, ma un essere dell’uomo in cui l’essere urge in modo così pieno e sovrabbondante da chiedere, da esigere, da premere perché la morta necessità dell’esistente, lasci lo spazio a cose nuove, ad altro da sé. Questa è la libertà, connessa all’essere dell’uomo come attività: è, in una parola, capacità di «dare inizio».
Che cosa infatti distingue la causa meccanica dalla causa libera se non questa capacità di «dare inizio», ossia di far sì che ciò che è causato non sia il semplice effetto del mio operare, ma sia un che di nuovo, irriducibile a me causante, appunto un «inizio», non un semplice proseguire, o un ripercuotersi? Questo concetto del «dare inizio», così importante nella filosofia kantiana e così fortemente ripreso in autori novecenteschi come Romano Guardini o Hannah Arendt, può essere utile per intendere questa sottolineatura della libertà anche in Rosmini e per approdare a un concetto di libertà, che rimanda non tanto a una scelta tra alternative già costituite, ma alla scelta tra «dare inizio» e replicare.
In questa direzione si può intendere il concetto di libertà giuridica in Rosmini proprio come «libertà d’iniziativa», come libertà, appunto, di «dare inizio»: la «libertà giuridica», dice il nostro autore, è «principio di attività», «fonte di azioni» (Rosmini 2014a, p. 233). Non dunque spazio, ma attività, anzi principio di attività, fonte di quelle azioni che sono propriamente «iniziative». «La libertà giuridica - scrive ancora Rosmini – è cosa semplice; consiste in una facoltà suprema di operare» (ivi, p. 28). Dunque questo «principio» di attività, che è la libertà giuridica, è una «facoltà» ossia non uno spazio vuoto, ma una capacità, una «potestà» che nell’uomo è «suprema», in quanto «non v’ha alcun principio attivo, che possa fisicamente e moralmente violentare e sottomettere quella facoltà» (ibidem). In senso proprio, dunque, la libertà è un concetto «semplice», ricavabile dalla natura stessa dell’uomo, dal suo modo d’essere, che è appunto quello di un essere attivo il cui agire è principiato da lui stesso. Un essere dotato di libertà giuridica è appunto un soggetto, ossia un essere che è iniziatore delle proprie azioni: «il concetto del diritto suppone primieramente una persona, un autore delle proprie azioni [...]. Acciocché dunque un essere si possa dire autore delle sue azioni, bisogna che EGLI sia quegli che le fa: questo EGLI esiste solo, se conosce e se vuole: in breve, se è una persona» (ivi, p. 177). Questa possibilità e capacità di essere fonte di un agire (o di un patire) è la persona stessa, è la libertà giuridica, è il diritto umano sussistente.
Nella prospettiva metafisica di Rosmini, questa libertà giuridica, come facoltà suprema, deriva all’uomo non da sé. La possibilità di «dare inizio» gli deriva dal fatto che «il soggetto è partecipe di una entità infinita e può cavare da questa entità infinita un’attività superiore a tutte le altre attività». Il fondamento della libertà umana è dunque la sua partecipazione all’essere infinito, che lo libera da ogni soggezione alle realtà finite: alle necessità assolute della natura, come ai comandi assoluti degli altri uomini. C’è qui una rilevanza giuridica della relazione ontologica con Dio e c’è quindi una lesione di diritti ogni qualvolta venga turbata o alterata la naturale unione e ordinazione che ha il soggetto all’essere puro, la sua ricerca della verità, della virtù, della felicità e beatitudine.
In ogni caso, per questo suo carattere assolutamente originario, fontale, la «libertà giuridica» è definita da Rosmini non come un diritto, ma come «il principio formale di tutti egualmente i diritti», laddove la «proprietà» è il principio di «determinazione di tutti i diritti». Tutti i diritti quanto alla loro fonte e alla loro forma sono dunque diritti di libertà. La libertà giuridica è dunque questo principio fontale dell’attività propria di un soggetto considerata in quanto semplice attività. Quando una tale attività nel suo determinarsi entra in relazione con la realtà esterna, con la realtà delle cose, assume il carattere di «proprietà». Nel suo agire, nel suo essere iniziatore, nel suo avere iniziativa, l’uomo si serve delle cose, le coinvolge in questo suo dar vita al nuovo e le fa proprie. La «proprietà» prima che un dominio sulle cose esterne va presa per Rosmini «nella sua estensione originaria e nativa; nella quale significa tutto ciò che la persona ha seco congiunto come parte di sé, ossia come suo» (ivi, p. 234). La proprietà è un trarre a sé le cose instaurando con esse un legame particolare, potremmo dire «umanizzandole»: per questo la «proprietà» è per Rosmini «principio di determinazione dei diritti». La proprietà è ciò che fa entrare «la materia nella sfera del diritto».
La libertà, potremmo dire, è principio di personalizzazione dell’agire, in cui cioè l’agire è agire di un autore, sottratto alla meccanicità della ripetizione; la proprietà è principio di personalizzazione delle cose, in cui cioè le cose sono cose di qualcuno, per qualcuno, sottratte al destino della materia inerte e senza nome.
Pare importante nella considerazione della filosofia rosminiana della libertà e della proprietà tenere presente questo forte principio umanistico o, meglio, personalistico con cui il nostro autore interpreta questi due grandi temi. Attraverso questo principio, infatti, la libertà del singolo viene sottratta a una concezione meramente naturalistica e viene radicata in un rapporto con la trascendenza che non la limita, ma anzi la espande. Allo stesso tempo il principio di personalizzazione, con questa sua forte connotazione affettiva della relazione tra il singolo e le cose, sottrae la concezione della proprietà ad un orizzonte meramente utilitaristico per iscriverla fin dalla sua origine in un orizzonte umanistico. Entrambi i valori trovano il loro fondamento e il loro compimento nella giustizia, intesa come conformità all’essere.
Come si legge nel La costituzione secondo la giustizia sociale: «Due sono i bisogni della società, due li scopi di ogni Governo: la giustizia e l'utilità. Se il Governo è così organizzato che renda veramente giustizia a tutti, e nello stesso tempo che promuova l'utilità di tutti, e gli è perfetto. Tutti i diritti degli uomini si riducono a due gruppi, al gruppo di quelli che si raccolgono sotto il nome di LIBERTÀ, e sono il libero onesto esercizio di tutte le facoltà, e al gruppo di quelli che si raccolgono sotto il nome di PROPRIETÀ» (Rosmini 2017, p. 71).
Nell’enunciare questi due criteri, e i beni ad essi relativi, Rosmini si guarda bene dal porli sullo stesso piano. Tra i due, infatti, egli attribuisce un deciso primato al principio di giustizia che appare, nella sua concezione, appartenere decisamente ad una dimensione trascendente, che si sottrae alla contingenza storica ma i cui principi possono essere colti da ogni intelletto umano e, come tali, sono vincolanti per tutti gli uomini e per tutti i poteri.


3. La persona e i suoi diritti

Questa concezione della libertà e dei diritti ad essa connessi, che viene fondata teoricamente nella Filosofia del Diritto, trova concretizzazione nel progetto di costituzione che Rosmini pubblica nel 1848 sotto il titolo La costituzione secondo la giustizia sociale. Questo testo fondamentale si apre all’articolo 2 con la solenne affermazione: «I diritti di natura e di ragione sono inviolabili per ogni uomo» (ivi, p. 85). Con questa formulazione Rosmini intende non solo sancire la derivazione dei diritti fondamentali dalla natura razionale dell’uomo e quindi ribadire il fatto che il potere politico non può disporre di essi, ma vuole anche affermare come tali diritti, derivando dalla natura umana, che è uguale in tutti gli uomini, siano propri di ogni uomo indipendentemente dalle sue condizioni di cittadinanza.
Identificare i diritti dei cittadini con i diritti degli uomini in quanto tali significa per Rosmini assolutizzare l’appartenenza politica, finendo per negare a chi non fa parte di una determinata comunità politica, ad esempio agli stranieri, ogni diritto: «È conforme alla dignità di uno Statuto Costituzionale che incominci dal proclamare inviolabile il diritto di natura e di ragione. Con ciò viene dichiarato che egli si fonda sul rispetto dovuto all’umanità: si provede lo Stato contro l’egoismo nazionale sempre inclinato a rinserrarsi in sé stesso: è una solenne lezione data ai popoli, una protesta contro quelle leggi pagane o barbare che confondevano l’ospite coll’amico, rendendo impossibile che si rinnovino, giacché i diritti degli stranieri con ciò sono riconosciuti anch’essi e sanciti» (Rosmini 2017, p. 85).
Ogni società civile è dunque obbligata a considerare tutti gli uomini come uguali sotto il profilo dei diritti di natura e di ragione e a tutelarli in modo uguale senza fare distinzioni di razza o condizione sociale. Questa è propriamente l’uguaglianza giuridica, ossia l’uguaglianza di fronte ai tribunali che Rosmini tiene a distinguere in modo netto dall’uguaglianza costitutiva, che comporta invece l’attribuzione a tutti i cittadini in modo uguale di una stessa quantità e qualità di diritti. Mentre il primo tipo di uguaglianza è richiesto dalla giustizia stessa - e specificamente, come Rosmini spiega nella Filosofia del Diritto, dalla giustizia commutativa che impone di operare secondo il principio: «Attribuisci il diritto alla persona a cui appartiene, qualunque ella sia, considerandole tutte come eguali fra loro» -, il secondo tipo di uguaglianza non è invece conforme alla giustizia, poiché questa - come giustizia distributiva - esige che venga dato a ciascuno il suo, ossia a ciascuno in proporzione a ciò che gli spetta secondo il principio: «Rispetta ciascuna persona in proporzione de’ diritti ch’ella possiede» ossia «rispetta in ogni persona tutti i suoi diritti» (Rosmini 2016, p. 464).
Da un lato, dunque, Rosmini è impegnato a sottolineare l’obbligo da parte dei poteri della società civile di non fare alcuna discriminazione nel rispetto e nella tutela dei diritti di ciascun uomo, includendo nei soggetti da tutelare anche gli stranieri ed offrendo un concetto di “cittadinanza” piuttosto ampio e comprensivo («Egli è conforme allo spirito d’una larga Costituzione che la qualità de’ cittadini non sia negata a nessuno di quelli che si governano colle stesse leggi, sotto lo stesso Capo» (Rosmini 2017, p. 108); dall’altro egli si mostra assai preoccupato di evitare che il potere politico possa essere esercitato secondo logiche egualitaristiche volte a trattare tutti in modo indifferenziato, indipendentemente dai diritti posseduti e dai meriti acquisiti. La polemica di Rosmini - soprattutto nel rifacimento del progetto di costituzione seguito alle radicalizzazioni degli eventi quarantotteschi - è rivolta esplicitamente contro i movimenti socialisti, come si legge nel seguente passo: «I socialisti adunque, i comunisti, i livellatori d’ogni specie distruggono l’uguaglianza de’ cittadini, la vera e legittima loro uguaglianza che è la giuridica: applicano loro principj e misure diverse: sostituiscono al diritto l’arbitrio» (ivi, p. 110). La preoccupazione rosminiana di uno slittamento dal piano dell’eguaglianza giuridica a quella costitutiva è così forte, ch’egli non usa nemmeno l’espressione «uguaglianza di fronte alle leggi», ma - come abbiamo visto - l’espressione «uguali in faccia ai tribunali», sostenendo che la prima espressione potrebbe ingenerare degli equivoci, posto che «non tutte le leggi sono fatte immediatamente per tutti i cittadini, ma molte sono fatte per una classe di essi cioè per quelli che hanno il titolo al quale possono essere applicate le leggi. Vi saranno delle leggi, a ragion d’esempio, che regoleranno l’esercizio della medicina. Esse non possono riguardare se non i medici» (ivi, p. 110).
Questa preoccupazione rosminiana di evitare che l’uguaglianza giuridica venga intesa come uguaglianza sociale incide anche sulla particolare forma di organizzazione politica disegnata da Rosmini, che prevede - come vedremo meglio - una diversa partecipazione dei cittadini alla vita pubblica a seconda della diversa condizione sociale.
All’interno di questi «diritti di natura e di ragione» si pongono per Rosmini quelle fondamentali articolazioni della libertà che la società civile deve tutelare e promuovere e che si possono sostanzialmente riassumere nella libertà personale, libertà religiosa e di pensiero, libertà economica, libertà politica.


3.1. Libertà personale

Sul piano della libertà personale, Rosmini enumera nel suo progetto di costituzione il diritto a non essere arrestato né tratto in giudizio se non nei casi e nelle forme previsti dalla legge; l’inviolabilità del domicilio; il diritto ad essere giudicato dal proprio giudice naturale; nonché il diritto di viaggiare e di emigrare. A proposito di quest’ultimo, Rosmini afferma: «Il viaggiare in ogni parte del globo è un diritto di natura: l’emigrazione a chi la dimanda non può esser negata». Nel commento a questo articolo Rosmini riprende con vigore la visione scolastica di un diritto di natura all’emigrazione basato sulla destinazione universale dei beni della terra, criticando con forza ogni violazione di questo diritto da parte dei governi, ivi compresa l’imposizione di passaporti: «I governi hanno violato fin qui in diversi modi questi due diritti naturali che ha ciascun uomo di viaggiare e di emigrare, cioè di uscire dalla società civile a cui appartiene [...] il nostro Pianeta è stato assegnato alla specie umana ed ogni uomo dee poterlo trascorrere per ogni verso e fissare dove gli aggrada il suo domicilio salvi i diritti acquistati a giusto titolo da’ suoi fratelli. Col pretesto della sicurezza dello Stato furono da’ governi trovati i passaporti ed essi tosto se ne approfittarono facendoli servire al dispotismo, molestando in mille guise i cittadini e impedendo o difficultando loro i viaggi più innocenti e più utili alla loro istruzione ed a’ loro interessi. Anche il diritto d’emigrazione fu disconosciuto: egli è falso che un uomo debba, per esser nato in un luogo e sotto ad un certo governo, rimanersi perpetuamente ascritto a quella società civile nella quale a caso si trova: ogni società civile speciale è volontaria: quando il cittadino vuol cessare d’appartenervi, egli può domandare d’esserne sciolto, e gli dee essere conceduto, purché rinunzi ai vantaggi della medesima e soddisfi alle obbligazioni speciali che avesse contratto con esso lei o cogli altri sozj» (ivi, pp. 97-98).


3.2 La libertà economica

Sul piano della libertà economica, la posizione espressa da Rosmini nel suo progetto costituzionale è certamente una posizione liberale in senso classico. Nel testo del 1848 troviamo infatti una strenua difesa della proprietà e della sua inviolabilità (art. [26] 27) – che precede l’affermazione della libertà di commercio e di industria (art. [39] 40) e che fa della proprietà stessa l’asse portante del sistema politico rappresentativo preposto all'amministrazione degli interessi materiali della società civile - e una vigorosa critica nei confronti di politiche economiche dello Stato che prevedano la trasformazione di quest'ultimo in un imprenditore: «È una gravissima massima dell'Inghilterra che lo Stato non deve mai farsi imprenditore di speculazioni che appartengono di loro natura all'industria privata. Il governo della società civile non si dee convertire in un'azienda mercantile o industriale: questo va direttamente contro il fine della sua istituzione che è quello di proteggere la libertà e la concorrenza de' cittadini ai guadagni e non d'invaderla o di entrare esso stesso in concorrenza» (ivi, p. 143).
E tuttavia sarebbe errato concepire questa affermazione rosminiana della libertà economica come illimitata. La stessa inviolabilità della proprietà - perentoriamente affermata da Rosmini in polemica non solo contro le correnti socialiste, ma anche contro le politiche dei governi liberali tese ad espropriare le proprietà ecclesiastiche - trova un correttivo significativo nella sua subordinazione alle ragioni della pubblica utilità. L'art. 26 [27] recita infatti: «Tutte le proprietà sono inviolabili. Non è violazione di proprietà l'espropriazione forzata, quando lo esiga il pubblico bene legalmente accertato, mediante una giusta indennità conforme alle leggi» (ivi, p. 143) E più oltre nel commento a questo articolo si legge: «L'espropriazione per cagione di pubblico bene e colle condizioni stabilite in quest'articolo non è già un'eccezione al principio della inviolabilità della proprietà come viene proposta in alcune delle Costituzioni italiane fin qui pubblicate Statuto toscano: Art. 8: «Tutte le proprietà sono inviolabili salvo il caso di espropriazione per causa di utilità pubblica comprovata legalmente e previa indennità» [Nota di Rosmini], perocché con essa si sostituisce valore a valore e però con quella disposizione altro non si fa che un cangiamento nella modalità del diritto senza toccare la sostanza del diritto medesimo, il che non eccede la potestà della civile associazione» (ivi, p. 115).
In secondo luogo va rilevato come la sottolineatura della centralità della proprietà all'interno del sistema rappresentativo significa anche radicale responsabilizzazione di essa nei confronti dell'amministrazione della cosa pubblica. Tutto il regime fiscale previsto dal disegno rosminiano si basa infatti su due principi: il primo è quello del consenso degli interessati e per questo egli ritiene si debba negare potere decisionale in materia fiscale a chi non contribuisce con il proprio reddito alla formazione del bilancio dello Stato; il secondo è quello della rigorosa proporzionalità del prelievo, che sola corrisponde secondo il nostro autore a criteri di giustizia. Tale principio implica, ad esempio, l'eliminazione di ogni forma di imposizione indiretta.
Infine, il principio della libertà di commercio e di industria affermata in linea di principio può conoscere di fatto delle limitazioni temporanee là dove, ad esempio, in uno Stato sia prevalso per lungo tempo un regime protezionistico che ha indebolito l'economia interna: «In uno Stato nel quale prevalse il sistema proibitivo, e quindi le industrie ed i commerci hanno già preso una forma ed un corso eccezionale, non si può senza grave danno di molti distruggere d'un tratto quella condizione di cose contro natura pubblicando una piena libertà d'industria e di commercio; conviene dar tempo acciocché l'industria ed il commercio rinvenga dalla sua falsa strada e riprenda le sue vie naturali e libere. Conviene dunque che i Dazj sieno diminuiti gradatamente fino che si giunga allo stato naturale di piena libertà» (Rosmini 2017, p. 142).


3.3. La libertà politica e gli strumenti di garanzia

Tra le libertà politiche riconosciute dal progetto costituzionale rosminiano vi è quella di stampa (limitata dalla censura ecclesiastica che non ha tuttavia conseguenze penali), di associazione (con l'unica eccezione, sul piano politico, delle associazioni contrarie alla costituzione, non di quelle però che perseguano pacificamente l'obiettivo di riformarla), di riunione (purché pacifica), di accesso alle cariche pubbliche da parte di tutti i cittadini, di petizione.
Oltre al riconoscimento costituzionale di questi fondamentali diritti di libertà, Rosmini prevede la formazione di un sistema politico rappresentativo che tuteli in modo effettivo l'intera sfera delle libertà dei cittadini e ne renda pieno l'esercizio. È questo, infatti, il punto debole che il nostro autore individua negli assetti costituzionali usciti dalla Rivoluzione Francese e da essa influenzati: una forte proclamazione di diritti, una debole protezione di essi. «La cosa migliore che si fece nell’89 - scrive Rosmini - fu certamente la Dichiarazione de’ diritti dell’uomo e del cittadino proposta dal Lafayette a imitazione delle Costituzioni americane; ma mancava un tribunale corrispondente che la facesse valere» (ivi, p. 88).
Il sistema rappresentativo qui ipotizzato si fonda su due capisaldi: in primo luogo, la natura “doppia” e non univoca della rappresentanza politica; in secondo luogo, la necessaria connessione tra rappresentante e rappresentato.
Come abbiamo visto, per Rosmini l’insieme dei diritti dell’uomo e del cittadino si riducono alla libertà e alla proprietà e tali diritti vanno non solo solennemente affermati, ma anche efficacemente tutelati. Le due sfere - quella della libertà e quella della proprietà - benché intimamente connesse non sono tuttavia riducibili ad una sola e debbono essere mantenute distinte. Mentre sul piano della libertà tutti gli uomini sono uguali in quanto essa deriva da una uguale natura umana, sul piano invece della proprietà gli uomini si trovano in situazione diversa a seconda della loro concreta condizione sociale. Nel momento in cui essi costituiscono la società civile, essi portano con sé questa doppia dimensione che deve essere diversamente rappresentata.
Da un lato abbiamo la necessità di rappresentare gli interessi materiali dei cittadini attraverso un organismo che curi la buona amministrazione dei beni ch’essi mettono in comune al fine di rendere ordinata e prospera la loro convivenza. È questo per Rosmini il compito delle Camere, i cui membri devono essere eletti soltanto da coloro che concretamente contribuiscono alla ricchezza materiale di un paese, attraverso un meccanismo di rappresentanza che riconosca a chi più dà un maggior potere di decidere, secondo il principio che esige una connessione necessaria tra rappresentante e rappresentato. Il diritto di voto nelle elezioni delle Camere spetta dunque soltanto ai proprietari posto che Rosmini concepisce i Deputati esclusivamente come procuratori di interessi. Chi nulla mette in comune, non ha potere di decidere. L’elettorato passivo spetta invece a tutti i cittadini, in quanto anche dei non possidenti possono essere ottimi amministratori degli interessi altrui. Perché anche i nullatenenti possano esercitare questa funzione, nel caso in cui risultino eletti, è prevista un'indennità.
Le Camere hanno una funzione non meramente negativa, di “difesa” della proprietà, ma hanno anche una funzione positiva di “promozione” e valorizzazione dei beni. Per questo esse hanno non solo il potere di negare, ma anche quello di imporre, organizzare, stabilire azioni e istituzioni atte a raggiungere questo scopo: «per tutelare la proprietà esterna e i diritti che a lei s'attengono, per impedire che le proprietà degli uni vengano in collisione con quelle degli altri, e nella collisione trovare la via media d'un equo componimento, per promuovere lo sviluppo molteplice e complicato di tali proprietà, per regolarne l'uso senza limitarlo [...] è necessario stabilire un'amministrazione comune, un comune consiglio de' proprietari, i quali discutendo su' comuni interessi si accordino circa la maniera di reggerne le modalità e di far prosperare proporzionatamente l'avere di tutti» (ivi, p. 202).
Diversa invece è la rappresentanza dei diritti di libertà, affidata da Rosmini ad un organo indipendente, anch'esso elettivo, che egli definisce “Tribunale politico”. Mentre il primo organo ha una funzione anche positiva di “amministrazione” di beni, questo secondo esercita invece una funzione squisitamente “giurisdizionale” e dunque “negativa”: esso difende i diritti di tutti dai possibili attacchi che possono giungere da parti diverse alla libertà: «Di che ha bisogno questo gruppo di diritti [ossia quello connesso alla libertà] per essere pienamente protetto? Non ha bisogno che di difesa: ha bisogno di esser difeso per modo che la persona non riceva danno od ingiuria, e che non sia posto alcun ingiusto impedimento allo sviluppo di sue facoltà, giacché la libertà consiste nel libero uso di queste. Ora per conseguire un tale scopo non fa mestieri di stabilire alcuna amministrazione: basta un tribunale giusto e retto, e delle leggi che dichiarino a pieno l'estensione di tali diritti» (ivi, pp. 201-202).
La parte certamente più innovativa - e interessante per il presente - della proposta rosminiana sta in questo organismo del Tribunale politico: «Per Tribunali politici noi intendiamo quelli che vegliano immediatamente all'esecuzione della Costituzione, che guarentiscono i diritti sociali riconosciuti da questa, che difendono i poteri costituiti nella società civile impedendo invasioni reciproche» (ivi, p. 227). Oltre a ciò Rosmini attribuisce al Tribunale politico il compito di “rappresentare” in forma pubblica, partecipata e solenne la giustizia. Proprio per questo il tribunale è eletto a suffragio universale, perché ogni cittadino deve sentirsi rappresentato e tutelato, deve poter avere un canale istituzionale attraverso il quale far valere i propri diritti nei confronti dei pubblici poteri. Se ciò non fosse, al cittadino non resterebbe altro diritto che quello di resistenza, con conseguente permanente agitazione della vita costituzionale. È il risentimento contro l'ingiustizia che fa rivoltare gli animi, per Rosmini, e se questo sentimento non trova adeguata rappresentazione e rispondenza istituzionale, finisce per provocare rivolte.
Più specificatamente i Tribunali politici esercitano un potere di vigilanza e controllo sull'esercizio dei diritti politici e sugli atti dei poteri pubblici, tra cui: controllo sull'esercizio di voto da parte dei cittadini, controllo di legittimità sull'elezione dei deputati, giurisdizione su deputati e funzionari pubblici in caso di reati di corruzione o simili, giurisdizione sui reati di abuso della libertà di stampa, di insegnamento, di associazione - ivi compresi i casi di associazioni religiose -, controllo di costituzionalità delle leggi, controllo di legittimità sugli atti dei poteri pubblici.
Come si vede molte funzioni affidate da Rosmini al Tribunale politico sono funzioni esercitate dalle Corti Costituzionali (ed egli aveva certamente presente - attraverso Tocqueville - l'esperienza fondamentale della Corte Suprema americana) e dalle diverse istanze dei tribunali amministrativi. Ma i poteri di quest'organo si spingono oltre e i suoi compiti di tutelare i diritti personali dall'invadenza dei pubblici poteri, nonché la tutela delle minoranze anche politiche, anticipano le funzioni che nei moderni ordinamenti sono affidati ad una pluralità di organismi, spesso non ben definiti: dai difensori civici che tutelano i diritti dei cittadini dagli abusi della pubblica amministrazione, ai garanti delle minoranze, alle diverse forme di authorities o comitati (si pensi ai diversi comitati etici) di varia natura.


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