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L’estetica della rappresentanza nell’epoca del populismo

Roberto Vicaretti
Articolo pubblicato nella sezione "La rappresentanza politica tra quantità e qualità"

Usata da alcuni come insulto, rivendicata da altri come qualità fondante l’azione politica, populismo è la parola chiave per raccontare, descrivere e analizzare il dibattito pubblico degli ultimi anni.
Senza ideologie, senza visioni, senza partiti, priva di un linguaggio comune e della condivisione delle regole del gioco democratico, la nave della politica si è ritrovata - non per uno scherzo del destino – in acque inesplorate e a corto di categorie. E così, si è andati a ripescare dalla cassetta degli attrezzi il termine populismo utilizzato e riadattato alla nuova stagione politica.
È un fenomeno nuovo? Assolutamente no.
È il ritorno di situazioni, linguaggi, suggestioni già viste in passato? La risposta, anche in questo caso, è negativa anche se a tanti ha fatto comodo rievocare drammatici e terribili fenomeni politici del passato per alimentare un racconto uguale e contrario a quelli dei propri antagonisti politici.
Nella narrazione politica populista la rappresentanza, la sua esaltazione e, allo stesso tempo, la sua negazione hanno un ruolo fondamentale. Il rimando costante al popolo è esattamente il tentativo di elevare all’ennesima potenza il concetto democratico di rappresentanza. Ma, contemporaneamente, l’affidarsi totalmente e completamente al carisma del leader, alle sue intuizioni e alla sua strategia è la dimostrazione di quanto sia ampia la delega che il popolo consegna al suo capo. L’affermazione del populismo, quindi, porta con sé un gioco costante di dare e avere, aggiungere e sottrarre quote di rappresentanza, esaltazione e regressione del ruolo del popolo.
In queste prime righe abbiamo già citato più volte le due parole chiave di questa riflessione: popolo e rappresentanza. Il legame tra questi due concetti è assolutamente centrale nella propaganda populista, un binomio indissolubile e “spacciato” come democraticamente inattaccabile. Cosa c’è di più democratico che dare rappresentanza a bisogni, desideri e paure del popolo? Apparentemente nulla. In realtà, siamo davanti a una fortissima illusione ottica perché il termine che andrebbe accompagnato a rappresentanza è cittadino. È l’uomo in quanto cittadino ad avere il diritto/dovere di essere rappresentato, è il singolo cittadino ad avere necessità, aspettative, richieste da far valere nel gioco della politica. È il cittadino il perno del gioco democratico, il cuore pulsante del concetto stesso di rappresentanza. Non il popolo esaltato dalla retorica populista, ma, allo stesso tempo, retrocesso (o promosso, scegliete voi) a indeterminato (e indeterminabile) unicum puro e incorruttibile da tutelare e proteggere. Non c’è discorso, intervista o intervento sui social che veda al centro delle parole dei leader populista il termine “cittadino”. Non è una dimenticanza, ovviamente, e, allo stesso tempo, non è vezzo. È una scelta politica, che si porta dietro un risultato: la semplificazione massima della proposta politica, che diventa unica, semplice, banale. Non c’è spazio per la complessità della rappresentanza di una società composita come quelle contemporanee nella narrazione populista. E, di conseguenza, non può esserci spazio per i cittadini, per le categorie sociali, per le classi (ammesso che ci sia ancora qualcuno che consideri valida e politicamente spendibile questa espressione) e i loro variegati pacchetti di interesse. E se qualcuno protesta, fa sentire la propria voce, prova a tutelare le proprie peculiarità, il leader e il movimento populisti brandiscono la clava del volere del popolo per farlo tacere. Ed ecco che, date le premesse, tutto - la proposta politica, le misure messe in campo, la loro giustificazione – si semplifica e perde colore. Colore politico, ovviamente. Per il populista (leader o movimento non fa differenza) non esistono destra e sinistra, conservatori e progressisti, liberali e socialisti, laici o cattolici. Questi mondi nella narrazione populista vengono spazzati via da una nuova (e incomprensibile) categoria assolutamente apolitica: il buonsenso. La soluzione a un problema, una misura di politica economica o un provvedimento sociale non sono mai di destra o di sinistra nella propaganda populista. Sono di buonsenso e, quindi, non criticabili, non contestabili e non attaccabili se non, rimanendo nel mood populista, da chi rappresenta interessi di parte, nascosti, oscuri, magari illegali e certamente contrari al bene del popolo. Il passaggio successivo è, ovviamente, l’uso e l’abuso della retorica – sempre feconda, soprattutto in Italia – dei poteri forti.
La soluzione, si diceva, è di buonsenso, ma anche assolutamente semplice. Non c’è problema complesso che non possa risolversi con un semplice provvedimento che gli altri (politici e partiti dell’arco costituzionale) non hanno voluto e non vogliono mettere in campo per continuare a fare i propri interessi alle spalle del popolo. Gli ultimi due anni e mezzo, da questo punto di vista, sono stati un vero e proprio bignami dal quale attingere per carpire gli elementi base del mondo populista. E così il reddito di cittadinanza ha sconfitto la povertà come da retorica del balcone nel corso del Conte 1; i porti chiusi (che chiusi, poi non sono mai stati) hanno fermato una invasione immaginata e narrata ad uso e consumo della doppia propaganda dei partiti dell’allora governo; fermare eventi e opere ha cancellato la corruzione. Affermazioni tanto surreali da sembrare inadatte al discorso politico e democratico, ma che, invece, hanno dominato il dibattito pubblico italiano.
In tutta evidenza, davanti a una impostazione del genere, le prime vittime dell’estetica della rappresentanza dei populisti sono... i campioni della rappresentanza dei sistemi democratici: i partiti. Rifiutati, disprezzati e derisi dai populisti insieme a tutti i corpi intermedi - ad iniziare dai sindacati e dalle associazioni di categoria - e ai luoghi e alle regole del discorso democratico e repubblicano e della politica stessa. È un rifiuto totale, che può essere archiviato per opportunismo in una determinata fase della vita di un movimento populista, ma che è destinato a tornare a galla nel primo momento utile perché rappresenta un pilastro dell’estetica della rappresentanza populista. Sarebbe superfluo ripercorrere in questa sede il lungo elenco di insulti e attacchi che i populisti italiani hanno riservato negli ultimi 15 anni al sistema dei partiti, alla loro organizzazione interna e alla modalità di selezione della classe dirigente. Attacchi e insulti che erano un condensato di giustizialismo spicciolo (il Pd rappresentato come Piovra nell’universo grillino è stato per anni un must della propaganda 5Stelle come pure lo slogan «arrendetevi, siete circondati») e sessismo (l’ex presidente della Camera, Laura Boldrini, è stata più volte oggetto di violenti attacchi da parte del mondo – social e non solo - della destra leghista in questi anni, come pure le donne dem, alcune delle quali vennero pesantemente insultate da un deputato grillino durante una riunione della commissione Giustizia alla Camera dei deputati) conditi, come vedremo a breve, da una ricca dose retorica aggressiva. Ma, come detto, non solo i partiti sono finiti nel mirino della propaganda populista in nome della “vera” rappresentanza. Stessa sorte, seppur con un’intensità minore, è toccata ai sindacati - definiti in pieno Tsunami Tour, la campagna elettorale grillina per le Politiche del 2013, «una struttura vecchia come i partiti» della quale «non c’è più bisogno» - e agli industriali per un periodo non proprio simpaticamente ribattezzati “prenditori”. Ovviamente una visione tanto “radicale” – per non dire fuorviante – della rappresentanza non poteva risparmiare i luoghi, i riti e le dinamiche della politica tradizionale, quelli che nei sistemi democratici danno corpo e sostanza alla rappresentanza. Ed ecco che Camera e Senato dovevano essere superati in nome e per conto delle magnifiche sorti e progressive della tecnologia che avrebbe spalancato la strada alla democrazia diretta. I confronti fra forze politiche dovevano essere fatti alla luce del sole, visibili a tutti in diretta streaming. La mediazione, il compromesso e, ovviamente, il dissenso condannati come i peggiori dei mali. Il tempo e la realtà si sono caricati il peso di svelare la distanza tra propaganda e pratica politica, ma questi concetti restano ancora oggi centrali per comprendere la dell’estetica della rappresentanza populista.
Resta da analizzare ancora un elemento: il linguaggio. La retorica populista alterna violenza verbale e paternalismo per essere pienamente funzionale alla visione della rappresentanza che esiste a quelle latitudini politiche. Esalta il popolo e lo aizza contro il nemico di turno (politici, partiti, stampa indipendente in primis), ma allo stesso tempo lo tiene buono, in silenzio, in uno stato infantile e di minorità perché non in grado di comprendere quanto di buono si è fatto, si sta facendo e si farà per l’interesse generale. Il linguaggio populista è, inoltre, intriso di maschilismo e machismo con le donne che finiscono per essere destinatarie degli attacchi e degli insulti peggiori. Il linguaggio populista condensa tutti gli elementi prima citati: è banale, semplice, diretto. È intriso di un non meglio identificato buonsenso, alle citazioni dotte preferisce le sgrammaticature, piega i numeri e le statistiche, spesso è smaccatamente carico di menzogne (o fake news, come si dice oggi) e non ha alcun problema a contraddirsi anche clamorosamente. È, ovviamente, anche un linguaggio pop, anzi ultrapop non solo nelle dichiarazioni, ma anche nello stile e nella gestualità. Il leader populista usa la lingua del popolo, mangia come il suo popolo, veste come il suo popolo, si diverte, si arrabbia e si innamora come il suo popolo. Fa colazione con la nutella, si bacia in un prato con la nuova fidanzata e poco, anzi nulla, disturba la presenza di uno smartphone o di un fotografo chiamato all’occorrenza per costruire la finzione di uno scatto rubato e alimentare la propaganda.
Evidentemente la disintermediazione social ha avuto un ruolo fondamentale nell’affermazione del linguaggio e della proposta politica populista. È accaduto in Italia, in Europa e negli Stati Uniti. Le piattaforme social sono state e sono lo strumento perfetto per la propaganda. Danno l’illusione di un rapporto diretto con il leader, di una comunicazione spontanea e naturale con un grande protagonista della vita politica; accorciano le distanze della rappresentanza, quasi le annullano. Ma, come detto, si tratta di una illusione. Di spontaneo, naturale, diretto non c’è nulla. Il leader e il suo staff organizzano, programmano, studiano ogni gesto, linguaggio, scenario per essere più incisivi possibile. Al follower sostenitore non resta che ricevere il messaggio e rilanciarlo.
Quanto scritto finora, in realtà, ha poco o nulla di rivoluzionario. I caratteri di quella che abbiamo definito l’estetica della rappresentanza populista sono noti da tempo. Alla base di questo stile comunicativo non ci sono teorie innovative, visioni nuove rispetto al passato prossimo o remoto che sia. Quello che si è fatto – e che sta alla base del successo dell’estetica populista – è miscelare soluzioni e tecniche del passato depurate da alcuni errori o messaggi non più adatti ai tempi per adagiarle sui nuovi strumenti e canali della comunicazione e, soprattutto, farle vivere in una realtà socio-economica decisamente diversa rispetto al passato. Tuttavia, le esperienze degli anni scorsi sono un elemento importante perché hanno posto le fondamenta per il successo populista dei giorni nostri.
Chi è nato negli anni ’80 o prima ha stampato in testa un passaggio che ha cambiato per sempre la politica italiana: la discesa in campo di Silvio Berlusconi. Un messaggio registrato, spedito alle redazioni dei telegiornali per essere trasmesso agli italiani. In quel vhs c’era molto dell’estetica populista di oggi. Molto, ma non tutto. Molto, ma qualcosa in meno. C’era, ovviamente, l’abc della disintermediazione: nessuna domanda, nessun giornalista, nessuna persona tra il leader e gli italiani. C’era il linguaggio semplice e diretto («L'Italia è il Paese che amo. Qui ho le mie radici, le mie speranze, i miei orizzonti. Qui ho imparato, da mio padre e dalla vita, il mio mestiere di imprenditore» – è il celeberrimo incipit della discesa in campo); c’era l’attacco alla classe politica tradizionale («La vecchia classe politica italiana è stata travolta dai fatti e superata dai tempi. L'autoaffondamento dei vecchi governanti, schiacciati dal peso del debito pubblico e dal sistema di finanziamento illegale dei partiti, lascia il Paese impreparato e incerto [...] Ciò che vogliamo offrire agli italiani è una forza politica fatta di uomini totalmente nuovi. Ciò che vogliamo offrire alla nazione è un programma di governo fatto solo di impegni concreti e comprensibili»); c’era, seppur solo in quella fase, una collocazione politica non tradizionale, svincolata dal passato; c’era, infine, una costruzione visiva capace di entrare nell’immaginario collettivo e di essere riconoscibile e condivisibile da tutti (una semplice libreria, la foto di famiglia, un comune tavolo da lavoro).
Accanto a queste similitudini, però, non mancano tante differenze. In primo luogo, manca del tutto ogni possibilità di interazione tra lo spettatore e il leader che, come abbiamo detto, è centrale nell’estetica della rappresentanza populista contemporanea. Ma la differenza maggiore riguarda le suggestioni. In quanto sto per scrivere non c’è alcuna valutazione politica sulla stagione berlusconiana né sul Cavaliere, ma una lettura – il più possibile fredda – di alcuni elementi caratterizzanti. Al di là delle definizioni che Berlusconi ha dato di sé (liberale, socialista craxiano, repubblicano, cattolico democratico... praticamente una per ciascun giorno della settimana), quello che è certo e indiscutibile è che il leader di Forza Italia sia stato un ottimista. È la sua natura di imprenditore a renderlo tale e questo carattere personale è centrale nella sua narrazione politica. Berlusconi è e sarà sempre il leader politico “con il sole in tasca”; il messaggio che offre è sempre positivo, conosce le paure degli italiani, sa maneggiarle, ma per offrire loro una prospettiva di crescita in un mondo a colori, non un futuro fatto di cupezza. Un elemento che manca completamente nella proposta politica dei populisti di oggi. Berlusconi dava rappresentanza ai sogni (anche proibiti) e ai desideri degli italiani, mentre il populismo di questa stagione incarna e, allo stesso tempo, alimenta le nostre paure, ne crea di nuove, ma difficilmente offre una speranza; offre soluzioni sì, ma di mantenimento, non di crescita. Chi ha votato in quegli anni Silvio Berlusconi lo ha fatto nella malcelata speranza di poterne ripercorrere le gesta, magari in sedicesimi; di vedere l’Italia crescere e tornare protagonista nel mondo. Tutto questo nell’estetica populista non trova posto. Non è un caso: movimenti e leader populisti di oggi si siano affermati dentro una delle crisi economiche più devastanti del dopoguerra, la prima che ha tolto la speranza verso il futuro, la prima che ha minato la certezza che la generazione più giovane avrebbe avuto condizioni di vita migliori. Il tradimento della promessa del binomio democrazia/capitalismo è la prima ragione del successo dei movimenti populisti in Italia e nel mondo. Nel nostro Paese, però, c’è stato qualcosa di più: la demolizione della politica, della sua autorevolezza, delle sue qualità. Da Tangentopoli in avanti il processo di distruzione della credibilità della politica e dei politici non ha avuto pause. Questo, evidentemente, non vuol dire che quei politici e quei partiti non avessero colpe o responsabilità o che le inchieste degli anni seguenti non siano state la testimonianza di un sistema che una enorme questione morale. Ma la narrazione politica e giornalistica ha teso a colpevolizzare non solo i comportamenti e i singoli, ma l’intera categoria della politica. I “colpevoli” non erano questo o quel ministro o parlamentare, ma i politici e i partiti. Tutti. Un mood che negli anni si è autoalimentato (in quegli anni si affermano tribuni sia televisivi sia da carta stampata e hanno grande successo i libri contro la Casta) fino a coinvolgere l’intero panorama parlamentare. E, ovviamente, un’opinione pubblica tanto aizzata contro il sistema dei partiti non poteva che cercare altrove la risposta al proprio bisogno di politica. E, così, gli italiani sono andati alla costante ricerca dell’uomo nuovo (o del movimento nuovo), alieno rispetto al sistema dei partiti e capace di salvare le sorti del Paese: Berlusconi, Di Pietro, il popolo dei girotondi, il popolo viola, Grillo e il Movimento 5Stelle, Matteo Renzi e Matteo Salvini. Con gli ultimi due a fare da eccezione, visto che sono entrambi politici di professione, nati e cresciuti dentro i partiti tradizionali, ma capaci di presentarsi come elementi innovativi e di rottura rispetto al passato e, non a caso, portatori di messaggi aspramente critici nei confronti delle leadership precedenti dei loro partiti: Renzi con la retorica della rottamazione, Salvini con la critica diretta al padre della Lega, Umberto Bossi.
La crisi economica che ha messo in discussione il patto tra democrazia e capitalismo e una costante e incessante campagna politico-giornalistica nei confronti della politica sono state, dunque, il catino socio-culturale, che hanno reso possibile una visione nuova della rappresentanza politica e, al contempo, fatto fermentare il populismo portandolo nel nostro Paese a livelli di consenso unici in Europa. A questo, però, va aggiunto un ulteriore elemento, a mio avviso decisivo, per l’affermazione di questo modello: la resa culturale del resto del mondo politico. La reazione dei partiti tradizionali all’offensiva populista, infatti, non è stata una battaglia di “orgoglio politico”, di rivendicazione del primato della politica, delle sue liturgie e della sua specificità. Se è vero che alla base della nascita dei movimenti populisti c’erano guasti e problemi reali della politica, non è affatto vero che la risposta dovesse essere necessariamente apolitica o che partiti e leader dovessero necessariamente piegare il proprio linguaggio e il proprio messaggio al vento “nuovo” del populismo. E, invece, è esattamente quello che è successo. La storia recente del Pd, unico partito nato e cresciuto nella Seconda Repubblica ad aver sempre mantenuto rilevanza politica in questi anni, ne è la dimostrazione. La narrazione della rottamazione è stato il modo scelto dal centrosinistra per stare nel mood contemporaneo dominato dall’antipolitica con una retorica che dell’estetica populista condivideva lo stile (la disintermediazione costante e aggressiva), il linguaggio (diretto, estremamente semplificato e banale), gli slogan («Cara Italia, vuoi diminuire il numero dei politici? Basta un Sì» – era il testo di uno dei manifesti della propaganda renziana per il referendum costituzionale del 4 dicembre), e le insofferenze verso corpi intermedi, rituali di partito e critiche del mondo intellettuale. Non a caso, molti analisti politici – da Marco Revelli a Nadia Urbinati, passando per Piero Ignazi - hanno accostato anche alla stagione renziana del Pd l’aggettivo populista. La passata segreteria Zingaretti, arrivata dopo il disastro elettorale del Pd di Renzi alle politiche del 2018, doveva segnare un cambio di passo, una presa di distanze da quel modello politico e comunicativo, ma il risultato finale è, per assurdo, l’inseguimento costante al campione del populismo italiano – il Movimento 5Stelle – nella speranza di costruire una alleanza politica da presentare agli elettori e l’assegnazione della leadership del campo progressista a un esponente politico che nella sua prima esperienza a Palazzo Chigi – appena due anni fa – non aveva esitato a rivendicare su di sé e sul suo governo l’aggettivo populista. È evidentemente troppo presto per capire se il nuovo corso dem incarnato da Enrico Letta vorrà o sarà in grado di muoversi in modo alternativo
Ora, si dice, l’Italia vive una stagione nuova iniziata con la nascita dell’esecutivo guidato da Mario Draghi. Da più parti si è sottolineato che questa fase possa aprire un percorso di riflessione e rigenerazione nella politica italiana, da alcuni descritta come commissariata dall’ex presidente della Banca centrale europea. È presto per capire se questi auspici abbiano reali possibilità di concretizzarsi, ma – in tutta onestà – appare quantomeno complicata una palingenesi positiva. Tuttavia, per concludere resta un’ultima considerazione legata proprio all’avvio di questa nuova esperienza di governo in riferimento a quella che abbiamo definito l’estetica populista. L’arrivo del tecnico per antonomasia alla guida del governo segna la sconfitta dei populisti? La tentazione sarebbe quella di dare una risposta tutta affermativa a questo interrogativo, ma si rischierebbe di non cogliere alcune sfumature. Il motivo di questo scetticismo, ovviamente, non è legato alla presenza determinante in maggioranza delle due forze che incarnano il populismo all’italiana, Lega e Movimento 5Stelle, legate da una buona dose di opportunismo a questa nuova avventura di governo. Non c’entra, com’è evidente, nemmeno il linguaggio visto che il nuovo corso a Palazzo Chigi è segnato da una comunicazione limitata, tutta istituzionale e che nulla concede al pop (con buona pace dei colleghi che già si sono esercitati in affascinanti racconti su Draghi e il cane, Draghi e la spesa al supermercato e Draghi e la campagna umbra; sintomi questi dei mali dell’informazione e non della strategia comunicativa del nuovo presidente del Consiglio). Ci sono, però, due fattori che fanno dire che l’estetica populista ha lasciato una eredità pesante a questa nuova fase. In primo luogo, la sconfitta dei partiti e della politica tradizionale, la loro subalternità ai tecnici, la resa totale ai “migliori”, il passo indietro completo su programmi, progetti e politiche. Ogni cosa affidata all’ex banchiere centrale, in un secondo elevato al rango di SuperMario. E tutto sotto la protezione del Quirinale che, com’è ovvio che sia, nei momenti di estrema debolezza della politica tende ad ampliare le proprie prerogative come ha efficacemente sintetizzato Giuliano Amato con l’immagine della fisarmonica dei poteri del Colle. Questo clamoroso passo indietro dei partiti è, inoltre, propedeutico a un secondo punto: la spoliticizzazione delle politiche. Un bisticcio linguistico che, tuttavia, serve a spiegare il corto circuito. Le misure da mettere in campo in questa fase – lo ripetono gli stessi politici – non hanno e non possono avere colore politico. Non è politico il metro di giudizio. Non si usano le categorie tradizionali (destra/sinistra, liberale/socialista) per definire quanto il governo ha fatto, fa e farà. Tutto sfumato dentro il concetto – alto, ma vaghissimo – di bene del Paese. Sono provvedimenti che potremmo definire di buonsenso, utilizzando un termine che, non a caso, abbiamo incontrato al principio di questa nostra riflessione.
Con il governo Draghi, dunque, i partiti finiscono isolati, relegati in un angolo e le politiche perdono il proprio connotato di parte, diventando asettiche. Due elementi che, come abbiamo visto, hanno sempre avuto un ruolo centrale in questi anni.



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