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La rappresentanza nell’Unione europea: uno sguardo storico

Sandro Guerrieri
Articolo pubblicato nella sezione "La rappresentanza politica tra quantità e qualità"

Fu perentorio, Jean Monnet, quando uno dei suoi più stretti collaboratori, Etienne Hirsch, gli fece notare che nella dichiarazione Schuman del 9 maggio 1950 non era presente alcun elemento democratico: egli rispose al suo interlocutore che si trattava di un aspetto che non aveva alcuna attinenza con la proposta in questione, volta ad affidare la gestione dei settori carbonifero e siderurgico a un’Alta Autorità formata da personalità indipendenti, designate dai governi ma incaricate di perseguire il comune interesse europeo. La secca risposta di Monnet era indicativa di quanto la sua originaria impostazione funzionalista, che si prospettava come una sorta di “terza via” tra federalismo sovranazionale e intergovernativismo confederale, si basasse sull’idea di un’amministrazione di esperti che dialogasse con gli operatori e i gruppi di interesse senza dover dar conto del suo operato a un organismo rappresentativo di tipo politico. Ma riflettendo con più attenzione sulle parole di Hirsch, Monnet si rese conto che il problema di un controllo di natura democratica in effetti esisteva, e fu lui stesso a prospettare, per la Comunità che si doveva costruire, una forma di rappresentanza politica (cfr. Guerrieri 2016, pp. 60-61). Dal ripensamento di Monnet ebbe inizio l’originale esperienza del Parlamento europeo, con la quale il tema della rappresentanza superava - allargando la breccia che aveva cominciato ad aprirsi con l’Assemblea Consultiva del Consiglio d’Europa nel 1949 - il tradizionale orizzonte nazionale o territoriale e si proiettava oltre i confini degli Stati. Si trattava di una sfida inedita e in quanto tale destinata a far sorgere numerosi interrogativi: data l’evidente assenza di un demos europeo, e il peso al contrario di una eredità storica costituita dai nazionalismi che avevano portato allo scatenarsi di due guerre mondiali, chi sarebbe stato rappresentato da un’Assemblea politica europea: i singoli Stati (con la probabile sovrapposizione rispetto alle posizioni espresse dai rispettivi governi)? I singoli popoli? I cittadini di una Comunità in divenire? E i cleavages prevalenti si sarebbero prodotti tra le varie delegazioni nazionali, oppure tra le famiglie politiche sovranazionali, o ancora tra i sostenitori di questo o quel metodo per la costruzione dell’Europa?


1. Rappresentare i popoli europei prima dell’elezione diretta

Il Trattato istitutivo della Comunità europea del Carbone e dell’Acciaio, firmato a Parigi il 18 aprile 1951, istituì un’assemblea parlamentare, denominata Assemblea Comune, formata da 78 membri che rappresentavano i «popoli degli Stati riuniti nella Comunità» (cfr. Guerrieri 2016). La formulazione adottata partiva dalla dimensione nazionale – «i popoli degli Stati» - ma indicava un orizzonte più ampio, in quanto l’essere «riuniti nella Comunità» implicava una valorizzazione dell’elemento comunitario. Se ne ha una prova nel fatto che per il Consiglio dei ministri era stata scelta una definizione molto più secca: esso era semplicemente composto «dai rappresentanti degli Stati membri». Il Consiglio, pertanto, rappresentava i governi, i quali naturalmente erano a loro volta responsabili della propria politica di fronte ai Parlamenti nazionali. L’Assemblea, invece, aveva potenzialmente un maggior grado di autonomia, anche se i suoi 78 componenti erano designati dai Parlamenti di cui continuavano a far parte: l’impegno europeo era aggiuntivo rispetto al mandato parlamentare nazionale. Per la verità, il Trattato CECA permetteva in alternativa il ricorso all’elezione diretta, ma di questa possibilità non si fece uso. La ripartizione dei seggi tra gli Stati membri si fondò su un criterio di ponderazione demografica che avvantaggiava notevolmente i piccoli Stati. Si andava così dai 18 seggi assegnati rispettivamente a Italia, Francia e Germania Ovest, ai 10 attribuiti a Olanda e Belgio per arrivare ai 4 conferiti al Lussemburgo. Non essendo possibile impostare un meccanismo rappresentativo fondato sull’esistenza di un unico demos, i paesi con un minor numero di abitanti erano tutelati dal rischio di finire schiacciati da quelli maggiori.
Il modo in cui il Trattato CECA definiva la funzione di rappresentanza che i membri dell’Assemblea Comune erano chiamati svolgere legittimava una certa elasticità interpretativa. Il Trattato aveva attribuito all’Assemblea una funzione di supervisione sull’operato dell’Alta Autorità, concedendole la facoltà di approvare una mozione di censura che avrebbe comportato le dimissioni dei membri dell’esecutivo comunitario. I pionieri del parlamentarismo europeo potevano quindi incidere in maniera concreta sul governo della Comunità, ed essi avviarono un confronto costante con l’Alta Autorità, istituendo un sistema di commissioni permanenti che monitorarono i diversi aspetti della sua attività. Il lavoro dei parlamentari doveva quindi misurarsi in maniera concreta con i numerosi interessi in gioco, in settori fondamentali dell’economia. Cosa sarebbe avvenuto, allora, alla prova dei fatti? L’espressione degli interessi nazionali avrebbe preso il sopravvento, o le linee di confronto all’interno dell’Assemblea si sarebbero modulate secondo un profilo politico transnazionale?
Che si trattasse di una questione aperta lo dimostrò il fatto che, per l’assegnazione dei posti all’interno dell’emiciclo di Strasburgo, si adottò la soluzione neutra sperimentata per l’Assemblea del Consiglio d’Europa: i parlamentari non si sarebbero aggregati né per delegazioni nazionali, né per affinità politiche, ma si sarebbero disposti in ordine alfabetico. Nei primi mesi di attività dell’Assemblea, sembrò prevalere il legame nazionale, tanto che il regolamento che essa si diede il 10 gennaio 1953 non previde la possibilità di creare formalmente dei gruppi parlamentari transnazionali. Questi ultimi, tuttavia, cominciarono a costituirsi in maniera informale e furono ufficialmente riconosciuti nel giugno 1953, quando fu assegnato loro anche un contributo finanziario. Da questo momento, l’aggregazione per correnti politiche sovranazionali assunse un peso crescente (cfr. Van Oudenhove 1965), e questo fece sì che cadesse l’ipotesi di un’Assemblea parlamentare europea in cui diventasse preminente la rappresentanza di ciascun popolo singolarmente considerato. I gruppi politici dell’Assemblea, una volta formatisi, cercarono di darsi un adeguato profilo identitario, e si proposero anche di creare un tessuto di relazioni con i partiti nazionali di riferimento. Su questo versante, peraltro, si manifestarono sin dall’inizio maggiori difficoltà: l’organizzazione politica sovranazionale stentò a estendersi al di là dell’emiciclo parlamentare. Creare dei solidi gruppi parlamentari europei, elemento chiave nella gestione dell’Assemblea, non significava fondare dei partiti europei altrettanto solidi. La discrasia tra questi due livelli si sarebbe solo parzialmente attenuata nel corso del tempo, e ne sarebbe scaturita, con il passaggio all’elezione diretta, una significativa debolezza del circuito rappresentativo.
Nei Trattati di Roma firmati il 25 marzo 1957, istitutivi dell’Euratom (Comunità che ebbe poca fortuna, ma che al momento sembrava ricca di potenzialità) e della CEE, si confermò, riguardo alla funzione di rappresentanza attribuita alla nuova Assemblea unica delle tre Comunità - che nel 1958 passò dall’ordine alfabetico alla suddivisione per gruppi nell’attribuzione dei posti e nel 1962 si sarebbe autoproclamata Parlamento europeo allo scopo di evidenziare le sue ambizioni politiche -, la definizione stabilita nel Trattato CECA. Contrariamente a quest’ultimo, i nuovi Trattati non contemplavano peraltro la possibilità dell’immediato ricorso all’elezione diretta: i membri dell’Assemblea dovevano necessariamente essere scelti dai Parlamenti nazionali tra i propri componenti. In compenso, all’Assemblea era attribuito il compito di elaborare progetti per l’elezione a suffragio elettorale diretto, secondo una procedura uniforme: esclusa per il presente, l’elezione da parte dei cittadini si inscriveva in un orizzonte futuro (cfr. Pasquinucci 2013). In considerazione del più esteso raggio d’azione rispetto all’epoca della sola CECA, il numero dei membri dell’Assemblea salì da 78 a 142, con una riduzione del grado di penalizzazione degli Stati più grandi. Essi raddoppiavano infatti i propri seggi, passando da 18 a 36, mentre per gli altri l’incremento era assai minore: da 10 a 14 per Belgio e Olanda e da 4 a 6 per il Lussemburgo.
Il Parlamento unico delle tre Comunità, raccogliendo l’eredità dell’Assemblea Comune della CECA, prese a sua volta sul serio il compito di rappresentare i popoli degli Stati riuniti nello spazio comunitario. Nel 1960 mise già a punto, ad esempio, una prima proposta di Convenzione elettorale. Il grado di rappresentatività dell’istituzione fu tuttavia oggetto di un duro attacco da parte della Francia di de Gaulle, che si oppose in modo risoluto all’espansione delle sue prerogative. Per de Gaulle, i popoli non potevano che essere rappresentati dai propri Stati, e quindi dai rispettivi governi, che avrebbero dovuto assumere la vera guida politica dell’Europa da costruire. Peraltro, sul piano della capacità effettiva di rappresentanza, non si può non osservare che la conventio ad excludendum nei confronti dei partiti comunisti, stabilita sin dall’inizio per tutte le assemblee europee, lasciava ai margini in due paesi importanti come la Francia e l’Italia una parte consistente dei popoli rappresentati. In Italia, il problema era reso ancora più grave dal fatto che non era stata sanata nemmeno l’originaria esclusione del Partito socialista. Il paradosso di questa vicenda fu che, negli anni del centro-sinistra, a Strasburgo si recavano i rappresentanti del MSI, entrati nella delegazione italiana dal 1958, e non i socialisti di Nenni. Non solo: nell’impossibilità di sbloccare la situazione per il rifiuto socialista di entrare senza che cadesse contestualmente la preclusione verso il PCI, per tutta la legislatura 1963-1968 il rinnovo della delegazione italiana venne bloccato, cosa che suscitò pesanti critiche a livello europeo (cfr. Guerrieri 2011). Il problema italiano si risolse però nel 1969, quanto la Camera dei deputati e il Senato elessero per la prima volta una delegazione rappresentativa di tutte le correnti politiche del Paese, e nel 1973 l’ostracismo verso i comunisti venne meno anche in Francia. Ciò consentì la formazione, nello stesso anno, del gruppo parlamentare comunista, in virtù della quale il Parlamento europeo perse la sua originaria caratteristica di organo in cui l’area della legittimità era delimitata dalle contrapposizioni della guerra fredda.
Il 1973 fu anche l’anno del primo allargamento: il numero dei componenti del Parlamento giunse, nella Comunità a Nove, a 198 e l’ingresso dei deputati britannici contribuì a vivacizzare la dialettica con l’esecutivo comunitario, mediante il ricorso a uno stile di confronto più improntato alla tradizione di Westminster. Ma gli anni Settanta segnarono soprattutto il passaggio all’elezione diretta, sulla base dell’Atto legislativo del 20 settembre 1976 (cfr. Tulli 2017). «Dopo aver creato un inizio di Europa, ci occorrono gli europei», aveva affermato il repubblicano popolare francese Alain Poher in una relazione presentata all’Assemblea Comune nel novembre 1955 (cfr. Guerrieri 2016, p. 222). Ora, finalmente, gli europei sarebbero stati direttamente coinvolti nell’elezione di un Parlamento i cui rappresentanti salivano - nella Comunità ancora composta di nove membri - a 410, con una forbice tra Paesi maggiori e minori che si era ulteriormente allargata: con l’attribuzione di 81 seggi a Francia, Italia, Germania Ovest e Regno Unito, 25 all’Olanda, 24 al Belgio, 16 alla Danimarca, 15 all’Irlanda e 6 al Lussemburgo (che non aveva beneficiato di alcun aumento), era adottato un criterio degressivamente proporzionale in virtù del quale era mantenuto un vantaggio per gli Stati più piccoli, ma non in forme tali da risultare incompatibile con il principio di una rappresentanza fondata sul suffragio universale diretto (cfr. Mény 2009).


2. Dalle prime elezioni europee alla Conferenza sul futuro dell’Europa

In occasione delle prime elezioni europee, che si sarebbero svolte nel giugno 1979, la Commissione e il Parlamento europeo promossero un’ampia campagna informativa per sensibilizzare i cittadini dei Nove Paesi sul rilievo di questa conquista democratica (cfr. Pasquinucci 2013). Negli anni precedenti erano inoltre sorte le prime federazioni partitiche transnazionali (cfr. Bardi, Ignazi 2004): la confederazione dei partiti socialisti della Comunità europea nel 1974, il Partito popolare europeo (cfr. Bardi et al. 2020) e la Federazione europea dei partiti liberali e democratici nel 1976. La speranza era che, grazie all’azione delle istituzioni e delle federazioni partitiche (i partiti comunisti dal canto loro erano rimasti alquanto indietro sul terreno organizzativo, visto tra l’altro che il crescente europeismo del PCI non incontrava molti consensi nei partiti omologhi), il significato sovranazionale di queste elezioni fosse ampiamente percepito. La realtà fu diversa, non solo perché il tasso di partecipazione al voto, elevato in alcuni paesi (85,6% in Italia), era inferiore alle attese in altri, e crollava nel Regno Unito (32,3%), ma anche per via del prevalente concentrarsi delle campagne elettorali sulle tematiche nazionali. Alle elezioni europee fu così applicata la definizione di second order elections, che ne riduceva la portata a momenti di confronto politico all’interno di ciascun Paese (per misurare ad esempio il grado di consenso dei governi in carica e il peso delle forze di opposizione), o comunque a manifestazioni di orientamenti sostanzialmente disconnessi tra un contesto nazionale e l’altro. Al posto di un’elezione europea, si aveva così un insieme di elezioni distinte pari al numero degli Stati membri (cfr. Reif, Schmitt 1980). Al di là di una certa rigidità interpretativa a cui dava luogo, che è stata opportunamente criticata perché non permetteva di cogliere in chiave dinamica gli elementi di sovranazionalità suscettibili di svilupparsi (cfr. Pasquinucci, Verzichelli 2004), la categoria di second order elections fotografava l’indubbia difficoltà di costituzione di un’arena politica europea fondata su un rapporto diretto con l’opinione pubblica. Se il passaggio dalla designazione parlamentare all’elezione diretta aveva costituito un deciso salto di qualità nell’esercizio della funzione di rappresentanza “dei popoli degli Stati riuniti nella Comunità”, i popoli in quanto tali stentavano a percepirsi come possibili co-protagonisti del percorso comunitario.
Questa scarsa attenzione dell’elettorato al mandato della prima assemblea sovranazionale eletta a suffragio universale dipendeva essenzialmente da due fattori. Innanzitutto, il passaggio all’elezione diretta non era stato accompagnato da un aumento dei poteri: alle funzioni di controllo e di consultazione previste dai Trattati comunitari del 1951 e del 1957 si erano aggiunte nel 1970 e nel 1975 importanti prerogative in materia di bilancio, ma lo scarto rispetto alle attribuzioni assunte dai Parlamenti nazionali nel corso del loro secolare processo di affermazione politico-istituzionale era considerevole. In secondo luogo, al di là di coloro che lavoravano nei settori direttamente investiti dall’intervento comunitario, come l’industria carbosiderurgica e l’agricoltura, i cittadini dei vari Paesi guardavano al processo di costruzione europea con un certo distacco: se ne apprezzavano a grandi linee le motivazioni e i risultati, ma non ci si emozionava davanti alla sua dinamica concreta, caratterizzata da trattative complesse e tecnicismi vari. Era la fase in effetti del “permissive consensus”, nella quale, non essendoci la percezione di un’integrazione che investisse la dimensione politica o l’impianto del Welfare State, si tendeva a delegare agli esperti del campo la gestione dei vari dossier (cfr. Varsori 2016).
Se questa era la situazione di partenza nel 1979, cosa è avvenuto negli anni successivi? Per quanto riguarda le prerogative del Parlamento (cfr. Dinan 2018), esse sono costantemente aumentate nel lungo ciclo di riforma dei trattati apertosi con l’Atto Unico del 1986 e il cui punto di approdo è stato, a livello sistemico, il Trattato di Lisbona del 2007 (cfr. Lupo, Manzella 2019). Tra le istituzioni dell’Unione, il Parlamento europeo può senz’altro vantare un graduale ma pressoché ininterrotto processo di empowerment, grazie al quale l’ampio divario iniziale rispetto alle competenze dei Parlamenti nazionali (che dal canto loro hanno spesso perso terreno, invece, rispetto agli Esecutivi) si è notevolmente ridotto (cfr. Brack, Costa 2018). Quanto all’interesse dei cittadini per le questioni europee, esso è fortemente cresciuto con la messa a punto, nel Trattato di Maastricht del 1992, del percorso verso l’adozione della moneta unica - che avrebbe fatto seguito al completamento del mercato unico - e con le sfide geopolitiche connesse al crollo dei regimi comunisti dell’Est (in conseguenza del quale i Paesi dell’Europa centrorientale hanno chiesto di entrare nella UE) e alle dinamiche della globalizzazione. Il paradosso è che, per lungo tempo, tutto questo non si è affatto tradotto in una maggiore attenzione degli elettori per il ruolo del Parlamento europeo. Il tasso di partecipazione alle elezioni è sceso pressoché costantemente fino al 2014, con punte di clamoroso assenteismo in diversi nuovi Paesi aderenti, ma anche di considerevole decrescita nei principali Paesi fondatori (cfr. Viola 2016). Quanto al contenuto delle campagne elettorali, il peso degli aspetti nazionali si è confermato rilevante.
È accaduto in effetti, per un verso, che le elezioni europee non sono state percepite, nonostante la crescita dei poteri del PE in ambito legislativo e nel controllo della Commissione, come l’occasione per esprimere un orientamento che potesse davvero incidere sulle più importanti scelte di indirizzo dell’Unione europea, a cominciare da quelle relative alla dimensione economico-finanziaria; per l’altro che, stante il persistente o addirittura crescente protagonismo dei capi di Stato e di governo nei processi decisionali dell’Unione, il momento principale per far sentire la propria voce sulle tematiche europee è stato individuato nelle elezioni politiche nazionali. Se, con il Trattato di Lisbona, si è stabilito che a essere rappresentati nel Parlamento europeo fossero ora direttamente i cittadini dell’Unione in quanto tali (e non più, pertanto, i popoli degli Stati in essa riuniti), si è venuto nel tempo consolidando, però, un processo di europeizzazione - più o meno esplicito - delle campagne elettorali interne ai vari Paesi. La crescente percezione, da parte dei cittadini, della portata europea delle elezioni nazionali (basti pensare al significato assunto dal confronto tra Emmanuel Macron e Marine Le Pen alle presidenziali francesi del 2017) non è certo, di per sé, un fenomeno negativo, in quanto è il riflesso del maggior grado di consapevolezza dell’impatto delle decisioni europee sulla vita dei singoli Paesi; ma è evidente che se l’esercizio della funzione di rappresentanza in ambito europeo si fonda su una angolazione prevalentemente nazionale, come avviene quando si predilige la capacità di influenzare il comportamento dei singoli governi, i contrasti tra gli Stati rischiano di accentuarsi e gli interessi comuni di passare in secondo piano.
La persistente debolezza dei partiti europei è naturalmente un elemento che ostacola la possibilità di identificarsi con linee di confronto politico a livello sovranazionale. Le due ultime consultazioni europee hanno registrato tuttavia, da questo punto di vista, alcuni segnali di una parziale inversione di tendenza. Nel 2014, la comparsa degli Spitzenkandidaten ha attestato l’impegno delle correnti politiche europee a presentarsi con un profilo più visibile. Nel 2019, la paura nei confronti dell’affermarsi delle forze sovraniste ed euroscettiche (cfr. Levi, Preda 2019) ha condotto l’opinione pubblica dei diversi paesi a focalizzarsi maggiormente sulla posta in gioco europea delle elezioni europee, e cioè sul loro effetto per gli equilibri politici dell’articolato sistema di governo dell’Unione. Questa sorta di “europeizzazione delle elezioni europee” – che a questo punto rende senz’altro caduca la loro semplice etichettatura come second order elections – ha avuto nel 2019 un effetto mobilitante sull’elettorato, visto che il tasso di partecipazione non solo non è ulteriormente calato, ma ha conosciuto un incremento significativo salendo dal 42,6% al 50,6% (cfr. Caravita 2019). Si è trattato di un segnale incoraggiante, anche se non si può prevedere se sarà confermato in futuro. La strada verso la genesi di uno spazio politico europeo in cui i cittadini dell’Unione possano sentirsi realmente rappresentati sulla base di affinità politiche sovranazionali è ancora piuttosto lunga. Occorrerà vedere come si strutturerà il confronto politico-istituzionale nel corso della ricostruzione post-pandemica. In che misura, sulle questioni concernenti l’impegno dell’Unione in questo campo, i cittadini continueranno a individuare nei governi nazionali i loro principali punti di riferimento? E quanto potranno invece riconoscersi nella dialettica politica interna alle istituzioni comuni?
Per far fronte al persistente sentimento di distanza avvertito da molti cittadini nei confronti della complessa struttura di governo europea, le autorità politiche dell’Unione hanno avviato il 9 maggio 2021 la Conferenza sul futuro dell’Europa. L’idea di fondo è di promuovere una strategia di ascolto delle esigenze e delle preoccupazioni degli europei, tramite la creazione di una piattaforma digitale e l’organizzazione di diversi momenti di incontro con la società civile. Da questa fase di ascolto si dovrebbe passare all’individuazione di percorsi operativi di potenziamento degli strumenti d’azione dell’Unione. L’iniziativa può essere vista anche come una sorta di riconoscimento da parte delle classi dirigenti europee della persistenza di un serio problema di rappresentanza: visto che l’arena politica privilegiata per coinvolgere la cittadinanza nella discussione delle tematiche europee non può rimanere quella nazionale, e che le elezioni europee, però, sono ancora a metà del guado in termini di capacità di dar vita a uno spazio pubblico di discussione sovranazionale, si è ritenuto necessario sperimentare nuovi strumenti di partecipazione. Un tentativo di approfondimento del dialogo con la società civile si era avuto durante l’esperienza della Convenzione europea del 2002-2003, che aveva redatto un progetto di Costituzione per l’Europa che - adottato con alcune modifiche dalla successiva conferenza intergovernativa - era stato però bocciato nei referendum di ratifica del 2005 in Francia e Olanda (cfr. Barber, Cahill, Ekins 2019): in quel caso, il canale di comunicazione con l’opinione pubblica si era evidentemente rivelato difettoso (cfr. Scicluna 2015). In considerazione di quello sfortunato precedente, l’esperienza appena avviata intende porre maggiormente i cittadini al centro della scena. L’importante, tuttavia, è che coloro che a livello politico dovranno tirare le fila in termini operativi di questa ambiziosa fase di dialogo non sfuggano alle loro responsabilità: rappresentare i cittadini europei significa anche mostrare di essere in grado di trovare le soluzioni adeguate per far fronte alle sfide che ha di fronte a sé l’Unione, con idee e visioni che siano all’altezza dei progetti che dopo la seconda guerra mondiale furono all’origine dell’avventura comunitaria.


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