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Dall’ontologia dell’io-tu alla scelta della relazione.
Attualità nella lezione di Martin Buber

Giulia Tosti
Articolo pubblicato nella sezione "Tra le righe"

Da alcuni anni le scienze sociali hanno messo in luce un dibattito che, nella sua eccentricità, sembra toccare trasversalmente molti dei temi cari al mondo moderno. Sociologi, antropologi, economisti, politici e filosofi hanno considerato secondo diverse prospettive la questione del bene relazionale. Lo hanno fatto attraverso sottolineature capaci, pur nella loro diversità, di confluire in un’unica direzione: comprendere che «il senso economico di ciò che circola» (Godbout 2007, p. 14) non sia capace di esaurire il significato dell’inter-umano, cioè dello spazio relazionale che intercorre fra uomo e uomo. È Donati a mettere in luce come nella trasversalità della categoria si chiarifichi la sua stessa portata semantica: «Molti, quando parlano di beni relazionali, pensano ai rapporti umani fatti di simpatia, di buoni sentimenti e motivazioni altruistiche degli individui. Ma i beni relazionali hanno anche un valore economico e politico, così come una valenza morale ed educativa. Sono indicatori del ben-essere di un’intera comunità. A mio avviso, il fatto che tutte queste dimensioni siano compresenti indica che siamo di fronte a delle entità la cui sostanza è complessa, sia in sé stesse, sia nei loro effetti. Certamente si tratta di relazioni sociali umane, perché è nelle loro relazioni sociali che si condensano tutti questi aspetti» (Donati 2019, p. 15). Al di là di qualsivoglia forma di strumentalismo, superata ogni visione olistica della società, il bene relazionale si configura come profondamente legato ad una dimensione di reciprocità, il che significa presupporre un uomo capace di comprendersi quale essere in relazione, radicato in un tra che lo precede (Caillé 2000, p. 80). Caillé auspica uno specifico riconoscimento dell’umano, divergente rispetto alle immagini solipsistiche e individualistiche che hanno caratterizzato la prima modernità occidentale. Un tale richiesta, a ben vedere, è già presente nelle parole di un pensatore che precede nel tempo il dibattito sui beni relazionali: Martin Buber (1878-1965), insigne autore della cosiddetta “corrente dialogica”, non manca di mettere in chiaro una specifica idea di uomo, costantemente riletta all’interno della dinamica relazionale e pertanto capace di arginare il male che si radica senza esclusione alcuna nell’incapacità di incontrare l’altro dicendogli tu: «Il fatto fondamentale dell’esistenza umana non è né il singolo come tale, né la totalità come tale. Considerati in sé, essi non sono che potenti astrazioni. [...] Il fatto fondamentale dell’esistenza umana è l’uomo con l’uomo» (Buber 1947, p. 116). Così, nella mancata considerazione dell’inter-umano origina ogni punto dolens della modernità, ogni violenza, ogni mancanza di autenticità. Parallelamente, è sempre nella relazione che si rintraccia la soluzione: riscoprendo l’uomo in quell’incontro che lo rende realmente umano, è possibile lenire ogni ferita, sostenere ogni difficoltà. La lezione buberiana sembra essere utile, seppur con il lessico del suo tempo, al dibattito sui beni relazionali, fornendo ad esso una solida argomentazione di supporto e mostrandosi come prospettiva eccezionalmente attuale.


1. Come rispondere alle necessità del presente

«I popoli, le classi, le famiglie, gli individui potranno arricchirsi, ma saranno felici solo quando sapranno sedersi, come dei cavalieri, intorno alla ricchezza comune. È inutile cercare molto lontano quale sia il bene e la felicità» (Mauss 1950, p. 103). Con queste parole Marcel Mauss conclude il suo celebre Saggio sul dono. Al centro della riflessione emerge un’idea di uomo che, dall’interno di una società dominata dagli scambi mercantili, non cessa la ricerca di uno scambio altro. Negli ultimi due secoli numerose sono le voci che sostengono la necessità di ripensare l’umano in senso relazionale, come unica e necessaria risposta alla crisi della modernità occidentale. La perdita del valore dell’incontro fra uomo e uomo deriva dal clima teoretico che si crea a cavallo fra i secoli xviii e xix e che ha come effetto quello di canalizzare la lezione cartesiana in strutture di pensiero tipiche del modello scientifico-matematico. In una macro lettura di tale processo, è poi la prospettiva kantiana a confluire nella filosofia di Hegel e dell’idealismo tedesco in genere, in cui il pensiero, chiaro a se stesso, è capace di racchiudere in sé ogni altra dimensione: «Questa concezione ontologica, comparsa con la svolta kantiana, nell’idealismo tedesco e in particolare nella filosofia dello spirito di Hegel, si trasforma in misura sempre maggiore in inserimento del Tutto nello spazio concluso della chiarezza [Helle] dello spirito chiaro a sé stesso» (Casper 2002, p. 350). Il xx secolo, in relazione filiale rispetto ai decenni che lo precedono, si configura così come il tempo delle grandi ideologie: comunismo da una parte e liberalismo dall’altra. Una dicotomia che, come afferma Jacques Godbout, spinge le riflessioni sociologiche ad impegnarsi nel tentativo di recupero della dimensione relazionale: «La riflessione sui legami sociali elaborata dai fondatori delle scienze umane ha finito per trasformarsi in una sterile opposizione tra individuo libero e società costrittiva. Tale evoluzione ha portato all’impasse teorica costruita dall’opposizione individualismo-olismo: nella sua forma estrema, questa opposizione finisce per designare l’individuo senza la società o la società senza l’individuo» (Godbout 2007, p. 350).
Già per Buber la modernità è caratterizzata da due atteggiamenti complementari e susseguenti, entrambi incapaci di recuperare l’autenticità dell’incontro umano: a suo parere la società degli ultimi secoli è caratterizzata dall’incapacità di pensare e praticare la relazione. Da questo atteggiamento deriva il fenomeno sociale e culturale dell’individualismo, all’interno del quale l’uomo è solo con se stesso: l’affermazione dell’autonomia del singolo lede l’incontro con l’altro. La medesima solitudine caratterizza, tuttavia, anche il collettivismo, ove l’accento, seppur non più posto sul singolo, è relativo alla dimensione societaria costituita dal Tutto sociale e non alla relazionalità che dovrebbe essere fulcro di ogni comunità umana: «Quanto più l’uomo, l’umanità, è dominato dall’individualità, tanto più profondamente l’individuo si inabissa nell’irrealtà. In tali tempi la persona, nell’uomo e nell’umanità, conduce un’esistenza sotterranea, nascosta, quasi nulla» (Buber 1923, p. 103). Seppur precedendo il dibattito di qualche decennio, Buber sembra denunciare la medesima crisi: una frattura che rende impossibile la visione dell’uomo quale essere sociale, nonché l’ingresso effettivo nella relazione. Quello che egli chiama mondo dell’esso, indicando con tale espressione un atteggiamento oggettivante e strumentalizzante nei confronti dell’altro, ha fagocitato l’umanità impedendole di esperire in pienezza le possibilità del suo essere e rendendola, essenzialmente, meno umana. Il secolo scorso appare così caratterizzato dalla permanenza di un problema che non riesce a recuperare la dimensione intrinsecamente sociale dell’uomo. Interesse, utilizzo e oggettivizzazione sono elementi dai quali l’umanità moderna pare incapace di affrancarsi, mostrando però i segni della sofferenza dettata dall’assenza dell’incontro: l’essere umano infatti «emerge dal legame sociale, il che comporta una pulsione verso gli altri, un desiderio, un interesse per gli altri, diverso dall’interesse per sé, diverso dall’interesse per gli altri beni e diverso anche dalla pulsione a conservarsi. Ecco ciò che bisogna riconoscere per uscire dal modello di interesse» (Godbout 2007, p. 371). La soluzione offerta alla crisi non sta certo nell’esautorare le strutture societarie dai rapporti di utilità, quanto nell’affiancare al mercato l’aspetto della relazione: come scrive Godbout, non «auspichiamo che tutti i rapporti sociali siano regolati dal dono» (ivi, p. 371). Ci si trova dinnanzi a delle proposte che sottolineano come il mondo dell’interesse non sia tutto; non vi è una condanna ma una richiesta fatta personalmente ad ogni uomo: quella di ricercare, accanto ai beni materiali, all’utile, all’oggetto, anche il bene relazionale, che, promuovendo positivamente il bisogno umano di socialità, è capace di rendere l’umanità un’autentica comunità. Dice Buber che il mondo dell’esso: «Non è male, così come non lo è la materia. Ma è male come la materia che si crede di essere l’esistente. Quando l’uomo permette a questa parola di comandare, il mondo dell’esso, che non cessa mai di svilupparsi, lo soffoca, il suo proprio io perde per lui realtà, finché l’incubo che lo sovrasta e il fantasma che interiormente lo perseguita si confessano l’un l’altro in un sussurro le loro catene» (Buber 1923, p. 91).
Il gioco che sussiste tra beni materiali e beni relazionali è oggetto di riflessioni attualissime, che molto hanno da dire ancora oggi. Affinché il bene relazionale diventi autenticamente il luogo del rinnovamento della società e dei legami in essa contenuti, occorre specificare quale prospettiva ontologica vi sia alla base del discorso, verificando in che relazione essa si trovi rispetto alla dimensione etica. È proprio questa indicazione che, fra le tante altre suggestioni che il filosofo ebreo propone, può essere rintracciata nei testi di Buber, fornendo così linfa alla costruzione di una società, capace di essere finalmente una società dell’altro. In questo senso, la filosofia dialogica, che fa conoscere se stessa al grande pubblico grazie ad Ich un Du, magistrale opera buberiana, nasce come spontaneo tentativo di dare una nuova risposta alla domanda ontologica, dando luogo a una prospettiva che si rivela in grado di riscoprire il valore dell’alterità, intatto al di là del monopolio dell’idealismo. L’essere che viene così riscoperto è capace di lasciar accadere la relazione, è - finalmente - in grado di comprendere come nell’incontro si riveli qualcosa di specificatamente umano. L’originalità della prospettiva buberiana, elemento che la rende parallelamente complessa e ricca, sta nel proporre la relazione come un apriori ontologico. Il lascito paradossale dell’autore sta nell’aver trasformato l’accidente dell’incontro in principio: la relazione non è più una possibilità tra le possibilità, bensì unica scelta possibile. Si tratta di un punto cruciale dal quale diparte una precisa immagine dell’uomo, immagine che, dalla dimensione ontologica, è capace di fornire indicazioni e supporto tanto all’ambito sociologico quanto a quello antropologico, fino a raggiungere la dimensione etico-morale. La soluzione degli elementi critici della nostra contemporaneità, la riscoperta e la ricostruzione di una società nuova, della quale il mondo sembra mostrare l’esigenza, non può non passare per quell’idea di uomo-relazionale, che Buber propone.


2. Incipit ontologico

Buber pone centralmente la relazione solo a partire dal 1923, anno della pubblicazione di Ich und Du: essa rappresenta l’opera spartiacque della sua produzione, in quanto punto di snodo tra la prospettiva giovanile, quella che Casper definisce “predialogica”, e la dimensione autenticamente dialogica. La svolta che egli compie a cavallo degli anni ’20 e ’30, portandolo alla costruzione delle tesi proposte in questa opera, fornisce chiare indicazioni sulla prospettiva che esamino in questo scritto. Il pensiero giovanile dell’autore, infatti, si struttura all’interno della lezione diltheyana, che ancora al sé l’intera proposta dello storicismo tedesco; è alla dimensione del sé che Buber rimane legato in gioventù, fortemente affascinato da prospettive mistiche e teosofiche. Tuttavia, questa dimensione viene via via abbandonata, lasciando posto alla centralità del tra, della relazione, dell’incontro (Casper 2002, pp. 295-296). Dalla teosofia l’autore si apre ad un forte realismo teologico, unica dimensione che permette l’accesso all’alterità, identificata talora con il mondo, talora con l’altra persona, talora con Dio stesso. Ciò che mi interessa è l’idea secondo la quale, perché l’uomo possa uscire dal mero mondo dell’utilità, bisogna mettere al centro non più l’io, ma la relazione stessa, all’interno della quale l’umanità di ognuno è capace di mostrarsi nella sua piena autenticità. L’uomo di Buber è capace di un duplice atteggiamento, mostrato per la prima volta in Ich und Du e indagato poi in tutte le opere successive, da una parte la parola fondamentale io-tu, dall’altra la parola fondamentale io-esso: «L’atteggiamento dell’uomo è duplice per la duplicità delle parole fondamentali che egli dice. [...] Una di queste parole fondamentali è la coppia io-tu. L’altra parola fondamentale è la coppia io-esso» (Buber 1923, p. 59). La prima rappresenta la possibilità umana di entrare in autentica relazione dialogica con l’altro, vivendolo pienamente come un tu, mentre la seconda riflette la capacità di conoscenza, di esperienza, che avvicina alla verità del mondo ma al prezzo dell’oggettivizzazione e della strumentalizzazione: un atteggiamento certamente importante, ma incapace di preservare l’essenziale dell’umano. Tuttavia, il valore della relazione è stato dimenticato dalla modernità occidentale, lasciando così che il mondo dell’“esso” si ingigantisse sempre più e impedendo la realizzazione piena del senso ontologico dell’umano. Infatti il mondo dell’esso «non ha nulla a che fare con quell’umanità vitale a cui un uomo rivolge un autentico tu» (ivi, p. 68): l’uomo, per essere pienamente tale, ha bisogno della relazione.
L’autore che, come già osservato, definisce la relazione come un apriori ontologico (ivi, p. 72) offre la chance di guardare a sé e all’altro con occhio nuovo, facendo comprendere come, privato dell’incontro ed esclusivamente votato ad un mondo fatto di strumentalizzazione sterile e oggettivizzazione costante, l’uomo non possa dirsi realmente tale. La relazione è il centro da cui il pensiero di Buber si apre a raggiera, toccando molti dei grandi temi caldi dell’epoca: dalla necessità di non percepirsi come individui, alla capacità di incontrare l’altro, dal fallimento delle grandi ideologie del secolo passato, alla necessità di vivere in pace. L’incontro diventa la categoria trasversale con cui è possibile rileggere ogni tempo, radicando in essa tutti gli aspetti della vita umana. È una nuova prospettiva ontologica da cui deriva una rinnovata accezione della realtà, mai «pensabile per sé, ma sempre e solo come realtà della relazione» (Casper 2002, p. 289); è una differente realtà da cui, ancora, diparte una rinnovata prospettiva esistenziale: ciò è realizzabile se l’autenticità dell’umano passa esclusivamente attraverso la relazione, cioè tramite un rapporto che «si svolge» (ivi, p. 296). Così l’esistenza diventa necessariamente partecipazione evenemenziale, cioè adesione allo svolgersi del tra che ontologicamente ci precede. Una proposta che offre l’occasione di un importante ripensamento. Come scrive Emmanuel Levinas: «Buber lascia alla nostra riflessione proprio la ricerca del modo in cui possa comparire una presenza che non è oggettività, né svelamento dell’essere. L’incontro indica una relazione che non viene plasmata nelle forme della coscienza, alla quale si ha la tentazione di ridurre ogni presenza per noi. E non è semplice rifiutare queste forme della coscienza: se determinassero ogni presenza, però, niente altro potrebbe entrare nel nostro mondo. Ora, l’incontro è il caso particolare di una presenza che non è rappresentazione, che è assolutamente diretta, la più diretta che ci sia, la rettitudine stessa, che non può però essere tematizzata. La sfera dell’immanenza può essere infranta, una prossimità irriducibile può sconvolgerne l’ordine: ecco i grandi temi che ci consegna la filosofia di Buber. Poter uscire dal mondo o dall’essere al di là dell’assenza e della presenza che, forse, riconducono alla tematizzazione e all’oggettivizzazione e all’ontologia; e, al di là dell’essere e dell’essente, poter avvicinarsi o essere avvicinati» (Levinas 1976, p. 76).


3. Dalla prospettiva ontologica alla dimensione etica

Uno dei testi che ha nel tempo suscitato più critiche all’interno della produzione buberiana è un brevissimo saggio edito nel 1950 con il titolo Urdistanz und Beziehung. In queste poche pagine viene indagato il tu innato dell’uomo, riscontrandovi due differenti atteggiamenti: in primo luogo, la distanza originale, ciò che distingue l’animale, immerso nell’ambiente, dall’uomo; in seconda istanza, l’ingresso in relazione, che prevede la scelta umana di pronunciare la parola fondamentale io-tu: «Il principio dell’uomo non è semplice, ma doppio, si costituisce in un doppio movimento, e in modo tale che un movimento è il presupposto dell’altro. Chiamo il primo movimento distanziarsi originario, il secondo entrare-in-relazione. Che il primo sia presupposto del secondo dipende dal fatto che si può entrare in relazione solo con un esistente distanziato, o meglio: con uno che è diventato un autonomo star di fronte. Ma ciò che sta autonomamente di fronte esiste solo per l’uomo» (Buber 1950a, p. 280). Ad una prima lettura potrebbe sembrare che l’autore abbia qui attenuato la tesi per cui «all’inizio è la relazione» (Buber 1923, p. 72). Tuttavia, seguendo la lettura critica proposta da Andrea Poma, la distanza originaria e la relazione non giacciono sullo stesso piano: la prima è la “categoria” che rende l’uomo tale, mentre solo la seconda si configura come “atto” primo che permette la piena realizzazione storica, cioè l’autentica attuazione del proprio potenziale astratto (cfr. Poma 1993, p. 15). L’interpretazione è dubbia, così come fortemente ambiguo risulta Buber su questo punto: nelle risposte alle critiche suscitate da questo breve saggio, l’autore sembra non confermare né smentire questa lettura. Pur consapevoli di tale criticità, accettando questa interpretazione la distanza originaria sottolinea come l’uomo soltanto è capace di relazione; l’umanità non nasce già-in-relazione, né incontrerà l’altro in maniera necessitante, ma ha in sé, quantomeno in potenza, la possibilità di dire tu a coloro che gli stanno dinnanzi.
Quello che mi sembra interessante è valutare quali siano le conseguenze di tale impostazione. In primo luogo, l’autore afferma che l’uomo si realizza in maniera ontologicamente autentica incontrando l’altro personalmente. In seconda istanza, rintraccia solo nell’umanità, sempre a livello ontologico, la possibilità di entrare in relazione. Accanto a questo, all’interno di tutta la bibliografia buberiana l’incontro si configura come una libera scelta dell’uomo. L’ambiguità è forte e rischia di deviare da un’ontologia correlata all’etica della relazione, ad una dimensione che mette al centro non l’incontro, ma la libera scelta dell’uomo. Tuttavia, la volontà di Buberè quella di affermare come l’uomo, pur ontologicamente predisposto e chiamato alla relazione, è comunque libero di scegliere, a livello etico, se realizzare pienamente la propria umanità. La relazione è l’unica scelta, ma il termine “unica” non è da intendersi né come predeterminante né come necessitante. L’uomo è ontologicamente destinato a lasciare che l’incontro accada, ma è altresì eticamente libero di scegliere se permettere tale accadimento, realizzandosi in esso come vero uomo. La questione non è affatto banale: da una parte Buber evita qualsivoglia visione arbitraria della libertà, ma dall’altra lascia l’uomo libero di camminare fino alla sua stessa autenticità. Questo complesso passaggio tra dimensione ontologica e prospettiva etica conferisce all’intera umanità una profonda responsabilità. Come scrive Lévinas: «Tutta l’opera di Buber è un rinnovamento dell’etica, la quale non comincia né davanti al valere mitico di alcuni valori come idee platoniche, né a partire da una preliminare tematizzazione, conoscenza e teoria dell’essere, che approda ad una conoscenza di sé di cui l’etica sarebbe la conseguenza o l’appendice, né all’interno della legge universale della Ragione. L’etica comincia davanti all’esteriorità dell’altro, davanti ad altri, e, come ci piace dire, davanti al suo volto che impegna la mia responsabilità a causa della sua espressione umana. [...] Ma questa nuova etica è anche un nuovo modo di comprendere la possibilità di un Io e perciò corrisponde alla vocazione della filosofia. In questo caso, non si tratta della libertà che sarebbe assicurata dalla conoscenza della totalità dell’essere, ma dalla responsabilità etica che significa anche che nessuno può sostituirsi a me quando sono proprio io ad essere responsabile: non posso sottrarmi davanti all’altro uomo» (Lévinas 1987, pp. 38-39). Buber evita così qualsivoglia pretesa totalizzante, offrendo parallelamente l’occasione di riscoperta totale dell’uomo. Un’umanità che è libera, che non è già in relazione, ma che ha nell’incontro l’unica occasione di realizzarsi in pienezza.


4. Una nuova idea di uomo a supporto della crisi

A conclusione del testo Pfade in Utopia, Buber sottolinea come la crisi che l’uomo vive nel xx secolo sia forse la più grave che l’umanità abbia mai sperimentato: ad essere messe in discussione non sono solo le sovrastrutture economiche, politiche e sociali, ma il suo stesso stare nel mondo. L’uomo misconosce se stesso non riconoscendo ciò che più gli è proprio, cioè la possibilità dell’altro: «L’essenziale fra tutto ciò che ha permesso all’uomo di distinguersi dalla natura e, malgrado la sua debolezza di essere naturale, di affermarsi sulla natura, più essenziale ancora della fabbricazione di un mondo tecnico mediante oggetti specificatamente foggiati, è stato il suo unirsi con i propri simili per la difesa e per la caccia, per la raccolta e per il lavoro. È così che l’uomo, già all’inizio e poi sempre più, ha considerato gli altri come esseri autonomi rispetto a sé, e così si è inteso con loro, ha rivolto loro la parola e ha lasciato che gliela rivolgessero» (Buber 1950b, p. 196). È questo il cuore di una riflessione che mostra il suo valore sia in campo etico che in campo ontologico. Un insegnamento sempre più necessario per l’uomo di questo tempo che, in quanto moderno, «non arriva a riflettere su ciò che circola fra gli individui senza prendere in considerazione i concetti di utilità, di razionalità, di interesse» (Godbout 2007, p. 24). In questo Buber conferma la sua grande attualità, mettendo in chiaro quale sia il problema e offrendo parallelamente una soluzione, la stessa proposta da chi chiede che il bene relazionale venga recuperato e preservato accanto ai beni materiali. Ma, lungi dall’essere una mera giustapposizione, la posizione buberiana sembra addirittura fornire solidità al dibattito: la visione di un’umanità che è costitutivamente inscindibile dalla prospettiva relazionale è presupposto necessario all’affermazione dell’importanza del bene relazionale. Anche nei punti più ambigui del suo pensiero, si offrono interpretazioni che permettono di camminare da una prospettiva specificatamente ontologica ad un’etica della relazione che vede l’uomo sia libero e responsabile, sia bisognoso dell’altro. Porre l’uno accanto all’altro questi termini è certamente rischioso, ma consegna altresì all’uomo uno specifico compito: non guardare al mondo solo tramite gli occhi dell’utile, ma anche tramite lo sguardo della relazione. Martin Buber afferma che «quanto più grave diventa la crisi, tanto più seria e responsabile è la coscienza che ci viene richiesta» (Buber 1950b, p. 195). Non solo ai pensatori del dibattito relazionale sta questa consegna, ma ad ogni persona che può scegliere se realizzare in pienezza la propria umanità o legarsi alle catene del mondo dell’esso.


Bibliografia

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Mauss M. (1950), Essai sur le don, Presses Universitarires de France, Paris, trad. it. Saggio sul dono (2002), Einaudi, Torino.
Levinas E. (1976), Dialogue avec Martin Buber, in Noms Propes, Fata Morgana, Montpellier, trad. it. Il pensiero di Martin Buber e l’ebraismo contemporaneo, in AA. VV. (2016), Il mito della relazione, a cura e con uno studio di Riva F., Castelvecchi, Roma.
Levinas E. (1987), Martin Buber, in Id., Hors Sujet, Fata Morgana, Montpellier, trad. it. Fuori dal soggetto (2018), Marietti, Genova.
Poma A. (1993), La parola rivolta all’uomo occidentale, saggio introduttivo a Buber M., Il principio dialogico e altri saggi, San Paolo, Milano.
Caillé A. (1998), Anthropologie du don, le tries paradigme, Desclée de Brouwer, Paris, trad. it. Il terzo paradigma: antropologia filosofica del dono (1998), Bollati Boringhieri, Torino.
Casper B. (2002), Das Dialogische Denken. Franz Rosenzweig, Ferdinand Ebner und Martin Buber, Verlag Karl Alber GmbH, Freiburg-München, trad. it. Il principio dialogico. Franz Rosenzweig, Ferdinand Ebner e Martin Buber (2009), Morcelliana, Brescia.
Godbout J.T. (2007), Ce qui circule entre nous. Donner, recevoir, rendre, Editions du Seuil, Paris, trad. it., Quello che circola tra noi. Dare, ricevere, ricambiare (2008), Vita e Pensiero, Milano.
Donati P. (2019), Scoprire i beni relazionali: per generare una nuova socialità, Rubbettino, Catanzaro.



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