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Editoriale

Il fatto che ormai da decenni, la democrazia parlamentare, quale forma dominante di traduzione materiale dell’ideale regolativo democratico fondato sulla logica dell’autogoverno, soffrisse di una crisi strutturale era cosa nota da tempo, come numerose analisi hanno dimostrato in una produzione che ha enfatizzato le diverse declinazioni della crisi stessa (“disagio” della democrazia, sue “trasfigurazioni” e “metamorfosi” lungo un crinale di progressivo deterioramento, democrazia “senza qualità” sono solo alcune delle espressioni adottate in una letteratura ormai amplissima).
La pandemia da nuovo coronavirus SARS-CoV-2, oltre a colpire i singoli individui e stravolgere le loro vite, ha avuto un ulteriore impatto negativo sulla forma di governo democratica.
Secondo il “Democracy Index 2020” dell’Economist Intelligence Unit - pubblicato a inizio febbraio 2021 - quasi il 70% dei paesi analizzati ha registrato, in materia, un calo del punteggio complessivo.
Mentre i governi democratici sono stati costretti a adottare divieti e restrizioni per contrastare il virus, le democrazie illiberali (che hanno acquisito uno spazio rilevante nella geopolitica attuale: si pensi a Ungheria, Polonia, Russia in primis) e i regimi autoritari (si pensi alla Turchia) hanno usato anche la pandemia per silenziare gli oppositori, rafforzare ulteriormente le misure repressive e superare di gran lunga i limiti previsti dalle leggi internazionali sui diritti umani. In alcuni casi, il virus è stato - come evidenziato anche dal Democracy Index 2020 - il pretesto per estendere il potere dell’esecutivo e istituire misure di sorveglianza senza garanzie attendibili. Il Brasile di Bolsonaro, dal canto suo, ha avuto una gestione del tutto irrazionale della pandemia con effetti drammatici sulla vita della popolazione e i diritti fondamentali delle persone.
La pandemia ha acceso, di fatto, i riflettori sulla funzione dei governi nelle democrazie del XXI secolo e, in particolare, sul rapporto tra i governi e le persone, evidenziando “deficit democratici” che esistono da molto tempo nonché specifiche tensioni tra la dimensione decisionale e quella della discussione parlamentare (come anche il caso italiano ha mostrato in alcuni frangenti).
Il report dell’Economist Intelligence Unit fornisce dunque un’istantanea dello stato della democrazia in circa 167 Paesi ed evidenzia come questa nuova emergenza abbia fatto scendere - secondo i dati raccolti dall’edizione 2020 - il punteggio globale medio delle libertà civili da 5,44 (su una scala da 0-10) a 5,37, toccando il livello peggiore da quando l’indice è stato prodotto per la prima volta nel 2006.
La grande maggioranza dei Paesi - 116 su un totale di 167 (quasi il 70%) - ha registrato un calo del punteggio totale rispetto al 2019 (a livello drammatico, per esempio, in Mali). Solo 38 Paesi (22,6%) hanno registrato un miglioramento (come Taiwan, ovviamente come conseguenza di un percorso di crescita già in moto). Altri 13 Paesi risultano invariati nella classifica.
Nel complesso, risulta che solo la metà circa della popolazione mondiale (i.e. 49,4%) vive in paesi più o meno democratici; mentre solo l’8,4% risiede in una “democrazia a pieno titolo”. Più di un terzo della popolazione mondiale vive sotto un regime autoritario.
Questo tipo di considerazioni rimandano a criteri di valutazione di tipo quantitativo che mirano a misurare la qualità delle forme di governo democratico (arrivando a distinguere tra “democrazie a pieno titolo”, “democrazie imperfette” e “regimi autoritari”) e gli effetti del loro funzionamento.
Se questo è un possibile approccio per, appunto, “rendere conto” dello stato attuale delle democrazie, pare altresì necessario adottare strumenti più complessi e sofisticati per comprenderne le dinamiche nonché i possibili esiti in termini di effettiva tutela e garanzia dei diritti e di prospettive circa il loro futuro funzionamento come sistemi istituzionali e sociali.
Una possibile chiave di lettura può essere offerta dal rapporto tra quantità e qualità con particolare riferimento alla questione della rappresentanza intesa come aspetto costitutivo della forma democratica moderna e contemporanea.
Per procedere in tal senso non si può prescindere dal mettere a tema la rappresentanza come problema decisivo della filosofia e della riflessione politica e istituzionale (come suggerisce Giuseppe Duso) così come non si può prescindere da un’analisi puntuale del rapporto tra costituzionalismo e rappresentanza (così come proposta da Lucia Corso) nonché da alcune letture interpretative - come quelle prefigurate dalla biopolitica - che hanno messo in luce “la specifica radicalità della attuale crisi” di questo dispositivo in relazione alle dimensioni della vita (è questa l’angolazione prospettica assunta da Laura Bazzicalupo).
Allo stesso tempo un esercizio comparatistico sui modelli della rappresentanza (quale quello proposto da Mauro Volpi) può consentire - a partire dalla struttura dei parlamenti e dalla rappresentatività sociale e politica che essi sono in grado di assicurare - di mettere a tema altri profili salienti.
In primo luogo, alcuni profili che attengono ai soggetti (e ai bisogni e volizioni) della cittadinanza: ad esempio, la questione dell’articolazione degli interessi dei gruppi presenti nella società (come illustra Mara Morini), quella delle differenze di genere (trattata nel contributo di Thomas Casadei), e, ancora, quella delle minoranze (al centro della trattazione Barbara Giovanna Bello).
In secondo luogo, alcuni profili che attengono agli spazi della democrazia stessa: la dimensione internazionale e globale (che costituisce lo scenario di riferimento del contributo di Daniele Archibugi e Marco Cellini), la dimensione dell’Unione europea (su cui si sofferma Sandro Guerrieri), e ovviamente quella nazionale con uno sguardo alle possibilità di attivare nuove modalità di deliberazione democratica (esaminate da Carla Danani).
In ciascuno di questi ambiti il nodo “quantità/qualità” assume un rilievo cruciale: la quantità di per sé sola non è determinante nel caratterizzare i modelli di rappresentanza, ma costituisce una variabile cruciale in relazione ad altri criteri: la struttura del parlamento, il suo ruolo nel sistema politico istituzionale, più ampiamente la cultura e la composizione sociale - aspetto sovente sottolineato nelle letture politologiche orientate dal solo criterio della quantità - che stanno alla base di un sistema politico.
In tempi recenti si sono determinati, del resto, altri elementi significativi che necessitano di essere studiati.
Gli scienziati e gli esperti di salute pubblica hanno avuto un ruolo assai rilevante nella risposta al Covid19: le democrazie devono (e dovranno) fare i conti con le indicazioni degli esperti - una riproposizione dell’antica questione del sapere dei “tecnici” - e trovare le modalità per realizzare un equilibrio che comunque assegni - se della democrazia si vuole preservare il senso profondo - alla politica, e alle sue forme, le responsabilità delle decisioni, nonché la definizione dell’agenda pubblica.
L’eccessiva circolazione di informazioni sul Covid19 ha poi contribuito alla cosiddetta “infodemia” che ha portato al proliferare di teorie minimizzatrici, complottiste, negazioniste con la disseminazione di notizie false e di un’ampia disinformazione - sia a livello di singoli stati sia a livello internazionale - generando ulteriori forme di sfiducia nelle istituzioni.
Sotto questo profilo, un aspetto da sottoporre a vaglio critico è il rapporto tra queste tendenze e il populismo, “parola chiave per raccontare, descrivere e analizzare il dibattito pubblico degli ultimi anni” che porta con sé “un costante gioco di dare e avere, aggiungere e sottrarre quote di rappresentanza, esaltazione e regressione del ruolo del popolo” nel contesto democratico (come illustra Roberto Vicaretti), ma anche tra questi processi di diffusione e disseminazione delle informazioni e le nuove tecnologie. L’impresa della democrazia digitale diretta, sotto questo profilo, rappresenta, nelle intenzioni dei suoi fautori, la risoluzione dei problemi della democrazia rappresentativa, che diviene (lo mostra molto efficacemente Gianmarco Gometz), un vero e proprio “relitto storico”, reso inutile dalla possibilità di raccogliere e computare per via elettronica, a costi irrisori, le preferenze politiche.
L’antiparlamentarismo che scaturisce da questo tipo di orientamenti tocca al cuore una delle ambivalenze del principio democratico alla base degli stati costituzionali contemporanei, il quale da un lato poggia sull’idea che le decisioni politiche vadano ricondotte alla volontà popolare, ma dall’altro affida ad un gruppo comunque ristretto di rappresentanti la decisione politica.
La critica nei confronti dell’istituzione parlamentare si è tramutata, come dimostra il caso italiano, in una sempre più aggressiva spinta antiparlamentare sollecitando anche un vero e proprio «spirito punitivo» nei confronti dei parlamentari, intesi non più anche come espressione delle organizzazioni partitiche di massa e degli interessi dei vari settori della società, ma esclusivamente come classe politica lontana dai bisogni della società e incapaci di assumere scelte in maniera efficace.
È maturata in tal modo l’idea di sbarazzarsi, infine, di una forma obsoleta di intermediazione politica come il Parlamento ed è in questo contesto che si colloca il referendum per la riforma costituzionale di modifica degli artt. 56, 57 e 59 della Costituzione, di recente approvata, che ha ridotto il numero dei parlamentari.
Se non sono mancate appunto le argomentazioni che hanno sottolineato come la riforma in questione fosse ispirata in verità ad una forma radicale di antiparlamentarismo capace di costituire una minaccia per il sistema democratico, durante la campagna referendaria tra gli stessi sostenitori della riforma sono emerse differenti visioni della democrazia e, conseguentemente, diverse idee sull’indirizzo che il discorso sulle riforme avrebbe dovuto (o dovrebbe) assumere dopo il “taglio”. Si sono delineate, di fatto, diverse risposte alla crisi della democrazia parlamentare che rinviano a diversi ambiti e che reagiscono alla “crisi di fiducia” verso il sistema rappresentativo, investendo altresì un forte potenziale di fiducia in altri strumenti che sarebbero risolutivi.
Una prima concezione è la menzionata democrazia diretta digitale (o elettronica). In questa visione, gli strumenti della democrazia diretta dovrebbero sostituirsi (o comunque ritenersi prevalenti rispetto) a quelli della democrazia rappresentativa, destinata a essere superata dallo sviluppo delle tecnologie. Per i sostenitori di tale idea, il taglio del numero dei parlamentari si inserirebbe nell’ambito di un più ampio disegno antiparlamentarista, volto a ridimensionare il ruolo delle Camere a vantaggio degli strumenti di democrazia diretta e partecipativa, la cui applicazione andrebbe potenziata o veicolata, appunto, da un massiccio impiego di mezzi informatici, a cominciare dal voto elettronico.
Una seconda visione è quella della democrazia maggioritaria, decidente, dell’alternanza, un modello che ispira da diversi decenni una considerevole quota dello schieramento politico italiano e che connota l’orientamento, invero per nulla neutrale, di molti politologi. Qui la prospettiva cui si mira è un sistema bipolare che potrebbe originare dalla giusta combinazione di regole costituzionali e regole elettorali. L’affidamento è, in questo caso, a precise tecniche di tipo prettamente istituzionale. I sostenitori della democrazia maggioritaria trascurano, tuttavia, il fatto che un eventuale bipolarismo appare piuttosto come un portato culturale non riproducibile con l’adozione di un sistema elettorale maggioritario o con qualche correzione dell’assetto istituzionale.
Nel dibattito pubblico è rimasta sottotraccia una terza visione, quella propria dei sostenitori di una democrazia partecipativa localistica e autosufficiente, una concezione che, valorizzando il ruolo e le possibilità dei consessi locali, ritiene questi ultimi una linfa vitale per la democrazia, arrivando, secondo alcune teorizzazioni, ad essere del tutto (o quasi) fungibili rispetto al Parlamento nazionale. Il richiamo è qui ad una versione diversa della democrazia stessa e, dunque, a strumenti che attengono le forme e le pratiche della partecipazione e della cittadinanza attiva.
Il protrarsi dell’emergenza pandemica e le complesse vicende parlamentari che hanno portato al governo presieduto da Mario Draghi hanno di fatto bruscamente interrotto un confronto orientato, in verità, dal solo criterio della quantità tralasciando i nodi decisivi relativi alla qualità della rappresentanza e, più in generale, del funzionamento istituzionale della nostra democrazia, nonché quello dello stato attuale della cultura della partecipazione e delle questioni sociali che caratterizzano una società attraversata da diseguaglianze molto profonde.
E tuttavia l’emergenza pandemica ha segnalato in modo assai vivido quanto le sorti delle democrazie siano costitutivamente connesse alle disuguaglianze che alimentano le forme di vulnerabilità (che con le pandemie si accrescono) ma anche la rabbia sociale che conduce all’identificazione con “capi” capaci di trovare soluzioni finalmente decise ai problemi lasciati sul tappeto dal sistema democratico.
La crisi della rappresentanza andrebbe forse letta, soprattutto, alla luce della crisi dell’idea stessa di Stato sociale democratico, cioè della cornice storico-politica entro cui tale forma di democrazia si è da ultimo consolidata.
L’obiettivo storico dei modelli europei di Stato sociale è stato certamente quello della piena occupazione, ma associato non a caso alla piena titolarità dei diritti politici e di cittadinanza. In altre parole, associato alla piena capacità dei cittadini di agire, allo stesso tempo, quali autori e destinatari delle leggi contribuendo alla formazione di uno spazio pubblico condiviso.
In questo senso, il modello europeo di Stato sociale coincide con un modello più elaborato di democrazia parlamentare, in quanto riconducibile alla pretesa politica di garantire ai cittadini non solo libertà e autonomia ma anche eguaglianza sostanziali. Se lo Stato si occupa effettivamente dei bisogni materiali dei cittadini ‒ e, a partire dal secondo Novecento, delle cittadine ‒ attraverso interventi deliberati dalle istituzioni democratiche, i soggetti individuali saranno tendenzialmente incentivati in misura maggiore a contribuire alla formazione della volontà pubblica che si compie in Parlamento usufruendo dei meccanismi e delle infrastrutture della democrazia rappresentativa (voto, sindacati, partiti, mondi dell’associazionismo, ecc.).
Si tratta di un sentiero di fatto poco battuto, anche perché percorrerlo implica una fatica protratta nel tempo; altre vie appaiono – in termini di tempo e sua quantificazione – più rapide. Non è detto che conducano, però, alla meta, ossia alla risoluzione dei problemi centrali delle democrazie contemporanee.



Thomas Casadei


Nei prossimi tre numeri:

dossier su Libertà e democrazia nella cultura politico-giuridica italiana

Due linee interpretative che guidano la riflessione sulla carta costituzionale, sulle proposte di revisione e, in generale, sui fondamenti della nostra convivenza sono indirizzate verso:
- la dimensione giuridica e istituzionale;
- la dimensione concernente quella che possiamo definire sinteticamente l’etica pubblica della vita democratica.
Sono due piani essenziali, ovviamente, ma forse non del tutto idonei, da soli, a render conto del complesso dei problemi da affrontare, sia in sede critica che progettuale. Crediamo che vi sia da riguadagnare una profondità storica che non concerne solo l’attenzione agli eventi del più vicino e lontano passato nel corso del quale è stato costruito il profilo della nostra identità nazionale, ma riguarda, ancor di più, il patrimonio di cultura politico-giuridica accumulato nel tempo e oggi quasi del tutto eclissato per effetto di un evidente quanto preoccupante indebolimento della memoria storica collettiva. È palese, non solo nelle giovani generazioni, l’ignoranza o la conoscenza approssimativa delle culture politiche che hanno contribuito alla lunga formazione del nostro Stato democratico e, in ultimo, a quello che si potrebbe chiamare lo “spirito costituzionale”. Si tratta di un vuoto che è quanto mai urgente colmare, affiancando l’impegno per la formazione politica in senso giuridico ed etico con lo sforzo indirizzato a riproporre alcuni importanti “classici” del pensiero politico italiano. Il punto cruciale su cui lavorare è l’idea che la Costituzione abbia una storia e che questa storia non sia solo sintetizzabile nella vicenda che ha portato alla stesura della carta, ma affondi le sue radici in un lungo e spesso non lineare processo, che precede la stessa formazione dello Stato unitario.
Quello che si intende offrire nei prossimi tre numeri non è una silloge indifferenziata di scritti, ma un percorso ragionato che colleghi le origini del pensiero democratico italiano alla nascita della nostra Repubblica.



In ricordo di Virgilio Mura
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