1. Chi manca nella stanza e perché non è qui?
Il quesito da cui muove il presente contributo riguarda questioni così semplici da poter apparire banali: la “banalità” tuttavia – ci ricorda Hannah Arendt – consente perfino al “male” più atroce di realizzarsi attraverso azioni e persone normali.
In relazione alla rappresentatività politica, qui indagata, è normale pensare alla partecipazione politica (elettorato attivo e passivo) in relazione alla cittadinanza (la realtà non riguarda solo l’Italia). Il problema della riduzione di rappresentanti politici in Parlamento richiede di ragionare su quantità e qualità, alla luce della pluralità nelle società contemporanee.
L’interrogativo che guida la mia analisi può essere formulato come segue: “Chi non è rappresentato politicamente nell’Italia di oggi e perché non lo è? A chi è preclusa la partecipazione politica e che impoverimento deriva da tale assenza?”.
Si tratta evidentemente della traslazione della domanda posta nel 1990 da Mari Matsuda, esponente della Critical Race Theory, la quale in un suo celebre articolo si sofferma sulla (assenza di) partecipazione di persone, tradizionalmente escluse, alle elaborazioni teoriche.
La sua critica è volta al femminismo pragmatico che si andava affermando negli anni Ottanta del secolo scorso e che la studiosa proponeva di “modificare” (“pragmatism modified”) inglobando le voci meno privilegiate e tradizionalmente marginalizzate. Ogni qual volta avvengono dibattiti sulla delineazione di una teoria - suggerisce Matsuda (1990, p. 1765) - sarebbe necessario chiedersi: «Chi non è nella stanza e perché non è qui?». Non si tratta di interrogare solo l’«assenza fisica» ma l’«assenza intellettuale» del punto di vista; si tratta cioè di comprendere l’«impoverimento derivante da tale assenza». In particolare, l’autrice si riferisce alla mancanza di partecipazione di studiosi dichiaratamente gay e studiose apertamente lesbiche “nella stanza” della produzione di saperi ed epistemologie.
Allargando lo sguardo, la “stanza” può essere intesa in senso ampio quale metafora dei luoghi in cui avvengono le deliberazioni, in primis politiche.
Soffermarsi su alcune assenze non è un’operazione finalizzata a formulare predizioni sulle conseguenze della diminuzione del numero di rappresentanti politici; partire dagli attuali vuoti di rappresentanza può però aiutare a mettere a fuoco criticità di cui un progetto inclusivo di riforma elettorale dovrebbe, a mio parere, occuparsi per far sì che tutti abbiano un’equa opportunità di far sentire la propria voce.
La realizzazione di meccanismi per «il riconoscimento e la rappresentanza effettivi» (Young 1990, p. 183) delle persone oppresse e svantaggiate, come è noto, è al centro della democrazia partecipativa, concepita come condizione di giustizia sociale da Iris Marion Young (cfr. Casadei 2011). L’esercizio di diritti politici individuali (attraverso l’elettorato attivo e passivo) e la rappresentanza attraverso i partiti politici sono strettamente connessi nelle democrazie moderne ma i partiti hanno sovente dimostrato di farsi portavoce di interessi di gruppi di cittadini e non di “Altri”.
Che ne è, dunque, di coloro i quali non godono dello status di cittadini (e, di conseguenza, di elettori) o, pur godendone, non riescono a far in modo che l’esercizio dei loro diritti politici incida nel dibattito pubblico e nelle deliberazioni istituzionali?
Tra le molte tipologie relative alla partecipazione politica contemporanea, Joakim Ekman e Erik Amnå distinguono tra partecipazione politica “manifesta” e “latente”.
Sinteticamente, la prima si riferisce a iniziative che rientrano nella partecipazione politica formale, volte a influenzare direttamente i processi e i risultati decisionali: tra queste rientrano l’esercizio del voto, attività individuali “di contatto” con i decisori politici o con la sfera pubblica, iniziative collettive come l’iscrizione a un partito politico, a sindacati o organizzazioni strutturate di advocacy (Ekman e Amnå 2012, pp. 289-290); attività individuali o collettive “extra-parlamentari”, tra cui gruppi che decidono di non “entrare” nei parlamenti, movimenti e network non strutturati in modo gerarchico, sottoscrizione di petizioni. Si tratta, cioè, di forme che altri studiosi definiscono “non convenzionali” ma che, notano Ekman e Amnå, risultano in realtà sempre più convenzionali (ivi, 290; cfr. Zani 2011, p. 22-24).
Per “partecipazione politica latente”, invece, gli autori intendono forme individuali o collettive di impegno civico «di comuni cittadini volte a incidere sulla società e rilevanti per i consociati”, tra cui forme di volontariato, iniziative informali per supportare gruppi socialmente svantaggiati» (Ekman e Amnå 2012, pp. 291-292; cfr. Zani 2011, pp. 24-26).
Nel prosieguo svilupperò le mie riflessioni seguendo due percorsi principali: il primo riguarda un nodo centrale della partecipazione politica, ossia il godimento della titolarità dell’elettorato attivo e passivo nell’Italia contemporanea; il secondo attiene alle condizioni per l’effettivo esercizio di tali diritti da parte di soggetti che godono della titolarità formale.
In relazione a entrambi farò delle brevi incursioni sulle forme di partecipazione politica che non si estrinsecano attraverso l’elettorato attivo e passivo.
2. Questioni di status: migranti, giovani, rom
Come è noto, sul piano dell’elettorato attivo l’art. 48 della Costituzione italiana prevede che «[s]ono elettori tutti i cittadini, uomini e donne, che hanno raggiunto la maggiore età [...]. Il diritto di voto non può essere limitato se non per incapacità civile o per effetto di sentenza penale irrevocabile o nei casi di indegnità morale indicati dalla legge». Con riferimento all’elettorato passivo l’art. 51 sancisce che «[t]utti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza [...]». La disciplina è completata dagli artt. 56 e 58 che stabiliscono l’età per acquisire la capacità elettorale: diciotto anni per poter eleggere i deputati; venticinque anni per l’elezione dei senatori; per essere eletti deputati e senatori è necessario aver compiuto, rispettivamente, venticinque anni e quarant’anni.
Insieme all’iscrizione alle liste elettorali, possiamo quindi delineare almeno due soglie minime ai fini della partecipazione politica manifesta formale attraverso l’elettorato attivo e passivo - lo status di cittadino e l’età. In relazione alle deroghe indicate dall’art. 48, mi limito a segnalare che sarebbe necessaria una riflessione interdisciplinare e basata sui diritti umani in materia di incapacità civile, alla luce dello scarto tra titolarità astratta del diritto al voto ed esercizio in concreto dello stesso (cfr. Dalla Balla 2014); sul difficile esercizio di tale diritto da parte delle persone in stato di detenzione rimando alle recenti argomentazioni di Gonnella (2019).
L’acquisizione dello status di cittadino rappresenta ancora, nel mondo globale e in continuo mutamento, uno dei principali requisiti per l’attribuzione della titolarità di diritti e doveri (cfr. Marshall 1950; Mindus 2018). Limitandomi ai diritti-doveri politici, ciò non vale solo a livello nazionale ma anche per l’esercizio dell’elettorato attivo e passivo alle elezioni del Parlamento europeo, ristretto ai soli cittadini europei.
La distinzione tra cittadini e non cittadini prende forma quindi dal livello locale a quello europeo. Le eccezioni riguardano il diritto di voto e l’eleggibilità alle elezioni comunali accordati ai cittadini dell’Unione Europea (‘UE’) residenti in uno Stato membro di cui non hanno la cittadinanza - con sensibili differenze tra Paesi (Hutcheson, Ostling 2021 p. 4) - alla luce dei Trattati, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e della Direttiva 94/80/EC, la quale è, al momento, oggetto di una consultazione pubblica online in vista della sua revisione. Vanno ricordati anche alcuni Paesi membri dell’UE in cui i cittadini di Paesi Terzi godono dell’elettorato attivo alle elezioni comunali (così, per esempio, Irlanda, Svezia, Finlandia).
Seguendo Seyla Benhabib, si può affermare che sia venuto a mancare «il modello unitario che combinava la residenza prolungata su un territorio con un’identità nazionale, l’esercizio dei diritti politici e una comune giurisdizione amministrativa» (Benhabib 2006, 117). Nell’UE contemporanea si è legittimati a far valere determinati diritti ma non altri; i diritti politici possono essere esercitati in alcuni casi pur non essendo nazionali (cittadini dei Paesi membri residenti in altro Stato dell’UE); in quanto “lavoratori” i cittadini di Paesi terzi godono di alcuni diritti sociali ma, salvo i rari casi di elettorato attivo a elezioni locali, non dell’“appartenenza politica” con il conseguente rischio di un’«estraneità permanente» (ibidem; cfr. Benhabib 2005). Si assiste quindi alla convivenza tra cittadini europei e non cittadini: questi ultimi contribuiscono in vario modo alla società senza avere accesso pieno ai diritti politici.
Passando all’altra soglia minima, l’età cronologica è al centro di un dibattito europeo volto all’abbassamento a sedici anni per l’esercizio del diritto al voto. Attualmente, la maggioranza dei Paesi europei accorda tale diritto al compimento dei diciotto anni, tranne Austria e Malta (sedici anni) e Grecia (diciassette anni). L’età per l’eleggibilità è fissata a diciotto anni nella maggior parte degli Stati membri. Tra le eccezioni vi sono il Belgio, la Bulgaria, Cipro, la Repubblica ceca, l’Estonia, l’Irlanda, la Lettonia, la Lituania, la Polonia e la Slovacchia (ventun anni), la Romania (ventitré anni), la Grecia e l’Italia (venticinque anni). Queste difformità si riverberano anche sull’elettorato attivo e passivo alle elezioni del Parlamento europeo.
Già nelle consultazioni preliminari alla redazione del Libro Bianco della Commissione europea del 21 novembre 2001, intitolato “Un nuovo impulso per la gioventù europea”, che demarca convenzionalmente l’inizio delle politiche giovanili dell’UE, i giovani partecipanti suggerivano di «definire i principi, le norme e gli obblighi legati all’età in cui si usufruisce del diritto di voto e di eleggibilità (compresa la questione dell’abbassamento di tale soglia), [...] l’estensione del diritto (agli immigrati, ad esempio), o ancora [...] l’introduzione di un’educazione alla cittadinanza attiva» (Allegato n. I, par. 1.1.).
I giovani non possono di certo essere definiti “una minoranza” né in una prospettiva sociologica né sul piano giuridico, ma risultano minoritari nei parlamenti.
In Italia la piena titolarità dei diritti politici è avvenuta finora gradualmente. Inoltre, si registra una certa disaffezione dei giovani dalla politica manifesta esercitata tramite elettorato attivo e passivo (ex multis, Lello 2020). Questo fenomeno sembra estendersi ad altri Paesi dell’UE tanto che la Commissione europea nella consultazione online, avvenuta nel 2016-2017, “#EU Narrative” ha posto il seguente quesito: «Perché così tanti giovani non votano alle elezioni?». Il piccolo campione di partecipanti non può portare a considerare le risposte rappresentative in termini statistici, ma leggere alcuni contenuti ricorrenti è utile per esplorare sentimenti confermati da vari studi: «le persone nei parlamenti non rappresentano l’intera popolazione»; «i giovani credono: 1) perché dovrei preoccuparmi, nessuno ci ascolta comunque; 2) perché dovrei preoccuparmi, nessuno ci prende sul serio comunque; 3) perché dovrei preoccuparmi, non posso cambiare nulla comunque. E sapete cosa? Hanno ragione!».
Tornando all’Italia, alla data 15 aprile 2021 l’Assemblea della Camera sta esaminando proposte di abbassamento dell’età (da venticinque a diciotto anni) per poter eleggere i componenti del Senato (modificando l’art. 58 Cost., comma 1), uniformandola a quella già prevista per la Camera.
Il 15 gennaio 2020 la Commissione Affari costituzionali del Senato aveva approvato altresì un emendamento sull’abbassamento dell’età minima per l’elettorato passivo da quaranta a venticinque anni, ma non è stato approvato dall’Assemblea del Senato.
Nel Parlamento «più giovane della storia repubblicana» (Rapisarda 2018), alla data del 21 maggio 2021, l’età media dei senatori si attesta sui cinquantacinque anni; al 30 aprile 2021 duecentoquindici deputati rientrano nella fascia di età 40-49; centosessanta nella fascia 30-39, seguiti da centotrentotto nella fascia 50-59. Nove deputati sono di età compresa tra 25 e 29 anni; novanta appartengono alla fascia 60-69 anni; diciassette hanno più di settant’anni. La maggioranza attuale nel Parlamento italiano non rappresenta, in termini di età, cittadini che rientrano in comuni definizioni di “giovani” o “giovani adulti”, dai contorni assai sfumati, elaborate negli Youth Studies (cfr., da ultimo, Bello 2021).
Se l’esistenza di un dibattito costituisce un segnale di considerazione per i giovani cittadini, un loro maggiore coinvolgimento ai processi decisionali su diritti così fondamentali che li riguardano sarebbe auspicabile.
Per completezza, aggiungo che l’età media dei Parlamentari europei si aggira intorno ai quarantanove anni: il più giovane rappresentante ha ventuno anni, il più anziano ottantadue (dati aggiornati al 9 luglio 2019).
In merito alla cittadinanza come requisito per poter votare ed essere eletti, invece, risulta non essere in corso alcun dibattito.
Proviamo ora a incrociare le categorie “età” e “status di cittadino”: una vistosa assenza riguarda le c.d. “seconde generazioni” che, in senso stretto, indicano i figli di genitori migranti, nati e cresciuti in Italia (cfr. Bello 2018). Il disegno di legge unificato “Modifiche alla legge 5 febbraio 1992, n. 91, e altre disposizioni in materia di cittadinanza”, approvato dalla Camera dei Deputati in prima lettura nell’ottobre 2015 (https://www.asgi.it/tag/litalia-sono-anchio/), non è mai stato discusso al Senato. Il testo aveva recepito solo in parte il contenuto della proposta di legge di iniziativa popolare per riformare la legge sulla cittadinanza italiana del febbraio 2012 raccolte dal Comitato promotore della campagna nazionale “L’Italia sono anch’io”. Quest’ultima peraltro va segnalata come un rilevante esempio di interazione tra politica manifesta extra-parlamentare e parlamentare, in ragione del coinvolgimento della “Rete G2 – Seconde Generazioni” in coalizione con altri attori della società civile.
Se fosse stato approvato, il testo avrebbe introdotto l’acquisizione della cittadinanza per nascita basata sul cosiddetto “ius soli temperato” per i nati in Italia da un genitore titolare di un permesso di soggiorno permanente o di un permesso di soggiorno di lungo periodo (o che lo abbia già chiesto e poi ottenuto). Questa disposizione ha sollevato numerose critiche perché avrebbe subordinato l’accesso alla cittadinanza alla capacità economica del genitore che soddisfa i requisiti per ottenere un permesso di soggiorno “stabile”. A questa prima via, il disegno di legge affiancava l’acquisto della cittadinanza sulla base del ius culturae (diritto legato all’istruzione) per i minori stranieri nati in Italia o che vi abbiano fatto ingresso entro il compimento dei dodici anni e che abbiano assolto gli obblighi formativi previsti nel testo di legge.
Attualmente, le modifiche introdotte dalla legge n. 98 del 9 agosto 2013 tentano di rimuovere due rigidità anacronistiche alla luce dei mutamenti demografici che hanno interessato l’Italia negli ultimi trent’anni: la prova della residenza legale ininterrotta nel territorio italiano dalla nascita fino al compimento dei diciotto anni, cui parte della giurisprudenza aveva posto rimedio in via interpretativa; la necessità di manifestare espressamente la volontà di acquistare la cittadinanza italiana da parte dell’interessato entro il diciannovesimo anno di età. Rispetto al primo requisito la ratio legis è di non far ricadere inerzie familiari o amministrative sui giovani e prevede che, ai fini dell’acquisizione della cittadinanza italiana, i giovani cittadini di Paesi terzi nati in Italia possano dimostrare il possesso della residenza legale «con ogni idonea documentazione» qualora gli inadempimenti siano «riconducibili ai genitori o agli uffici della Pubblica Amministrazione». In merito al secondo requisito, la legge mira a far sì che l’ignorantia legis (la quale, salvo eccezioni, non excusat) non incida sull’accesso a uno status così fondamentale come quello di cittadinanza. Di conseguenza, la dichiarazione di volontà di acquisire la cittadinanza da parte dei neo-maggiorenni può attualmente aver luogo anche dopo il compimento dei diciannove anni di età, qualora gli ufficiali di Stato Civile non abbiano provveduto a comunicare loro - nei sei mesi precedenti il compimento del diciottesimo anno di età e nella sede di residenza quale risulta all’ufficio - la possibilità di effettuare tale dichiarazione.
A parte il breve arco di tempo a disposizione per manifestare la volontà di acquistare la cittadinanza, ci si può domandare perché una legge così importante non fosse conosciuta da molti giovani adolescenti “stranieri”; ci si può interrogare sull’esclusione sociale, sulle condizioni di povertà economica ed educativa che riguarda molti di loro, su come i programmi di educazione civica nelle scuole dell’obbligo e l’animazione socioeducativa al loro esterno avrebbero potuto colmare simili lacune.
Tali disposizioni costituiscono un passo importante per poter diventare cittadini italiani e titolari dei diritti che ne conseguono, ma non sono certo sufficienti per la piena partecipazione sociale: fino al compimento della maggiore età permangono il senso di precarietà, il sentirsi “ospiti”, l’esclusione da esperienze di socializzazione come le gite scolastiche internazionali (Lunaria 2017).
Secondo un rapporto Istat del 2020 non è possibile quantificare con precisione i giovani appartenenti alle seconde generazioni anche alla luce della diversità di situazioni individuali che vi rientrano; tuttavia la stessa fonte riporta alcune indicazioni: i minorenni “stranieri” residenti in Italia ammontavano a «circa 26 mila al censimento del 1991, 285 mila a quello del 2001 e oltre 940 mila a quello del 2011. Secondo i dati anagrafici sarebbero diventati un milione e 40 mila all’inizio del 2018. Una cifra accresciutasi di 40 volte in un quarto di secolo, che comunque non tiene conto, da una parte, di tutti i minorenni diventati italiani e di quelli nati con il passaporto italiano in quanto figli di coppie miste (con uno dei genitori italiano) e, dall’altra, dei maggiorenni figli di immigrati, nati in Italia o arrivati in età prescolare o scolare e attualmente ancora stranieri o cittadini italiani» (Istat 2020, p. 6).
Se diamo ai numeri un volto umano, l’impoverimento che deriva dalla mancanza di partecipazione di questi giovani all’elezione di rappresentanti politici e di espressione del loro (plurale) punto di vista nelle stanze deliberative interroga il senso più profondo della democrazia.
Per concludere su questa parte, proviamo a intersecare un’ulteriore categoria: l’“appartenenza rom”, termine omnicomprensivo che nelle istituzioni internazionali e sovranazionali indica varie comunità, tra cui rom, sinti, camminanti. In assenza di dati certi, si stima che la popolazione rom in Italia ammonti a circa 170.000-180.000 persone. Di queste, approssimativamente circa 20.000 vivono negli insediamenti formali o informali (Associazione 21 Luglio 2019), ossia attorno allo 0,03% della popolazione italiana. Al netto delle incertezze sui dati, una caratteristica piuttosto appurata è che la popolazione rom sia, in generale, particolarmente giovane, non solo in Italia.
Per quanto riguarda il loro status si distinguono cittadini italiani, cittadini di Paesi europei o di Paesi terzi e, infine, apolidi “di fatto”. La questione relativa allo status giuridico di molti giovani rom è stata affrontata dalla “Strategia nazionale d’inclusione dei Rom, dei Sinti e dei Camminanti, attuazione Comunicazione Commissione europea n.173/2011” ed è ripresa in via generale anche dal nuovo EU Roma Strategic Framework for Equality, Inclusion and Participation for 2020-2030. L’impegno a sostenere il riconoscimento della cittadinanza o - almeno - di uno status regolare e meno precario dei giovani rom che ne sono privi in Italia si deve soprattutto a ONG (non rom e rom), impegnate altresì a diffondere la conoscenza della legislazione nazionale in materia.
Se rifugiati e richiedenti asilo sono ancora mantenuti in uno «stato di eccezione permanente» (cfr. Agamben 2003), i migranti di Paesi Terzi non godono di diritti politici e le seconde generazioni, incluse quelle rom, non trovano risposta alla legittima aspirazione ad appartenere pienamente al Paese in cui sono cresciuti, nel quale agiscono anche come interlocutori nei dibattiti pubblici.
La loro partecipazione politica manifesta è circoscritta forzosamente a quelle iniziative, individuali o collettive, di contatto con rappresentanti politici o extra-parlamentari. La già citata Rete G2 è attualmente tra i sostenitori della Campagna di informazione “18 anni in... Comune” .
Un po’ diversa è la condizione dei giovani rom, i quali anche a causa delle discriminazioni e della stigmatizzazione nei confronti delle comunità a cui appartengono hanno minore visibilità nello spazio pubblico (Pasta, Vitale 2018). Iniziative come l’incontro a Montecitorio dell’allora Presidente della Camera Laura Boldrini con una delegazione di giovani rom - in occasione della Giornata internazionale dei rom, sinti e camminanti l’8 aprile 2013 - costituiscono significativi messaggi di riconoscimento della loro dignità: equivale a dire che qualcuno “nella stanza” si impegna a rappresentare i loro diritti. Insieme alla distribuzione e alla partecipazione politica (in senso lato), il riconoscimento è una delle tre dimensioni della teoria dell’uguaglianza elaborata da Nancy Fraser (2010) e intesa come “pari partecipazione”. A distanza di otto anni, però, poco o nulla pare essere cambiato per molti di loro. Percorsi di formazione politica e di cittadinanza per giovani rom sono strumenti utili per promuovere la loro partecipazione manifesta all’interno di associazioni, ma l’interazione tra fattori come stigma, condizioni di povertà (economica ed educativa) e segregazione abitativa genera ostacoli alla loro effettiva partecipazione che lo Stato italiano è chiamato a rimuovere dall’art. 3, comma 2, Cost.
3. Effettivo esercizio: i casi dei senza fissa dimora e delle persone LGBTQI+
Godere della titolarità di diritti politici è un requisito necessario ma non sufficiente al loro effettivo esercizio. Pratiche amministrative, l’intensità dei pregiudizi - che, come spiega Allport (1979), possono sfociare in discriminazioni, violenza e odio - ostacoli strutturali impediscono de facto la partecipazione politica manifesta formale.
Due esempi mi pare illustrino efficacemente tali dinamiche.
Il primo riguarda, i cittadini (e non) senza fissa dimora (o “senza tetto”) i quali per diverse ragioni - tra cui condizioni socioeconomiche e precarietà alloggiativa - sono privi di recapito o domicilio in un Comune italiano. In base alla lettura congiunta di una serie di disposizioni (tra cui la legge anagrafica del 1954 modificata, il Decreto 6 luglio 2010 e la Circolare Istat n. 29/1992), tali soggetti hanno il diritto di stabilire la residenza nel luogo in cui vivono di fatto o, in mancanza, nel Comune di nascita; vi è inoltre la possibilità di richiedere la c.d. residenza fittizia o virtuale (presso il Comune) con equivalente valore giuridico. Dalla registrazione anagrafica discendono importanti conseguenze per l’esercizio dei diritti fondamentali e per l’accesso a numerosi servizi essenziali. Per i cittadini italiani una rilevante conseguenza è l’iscrizione nelle liste elettorali. Gli ultimi dati Istat sulle persone senza fissa dimora risalgono al 2014 che, all’epoca, ammontavano a 50.724. Di queste, i due terzi circa (68,7%) hanno dichiarato di essere iscritte all’anagrafe di un comune italiano. Disaggregando i dati, il 97,2% dei partecipanti italiani all’indagine dichiarava di esserlo, rispetto al ben inferiore 48,1% di cittadini migranti.
In assenza di dati sistematici a livello nazionale risulta difficile mappare, a sette anni di distanza, l’entità del fenomeno che, alla luce della crescente povertà nel Paese e della pandemia di covid-19, appare quanto mai necessaria. La possibile difformità tra pratiche amministrative locali incide sull’effettivo esercizio, inter alia, dei diritti politici delle persone senza fissa dimora italiane da cui resterebbero di fatto escluse in assenza della corretta applicazione della legge vigente.
Non posso omettere di evidenziare l’urgenza dell’uniforme applicazione della legge sia per i cittadini italiani sia per i soggetti migranti ai fini dell’esercizio dei diritti sociali. I casi di multe ai “senzatetto” durante il primo lockdown per il fatto di essere “fuori casa” (non avendone una) mostra gli effetti paradossali di un diritto cieco di fronte a situazioni specifiche di vulnerabilità, i quali rendono gli scritti di Loïc Wacquant – in particolare Punishing the Poor (2009) – tristemente attuali. La reazione di parte della politica è stata abbastanza tempestiva, ma non risolutiva al fine di garantire la dignità di questi soggetti.
Iniziative di politica manifesta extra-parlamentare sono volte proprio a diffondere la conoscenza delle disposizioni “in strada”, a sensibilizzare i decisori politici sugli ostacoli concreti, a monitorare la loro applicazione da parte degli amministratori locali, sollecitando altresì la loro responsiveness nel rimuovere eventuali ostacoli che si frappongono alla registrazione. Si pensi all’operato di attori sociali come Avvocato di Strada Onlus.
Vanno inoltre ricordate anche le iniziative di partecipazione politica latente di singole persone o associazioni che si attivano a supporto delle persone che vivono in strada, soprattutto durante l’inverno.
Un secondo caso significativo riguarda l’esercizio effettivo di diritti politici da parte di persone italiane che si identificano come LGBTQI+, termine omnicomprensivo che racchiude istanze e ostacoli sensibilmente diversi. Anche in tal caso la titolarità astratta dei diritti politici è piena: nel corso degli anni non sono mancati esponenti politici apertamente omosessuali, lesbiche, bisessuali o transgender sia a livello nazionale sia a livello regionale e locale. Tuttavia le manifestazioni offensive nei confronti di molti di loro e le polemiche che stanno caratterizzando l’iter legislativo del disegno di legge c.d. Zan al Senato invitano a domandarsi quale sia il “prezzo” che un cittadino rischia di dover pagare quando decide di impegnarsi nella politica manifesta formale dichiarando il proprio orientamento sessuale o l’identità di genere. Illustrando la sua elaborazione multidimensionale del principio di uguaglianza sostanziale, Sandra Fredman (2016, p. 738) ci ricorda che «nessun individuo dovrebbe essere costretto a pagare un prezzo irragionevole per le proprie scelte», tra cui la scelta di candidarsi alle elezioni che, peraltro, coincide con l’esercizio di un diritto costituzionalmente garantito.
Una ricerca condotta nei primi mesi del 2020 in tre Paesi europei – Italia, Grecia e Cipro – all’interno del progetto “VoiceIt - Strengthening LGBTQI+’s Voice in Politics” ha indagato le percezioni sulla partecipazione politica delle persone che si identificano come LGBTQI+ da parte delle stesse, della società civile, di rappresentanti politici e delle pubbliche amministrazioni. Al pari del caso esaminato nel paragrafo precedente i dati raccolti non possono essere generalizzati: il campione italiano consiste di 438 partecipanti, tra cui 142 persone che, nel rispondere, si sono identificate come LGBTQI+.
Tutti i partecipanti concordano sul fatto che le persone LGBTQI+ non siano equamente rappresentate nella vita politica italiana. L’aspetto che, ai nostri fini, rileva maggiormente è che oltre la metà dei partecipanti che si identificano come LGBTQI+ (n = 84) teme di correre il rischio di subire discriminazioni qualora volesse partecipare alla vita politica in Italia (Bello, Casu 2020 p. 41). Circa lo stesso numero di persone (n = 80) pensa che le proprie idee non sarebbero prese in considerazione quanto quelle di cittadini eterosessuali cisgender (ivi, p. 42). In termini di opinione pubblica, l’Eurobarometro 2019 aiuta a contestualizzare i dati del piccolo osservatorio italiano. Il 23% delle persone partecipanti al sondaggio in Italia afferma di sentirsi «totalmente a proprio agio» nell’avere persone lesbiche, gay o bisessuali nelle più alte cariche politiche, mentre l’11% si dichiara «totalmente a disagio» (EC 2019, p. 136). La situazione appare sensibilmente diversa a proposito delle persone transgender, in merito alle quali 14% si sentirebbe «totalmente a proprio agio» e il 16% «molto a disagio». Con questi dati l’Italia si colloca nella fascia intermedia della classifica dei Paesi dell’UE sul punto.
Alcuni partiti italiani dichiarano di farsi portavoce dei diritti delle persone che si identificano come LGBTQI+ o hanno istituito presidi ad hoc. L’adozione della legge c.d. Cirinnà costituisce un esempio dell’impegno politico sui “diritti LGBTQI+”. Si registrano numerose attività extra-parlamentari volte ad affermare la voce plurale “arcobaleno” sebbene i diritti delle persone transgender abbiano ancora meno visibilità. Non meno importanti sono le iniziative di assistenza legale gratuita e di supporto in giudizio consentito dal Decreto Legislativo 216/2003. Tuttavia l’esercizio del diritto di elettorato passivo sembra richiedere ancora un “prezzo irragionevole”. Questa circostanza attesta la pervicacia della logica della “somiglianza/differenza” che le teorie critiche del diritto cercano di superare da tempo (cfr. Bernardini, Giolo 2017). Tra la necessità di dover somigliare ai soggetti dominanti – in questo caso, eterosessuali o, come da qualche tempo si usa dire, cisgender (ossia le persone la cui identità di genere corrisponde al genere e al sesso che è stato assegnato loro alla nascita, o ancora “coloro che si sentono a proprio agio con il proprio genere biologico”) – per poter esercitare pienamente i propri diritti e l’esclusione che deriva dalla differenza, sembra ancora lontano il “tertium datur”: portare i diritti dei soggetti dal margine al centro della riflessione politica e giuridica.
4. Quo vadis?
In termini di rappresentatività possiamo allora chiederci: un numero inferiore di parlamentari riuscirà a rappresentare migranti, giovani, seconde generazioni, “senza tetto” e “persone LGBTQI+” di più o meglio? Riuscirà a “traghettare” questi soggetti dentro la “stanza” aprendo un serio dibattito sul loro accesso a diritti politici? Non potendo prevedere il futuro, alcune considerazioni mi portano a temere che ciò sia difficile.
La prima considerazione riguarda la pervasività delle costruzioni sociali degli “Altri” - siano essi migranti, richiedenti asilo o rom “nomadi stanziali”, perfino cittadini italiani - come “suitable enemies” (cfr. Christie, Wacquant 1999) nei dibattiti pre-elettorali. Governare “le migrazioni”, i “rom” e così via è un tradizionale argomento delle campagne elettorali - dalle amministrative alle europee: esso rassicura i cittadini (elettori) sul fatto che i loro diritti avranno la precedenza; che sono protetti da tutti gli “Altri”, i cui volti si confondono in un unicum dalle sembianze minacciose.
Le nuove forme di povertà che riguardano molti cittadini italiani, inoltre, generano la lotta per l’accaparramento di risorse scarse. L’emergenza pandemica costituisce un interessante banco di prova per osservare l’acuirsi del discorso d’odio nei confronti di migranti e rifugiati “colpevoli” di privare i cittadini in stato di povertà di adeguate risorse (Amnesty International Italia 2021).
Supportare i diritti di soggetti tradizionalmente esclusi suscita polemiche in una parte dell’elettorato che può scaturire in discorsi d’odio. In base ai dati del Barometro dell’odio redatto da Amnesty International in occasione delle elezioni europee del 2019 tra le categorie sociali target di odio online - da parte di alcuni esponenti politici e utenti della rete - vi sono rifugiati, musulmani, donne, rom e le ONG, percepite come alleate di soggetti esclusi.
La seconda considerazione concerne i politici che solidarizzano con i soggetti marginalizzati cercando di rappresentarne il punto di vista e sostenere il riconoscimento dei loro diritti.
Rappresentare coloro che attualmente non godono di piena cittadinanza richiede l’accettazione di alcuni rischi, tra cui perdere consensi e/o divenire a propria volta bersagli d’odio. Ne costituiscono solo un esempio le forti reazioni contro Enrico Rossi durante il mandato di Presidente della Toscana, generate da una foto che lo ritraeva con delle persone rom intitolata «Ecco i miei vicini di casa». L’Onorevole Laura Boldrini, già Presidente della Camera dei deputati, è ripetutamente colpita da attacchi, anche sessisti, per le sue posizioni sulle politiche migratorie e sui rom. L’ex Ministra Cécile Kyenge è stata destinataria di espressioni deumanizzanti per il fatto di essere una “donna nera” e, per di più, impegnata per il riconoscimento dei diritti delle persone rom.
La diminuzione del numero dei parlamentari, a ben vedere e al netto di altre considerazioni, rende i seggi stessi una risorsa ambita ma scarsa, per la quale candidati/e e partiti dovranno competere.
Sul piano dell’elettorato passivo accrescere il numero dei soggetti eleggibili (per cittadinanza ed età) renderebbe tale risorsa ancora più rara, anche se gli stereotipi su eventuali newcomer potrebbe limitare le loro chance effettive di elezione.
Sul piano delle relazioni con gli elettori è ipotizzabile che i partiti politici si possano trovare a un crocevia in un’Italia alle prese, almeno al momento, con alti tassi di disoccupazione giovanile, accesso generale al “decent work” (stabile e sicuro) e un’UE refrattaria a trovare un accordo comune e basato sui diritti umani in materia di migrazioni.
È presumibile che questi importanti attori della rappresentanza politica, nella scelta dei soggetti candidabili, debbano decidere se realizzare il proprio progetto e le umane ambizioni, anche a costo di “lasciare indietro qualcuno” o se rappresentare anche coloro che non possono, neppure volendo, o non riescono a votarli.
Al di là di valutazioni quantitative o qualitative, penso che questa sia una delle sfide attuali per la realizzazione di una democrazia effettivamente inclusiva e plurale.
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