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Crisi della rappresentanza e politica della vita

Laura Bazzicalupo
Articolo pubblicato nella sezione "La rappresentanza politica tra quantità e qualità"

È opportuno pensare insieme quelle che sembrano polarità opposte presiedute da logiche opposte: trascendentalista la rappresentanza e immanentista la cosiddetta politica della vita (o biopolitica). Quest'ultima si impone nei fatti, oggi più che mai, segnalando il crescente innesto delle relazioni di potere direttamente sulle vite per gestirle, orientarle, ma anche il movimento delle vite stesse che, rifiutando o piegando le mediazioni, esprimono e creano nuove forme di vita. Le loro due storie sono infatti intrecciate e si condizionano reciprocamente. Per darne conto sarà necessario “attraversare” il dispositivo della rappresentanza moderna e la sua connessione con la logica della rappresentazione politica: dalle sue aporie strutturali infatti emerge e si ripropone di volta in volta l'istanza anti-rappresentativa biopolitica, della quale, a sua volta sarà necessario chiarire le ambivalenze, lo sfondo ontologico e le contraddizioni.
Che il concetto moderno di politica sia legato alla categoria della rappresentazione/rappresentanza, fino al punto da sembrare a lungo impensabile senza di essa, è un dato della cultura occidentale e della sua Main Tradition. L'ottica di questo saggio è la presa in carico della specifica radicalità della attuale crisi che sembra travolgere quel modo di pensare la politica: ciò che è mutato è infatti lo sfondo logico e ontologico. Quelle che chiamiamo politiche affermative della vita - che, come vedremo, vanno al di là della gestione del biopotere “sulla” vita - hanno una forte dimensione pratica, concreta: muovono dalle esperienze di vita esistenziali e materiali e ad esse rimangono immanenti in esplicito contrasto con la trama concettuale (istituzionalizzata e consolidata) del dualismo rappresentativo e normativo. Emergono forme nuove, espressive, puntuali, localizzate che trovano la loro ragione d'essere, il loro terreno di lotta e di innovazione, proprio nel sottrarsi alla trascendenza normativa implicita nella rappresentazione che viene avvertita come tradimento, cattura delle differenze esistenziali. Preservare il proliferare delle differenze - l'immaginario ontologico che sottende tutto il pensiero democratico radicale - rovescia il tradizionale predominio della reductio ad unum propria della logica rappresentativa. Ma anche in questa prospettiva biopolitica non mancano le contraddizioni e dunque la ricerca di vie di uscita contaminate con il trascendimento proprio della logica rappresentativa.


Aporie del moderno, tra forma e vita

Il concetto di rappresentanza ha una sua storicità e una contestualizzazione che lo vede svilupparsi a partire dalla teoria hobbesiana fino alla rivoluzione francese attorno al presupposto - assolutamente moderno - della mancanza di una unità politica “naturale”, pre-data, oggettiva. La rappresentanza è il dispositivo concettuale e pratico che media la pluralità dei soggetti nella rappresentazione dell'unità dello Stato, della sua sovranità e volontà. L'artificialismo implicito in questa “costruzione/costituzione” del soggetto unitario - lo Stato - cerca, sin dall'inizio, compensazioni che ne garantiscano una stabilità “oggettiva” in contenuti biopolitici come nazione o razza. Biologia razziale e autoctonia si sommano al formalismo della cittadinanza, fornendo alla costruzione sovrana una comune “naturalità di appartenenza” dei cittadini, destinata a rinforzare e rendere necessaria e indisponibile la rappresentanza unitaria. All'interno della unità statale, il riconoscimento delle parti - espresse dai rappresentanti del regime parlamentare - è subordinato alla totalizzazione dei soggetti nel popolo. Dunque il meccanismo moderno della rappresentanza risponde alla esigenza che la unità politica sia prodotta contestualmente alla produzione dei soggetti, gli individui/cittadini, pensati in modo funzionale a quella unità. Un circolo di dipendenza che lega indissolubilmente la rappresentanza plurale al monismo della rappresentazione. Si tratta di un dispositivo logico che ha permesso il passaggio dal molteplice all’Uno, il quale emerge, dalla frammentazione incoerente del bios, nella forma e con il nome di Popolo, cardine della democrazia e protagonista dell’agire politico. È lui il soggetto titolare della identità collettiva che parla con una voce unica e agisce “politicamente”, esprimendo però la partecipazione di tutti i cittadini all’autogoverno. Questo paradosso di uno e molteplice è sostenuto dal movimento trascendentale, duplicativo e ideale inerente a ogni rappresentazione, per sua natura ancipite: una presenza ideale, un significante padrone - immagine secolarizzata di una presenza assente - che permette e sostiene la catena dei significati diversi.
Ha rilievo in questo dispositivo, l'alienazione di potere che, attraverso il rito delle elezioni, passa da una moltitudine sociale e prepolitica, (teorizzata come l'insieme informe, differenziale e plurale di singolarità assolute e conflittuali) al popolo, entità di soggetti formalmente uguali, artificialmente costruita dalla sovranità del potere costituente (cfr. Bourdieu 2001a, 2001b). Il passaggio dal magma della moltitudine dei viventi (presunta informe, ma in realtà differenziata da relazioni di potere) alle soggettività formalmente paritarie, rappresentate entro l'entità politica popolo, è un meccanismo doppiamente sacrificale: c'è l'alienazione di potere di ciascuno e di tutti e c'è la riduzione della parte personale e sociale, “privata” (il corpo che produce e si riproduce) a favore della forma, visibile “pubblica”, che, grazie a questa drastica riduzione delle differenziazioni inerenti la vita materiale, può risultare democraticamente libera e uguale (Bazzicalupo 2012, pp. 99-112).
Il prezzo umano e le aporie innescate dal sacrificio delle concrete differenze sono esattamente il nodo gordiano denunciato dalle ondate di politiche resistenti e protestatarie fino ad oggi; ma traspaiono anche e fin dal principio dalla stessa difficoltà del formalismo giuridico a legiferare e governare i soggetti fragili, i minori, le problematiche della cura e della dipendenza, che smentiscono l'assunto formale dei soggetti liberi, autonomi, uguali (cfr. Bernardini, Giolo 2017; Bernardini 2017, pp. 317-338).
La logica della rappresentazione è ontologicamente dualistica e costitutivamente escludente. Definisce escludendo - affermano le dure accuse di violenza epistemologica e metafisica - opera tramite un giudizio, una valutazione implicita nella enunciazione descrittiva; esprime una logica di potere, una Volontà di potenza che si riverbera sul Soggetto politico che genera (cfr. Derrida 1967): definirlo formalmente libero e eguale significa escludere, spettralizzare, stigmatizzare implicitamente la moltitudine di corpi che sono immaturi, poveri, devianti, differenti, “minori”, pericolosi. Alla rappresentazione del popolo incoronato di diritti universali, fa riscontro spettrale la parte ai margini, solo nominalmente inclusa, ma di fatto da tenere sotto tutela e sotto controllo. Il dispositivo, istallandosi sulle vite, le trasforma, le formalizza producendo soggetti-individui privi di differenziazioni di vita e di status, pensati sullo standard dei cittadini che hanno condizioni di vita che permettono loro di esprimere le proprie potenzialità: maschi, dunque, bianchi, proprietari, eterosessuali... La dinamica cripto-selettiva consegna alla afasia e alla invisibilità le parti “sporche” delle vite, ma anche nasconde il privilegio e la posizione gerarchica di chi è “già” potente nell'economia e nel sociale.
Eppure, il formalismo universalistico apre la strada al progressivo premere di soggettività sempre nuove e diverse che chiedono di essere rappresentate: tutte muovono dalla soglia materiale e vitale ignorata dal costrutto giuridico liberale e dalle differenziazioni gerarchiche che, contro l'enunciato egualitario, pesano su di esse escludendone la possibilità concreta di farsi valere, di “contare”, anche quando sono tutte incluse formalmente e retoricamente. È per spostare i limiti di rappresentanza che si combattono le lotte, nel secolo XIX, della classe operaia, del proletariato. Una svolta nevralgica, per il nostro tema, è la lotta marxiana alla rappresentanza borghese, anche se i suoi effetti storici sono solo parziali: si tratta di “politica della vita”, rivendicazione della potenza e della soggettività attiva dei lavoratori, contro il governo su di esse esercitato dal biopotere capitalista (cfr. Marx 1844). Da un punto di vista logico e ontologico, è la sfida al cardine fondante di quel meccanismo: la separazione (eminentemente politica) di pubblico e privato che consegna economia, materialità, corpi, sesso, famiglia, alla sfera del privato sottraendoli alla rivedibilità politica. L'irruzione sulla scena politica dei corpi vivi dei lavoratori che vorrebbero rivoluzionarla, inceppa il meccanismo rappresentativo che, come si è detto, mira a costruire i soggetti all'interno dell'unità sovrana: le vite prepolitiche, non rappresentate, dei proletari fanno pressione per un ordine nuovo direttamente autogovernato. Ma il dualismo si ri-presenta nel progetto di uno Stato socialista e democratico: la logica rappresentativa risponde alla pressione dei corpi attraverso i partiti di massa che li riassorbono entro le forme della rappresentanza generalista, normalizzandoli, trascrivendo le loro domande nel lessico di soggettivazioni previste, codificate. Si amplia cioè lo spettro della rappresentanza: con i suoi vantaggi e con tutte le sue aporie. Non c'è cambio di piano. Anzi, il meccanismo della rappresentanza/rappresentazione, - dopo la iper-sostanzializzazione biopolitica dei totalitarismi - ritrova vigore nel proceduralismo del dopoguerra: in chiave schiettamente artificialista diventa un consapevole trascendimento verso quello che Lefort definisce il trono vuoto della democrazia, occupato in modo contingente e rivedibile, «indeterminato» dalla parte maggioritaria dei rappresentanti (Lefort 1971, pp. 7-78). Il venir meno di una stabilizzazione naturale - biopolitica oggettiva e dunque definitiva del Popolo (accusata di essere sempre totalitaria), la strutturale impossibilità di adempierla se non attraverso identificazioni contingenti, esito di lotte per il predominio, sembra essere la condizione stessa della politica, intesa come spazio ordinato che distribuisce posizioni, visibilità e dunque poteri, su una scena esplicitamente teatrale, rappresentazionale.
Vorrei ribadire il nesso dei due poli. La imperfezione della democrazia rappresentativa - la non coincidenza tra il rappresentarsi del demos nella sua totalità e le differenze forcluse - è decisiva per la dinamica politica. Quelle parti, quei corpi che la forma procedurale non riconosce nella loro singolare o gruppale differenza, rivendicano emancipazione, rivendicano di essere Popolo, il vero corpo del popolo, manifestando «lo scarto tra il popolo e se stesso» (Rancière 1995, p. 196). E questa è politica della vita, irruzione di soggettività vive, impreviste, che appaiono, si manifestano, in tensione (ma in relazione attiva) con la scena rappresentazionale. L'energia e la potenza delle quali questi corpi viventi sono portatori, interrompe l’ordine rappresentato della distribuzione dei poteri, esigendo più democrazia.
I due poli coesistono e sono in paradossale reciproca dipendenza: c'è bisogno per la politica, anche al di là delle istituzioni date, di una sfera di apparenza, di un accesso materiale alla visibilità di ciò che prima non era visibile, nascosto o forcluso nel regime di visibilità dominante. C'è bisogno di una realtà complessa: di un varco, un passaggio tra virtuale e attuale (per usare ora, una terminologia deleuziana), tra corpo sociale e corpo politico, che possa riscrivere la identificazione sociale data.


La immediatezza della politica della vita e i suoi rovesci neoliberale e populista

Perché questa tensione tra regime rappresentativo e disintermediazione della politica della vita è diventata oggi così radicale? Il dato sociologico è, nei paesi a democrazia rappresentativa e parlamentare, un clima di apatia se non di anti-patia verso la politica, cui rispondono scorciatoie di governo populiste o tecnocratiche, spesso sommando entrambe le forme. Il rito delle elezioni trascorre tra stanchezza e disaffezione, fiammate retoriche e entusiasmi effimeri per qualche rappresentanza incerta dal nome improbabile e istantaneo, elaborato da agenzie di marketing elettorale - niente a che vedere con il vecchio partito, legittimato dal suo stesso essere di parte in un progetto di conservazione, di mutamento o di emancipazione. Da una parte corruzione, scandali, infimo livello della classe politica, sfiducia nel sistema elettorale e scollamento della casta dai reali bisogni dei cittadini, dall'altro l'esautorazione che l'economia ha imposto alla politica, la quale si è volentieri adeguata, perseguendo politiche di pura garanzia della legge “naturale” della concorrenza nel mercato.
Tutto questo è vero, eppure c'è dell'altro: un nuovo livello di radicalità della crisi.
E bisogna risalire agli anni Settanta-Ottanta, al simultaneo mutamento del capitalismo (inteso qui come produttivo di forme di vita sociale) - che esce dalle fabbriche per trarre profitto dalla diffusa effervescenza produttiva del sociale stesso attraverso una liberalizzazione spinta, l'autogoverno e l'auto-responsabilizzazione degli individui, depotenziando gli assetti rappresentativi che ingabbiano la produttività sociale - e uno Zeitgeist di «proliferante criticabilità delle cose, delle istituzioni, delle pratiche, dei discorsi, una specie di friabilità generale dei suoli, anche e forse soprattutto i più familiari» (Foucault 1977, p. 165). È la pressione di una rivoluzione culturale, emergente proprio dalla cura e dal potenziamento che il biopotere socialdemocratico del Welfare ha sollecitato (cfr. Foucault 1975, p. 138): la vita è immanente a se stessa, normata e guidata dalla propria energia desiderante (cfr. Deleuze Guattari 1980). L'operaismo rivendica, nei movimenti sociali di quegli anni, la potenza attiva del lavoro vivo e del general intellect sociale come prius della produzione (cfr. Tronti 1966, Negri 1979). E vita, in coincidenza con un’accentuata centralità sociale del corpo, significa urgenza di rivendicarne la potenza produttiva insieme alla sua specificità singolare e differenziale: è una totale rotazione di prospettiva rispetto alla tradizione ugualitaria e formale moderna. Immergendosi nell'immanenza, i singoli, in quanto viventi, presumono di riappropriarsi della propria vita, rifiutando l'autorità, il sacrificio, la delega. Si moltiplicano le esperienze di democrazia diretta, assembleare, le prove di autogestione: eventi performativi piuttosto che un impossibile paradigma. Manifestano, esprimono immediatamente - dice Nancy - il loro essere plurali, piuttosto che rappresentarsi (cfr. Nancy 2008). Rifiutano il confronto argomentato, ponendosi su un piano di pura affermatività, perché dialogare, argomentare, significherebbe porsi sullo stesso terreno logocentrico della teologia politica e rappresentazionale.
Se il protagonista di questa differenziazione - contro il trascendimento del soggetto formale - è il corpo, o meglio i corpi nella loro assoluta plurale/singolare immanenza, il femminismo fa da pioniere, aprendo la strada della biopolitica attiva e diretta ai neri, agli omosessuali. La frattura con la rappresentanza è radicale.
Il problema storico è che, però, questo spostamento della politica sul sociale diffuso e sulla singolarità/pluralità dei corpi è il rovescio attivo e resistente di quell’ambivalente dispositivo governamentale messo in opera dalla svolta neoliberale del capitalismo che valorizza ex post la produzione sociale immateriale per eludere la pressione operaia in fabbrica. Dispositivo, per Foucault compiutamente biopolitico, che mentre sollecita la libertà dei corpi, ne mette a valore sul mercato la produttività. La vita intera - e il desiderio che si scopre così massimamente governabile - viene orientata verso una logica competitiva. Deregolamentare e svuotare il potere delle rappresentanze - utilizzando la pressione anti-rappresentazionale delle vite e delle soggettività emergenti - è la tecnica neoliberale dell'efficienza e competenza tecnocratica, problem solving, che gestisce direttamente, senza mediazioni universalistiche le decisioni. Il presidio dei diritti che la rappresentanza formale salvaguardava, si scontra - e cede - alle valutazioni selettive. L’immanenza a se stessi dei viventi - una volta che essi sono pensati come monadi individuali, sigillate in se stesse, autosufficienti competitive e egoiste, prive di relazione originaria con gli altri - perverte l'iniziale spinta libertaria. Anche questo immanentismo neoliberale - rovescio della spinta anti-rappresentativa libertaria - è biopolitico; ed è inseparabile dalla metafisica della presenza e del soggetto. La pratica governamentale ha infatti una logica antitetica a quella rappresentativa. Non che la democrazia rappresentativa venga meno, ma la lotta per l'egemonia viene vinta in nome di individui antistatalisti e antisociali (la società - dice Thatcher - non esiste) come soli vettori di potere e di progetti di autorealizzazione. Da un punto di vista logico, è la fine dell’alienazione sacrificale (l’orrore per il sacrificio supremo delle tasse!), la fine del trascendimento degli individui nella unità del Soggetto politico. La decisione è restituita alla “verità” degli ineguali poteri sociali, e la transazione della governance, reticolare, incerta, pragmatica - e anch'essa diseguale - prevale sulle forme legislative parlamentari.
D'altronde, se questo è il rovescio biopolitico-neoliberale del desiderio di politica della vita, c'è ambiguità e fragilità anche nelle politiche dis-intermediate: le differenze si moltiplicano, si frammentano, spesso assumono un carattere identitario- escludente. I movimenti, che si confrontano con un capitalismo travolgente e globale, sono segnati dalla mancanza di mediazione che possa assicurarne la durata: sono evenemenziali, non hanno programmi; la loro efficacia è problematica a fronte della ricomposizione del giogo governamentale. Una trappola si chiude sull'anarchia e le crisi che si susseguono la confermano, oscurando l'euforia dell'iniziale libertarismo. La rivendicazione delle vite che si esprimono “in diretta”, che si espongono e si manifestano piuttosto che argomentare, tende a rifluire verso la forma, anch'essa biopolitica, del neopopulismo.
Con essa, siamo ancora sempre entro la ontologia dell’esistente, del visibile, dei corpi: così come sono.
Il Popolo - o meglio la gente, le persone qualunque che si contrappongono rancorosamente alla casta - non è più “rappresentato”, ma “presentato” direttamente nel leader populista, che, dentro/fuori delle screditate forme rappresentative, esibisce in se stesso l’unità del molteplice. Biopolitica diretta anche qui, ma, all'opposto dell'ontologia pluralista, sotto il segno della sovrana reductio ad unum. Non l'unità incompiuta e sempre da realizzare, della rappresentanza che generava lo scarto necessario alla apparizione delle parti non visibili; è piuttosto lo squadernarsi delle vite legittimate così come sono, nelle visibili dissimmetrie di potere, nel loro attivismo privatistico e politicamente immobile. A questo servono i sondaggi e la simulazione in tempo reale delle opinioni: a dare l'impressione della politica della vita in diretta. Rispecchiano il presunto dato dell’esistente (che è poi solo quanto nell’ordine sociale ha il potere di essere visibile) così come è (cfr. Bazzicalupo 2014, pp. 25-34). Nell’iperrealismo immanentista divenuto egemonico, non c’è più da contrapporre l’apparenza alla realtà: le cose sono proprio come appaiono in superficie. Non significano e non rappresentano. Nessuna zona rimane in ombra: saldo dei conteggi statistici e fine della doppiezza rappresentativa. Il Paese viene presentato nella persona del leader populista che incarna, mostra sul proprio corpo, come vive, come se la gode o si arrabbia, come consuma e come sta bene. Niente a che vedere con i vecchi leader populisti, guide profetiche del cambiamento; non orienta, non guida, non è padre, ma mon sémblant mon frère.


Politiche della vita plurali e pratiche di istituzione dal basso: rappresentazioni?

Ma è tutto qui? Mentre gli organi rappresentativi, svuotati del loro portato universalistico-ugualitario, svolgono un ruolo di figuranti nella politica spettacolo mediatico, l’attivismo sociale, mostrando una straordinaria vitalità, sperimenta forme di partecipazione ambivalenti. Leggibili cioè tanto in chiave di biopolitica privatistica - lobbies, gruppi di advocacy, associazioni - quanto come possibili anche se problematici processi di soggettivazioni politiche nuove, che implicano una qualche forma di mediazione rappresentativa.
È difficile decidere se si tratti di agency pubblica o privatistica. Soprattutto se si tratta di contesti postcoloniali, dove le questioni in gioco sono assolutamente biopolitiche, nel senso di affrontare bisogni e sopravvivenza primaria e di farsi carico direttamente della vita: in questi casi la struttura eterogenea della governance - ibrido di tecnici, associazioni, affected, ong che si affiancano o assumono competenze dello Stato - appare subordinata alla logica pragmatica dell’efficacia. Logica diversa, come abbiamo detto, da quella della soggettivazione democratica e della rappresentanza, dove la rivendicazione del riconoscimento e della visibilità, il chi si è, vale più del cosa si fa. Nel caso della “società politica” (cfr. Chatterjee 2004) cittadinanza e governamentalità si intersecano oscillando tra principi normativi e richieste popolari: emerge così il contenuto “politico” delle lotte e delle negoziazioni che attraversano la società politica.
Anche in Occidente, d'altronde si hanno molti processi che ibridano logiche biopolitiche (subordinate a istanze settoriali e anche privatistiche) e istanze botton-up di riconoscimento orientate alla politicizzazione: la visibilità, innanzitutto, implica una qualche “salita in generalità”, per usare la efficace espressione di Boltaski (Boltanski Thevenot 1991). La capacità cioè di aprire la questione ad un interesse più ampio e generico, per esempio i beni comuni primari (acqua, terra, salute, istruzione, comunicazione), dove la affectdess (il coinvolgimento di quanti dal dispositivo governamentale sono direttamente toccati) è presumibilmente più ampia, se non universale. In questo caso alla logica governamentale si accosta una istanza pubblica e politica e la rappresentazione generalizzante rientra in gioco. Non però la moderna reductio ad unum, che cede - in queste politiche della vita - all'ontologia pluralista differenziale.
Si ripropone dunque il trascendimento sotto il segno della organizzazione se non della rappresentazione?
La democrazia anti- rappresentativa o forse post-anti-rappresentativa si ritrae dalla scena statale per concentrarsi sulla trasformazione diretta del tessuto sociale, sulle pratiche di autogoverno locali, frammentate, capaci di trasformare le soggettività, producendone la dimensione politica, pubblica.
Mi sembra allora significativo l'interesse che oggi i movimenti manifestano per le pratiche dell'istituire, del creare forma sociale al di là dell’apparire disordinante delle soggettività singole: si tratta di un formalismo e di una rappresentazione diversa, pragmatica e plastica, soprattutto organizzata sul proprio continuo rinnovarsi, in modo da non ripetere le forme sclerotiche che irrigidiscono l'istanza dalla quale emergono. È un modo di pensare le istituzioni, decisamente diverso da quello che scatenò negli anni settanta l'ondata antirappresentativa in nome di una politica della vita immediata. Facendo tesoro delle sconfitte che l'energia politica e la richiesta di partecipazione e autogoverno hanno subìto proprio perché schiacciate sulla presunta indeterminazione della vita e prendendo atto che la vita si presenta sempre in qualche modo governata e iscritta nei registri simbolici, si tratta ora di non considerare questi ultimi come saturi e fissi. Le forme strategiche possono essere non paranoiche e concluse, ma plastiche, divenienti, atte a promuovere inclusione e ri-trascrizione dello spazio politico. Istituzionali in modo non repressivo, ma pragmatico, in continuo divenire, queste forme nuove non temono di avere rapporto con la logica rappresentativa e con le sue istituzioni codificate (la governance europea per esempio, il parlamento, le garanzie costituzionali e giuridiche, l’apparato amministrativo: cfr. Esposito 2021).
Rivendicano con forza, però, contro il monismo della rappresentazione tradizionale moderna, un’ontologia pluralistica, non riducibile all'uno, adattabile al movimento stesso del vivente e alla sua autonormazione incessante, entro contesti che i viventi ereditano e nei quali si formano ma che possono modificare; delineano pragmaticamente un campo in senso lato politico, che condiziona la possibilità dell’agire, campo che sono pronte a modificare dis-identificandosi dalle posizioni date. Una attività tipicamente vitale di morfogenesi contingenti, sempre rivedibili.


Bibliografia

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