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Peccato e coscienza morale

MASSIMO REICHLIN
Articolo pubblicato nella sezione "Chi è senza peccato..."

1. Peccato e coscienza morale nella concezione tradizionale

La nozione di peccato presenta un’indubbia qualità teologica; come scrive Paul Ricoeur, essa si riferisce alla categoria dell’essere “davanti a Dio” e, propriamente, è «una grandezza religiosa prima che etica: non è la trasgressione di una regola astratta, – di un valore – ma la rottura di un legame personale» (Ricoeur 1970, p. 301). Ciò vale senza dubbio nell’orizzonte biblico, ma nella tradizione dell’occidente cristiano questo venir meno a un Patto, questa unilaterale rottura dell’Alleanza con Dio, è stata elaborata per lo più nelle forme “moralistiche” di una violazione del Suo comandamento. Intesi come diverse forme di trasgressione della legge di Dio, i peccati e la loro complessa nomenclatura hanno assunto un ruolo centrale nella vicenda storica della teologia morale; quest’ultima ha spesso preferito mettere in guardia dai peccati attraverso la loro analitica individuazione e classificazione rispetto a raccomandare un ideale di vita buona e ha sviluppato sovente una pastorale della paura, più che della speranza (cfr. Delumeau 1987). È significativo, peraltro, come questa dimensione di violazione di un ordine morale abbia spesso finito per soverchiare l’aspetto più specificamente teologico della concezione cristiana del peccato, ossia quello per cui i singoli atti contrari alla legge di Dio si radicano in una condizione universale di peccaminosità (il peccato, al singolare), quella che si collega al mito di Genesi 3.
In realtà, queste due dimensioni del peccato nella concezione cristiana risultano spesso scarsamente articolate tra di loro nella riflessione tradizionale; tale difetto è stato addebitato alla concezione della legge cui si appoggia la nozione scolastica di peccato, una concezione segnata da un’ipoteca razionalistica e naturalistica (cfr. Angelini 1999, p. 627). La tradizione scolastica recepisce da Agostino la nozione di peccato come «un’azione, una parola o un desiderio contrario alla legge eterna» (Contra Faustum 22.27), legge che si rende conoscibile alle creature razionali attraverso la lex naturalis che ne costituisce una partecipazione; in questo modo, la conoscenza dei contenuti fondamentali della moralità non richiede alcun riferimento diretto a Dio e alla vicenda storica della Sua alleanza con l’umanità, ma può realizzarsi grazie alla capacità razionale che è naturalmente propria dell’uomo. Nella trattazione canonica fornita da Tommaso d’Aquino, i principi primi della legge naturale sono infatti appresi attraverso una sorta di intuizione intellettuale, non mediata dall’esperienza storica e dalle forme della cultura, grazie a un abito della ragione che ha il nome di synderesis. Tali principi forniscono le premesse normative universali del sillogismo pratico; uniti alle premesse descrittive particolari fornite dalla ragione, essi conducono alla conclusione, ossia al giudizio ultimo pratico sulla qualità morale dell’atto. Quest’ultimo è ciò in cui propriamente consiste la conscientia che perciò non è una facoltà né un abito, ma un atto.
In questo quadro, il peccato consiste nel compimento di un atto che si discosta dalla regola prossima delle azioni volontarie, ossia dalla ragione; ciò che dà all’uomo la sua specie e costituisce la sua natura è infatti l’anima razionale, sicché quel che è contrario all’ordine della ragione è contrario alla natura dell’uomo (cfr. ST I-II.71.2). È pertanto il riferimento all’ordine naturale della ragione a costituire la distinzione tra la rettitudine e il peccato: «Perciò, quando l’atto umano tende verso il fine secondo l’ordine della ragione e della legge eterna, allora l’azione è retta: quando invece si scosta da questa rettitudine, o direzione, allora si ha il peccato» (ivi, I-II.21.1). E l’errore in cui consiste la scelta che si discosta da questa rettitudine non può derivare dalla synderesis che è un abito impeccabile e inestinguibile, ma da qualche erronea premessa particolare suggerita dalla ragione che determina una conclusione fallace, indirizzando all’azione cattiva.
Come si vede, per un verso questa concezione tradizionale sembra mettere in secondo piano il profilo propriamente teologico del peccato, per altro verso s’inscrive in un orizzonte teorico decisamente improntato al razionalismo e al naturalismo. Il peccato – in particolare quello “mortale” che costituisce il peccato par excellence – consiste bensì nella aversio a Deo (cfr. ivi, I-II.77.8), ma quest’ultima si risolve essenzialmente nel giudizio erroneo della ragione che pospone il fine ultimo a qualche altro fine. In questo modo, il peccato finisce per assumere la forma tutta “oggettiva” della deviazione da un ordine razionale che si presume univocamente determinato da una supposta natura umana e dalle sue inclinazioni fondamentali (ivi, I-II.94.2); è l’oggetto, o la materia, considerata in rapporto a quanto stabilito dalla legge, a definire la sostanza del peccato e la sua gravità, mentre i requisiti soggettivi della consapevolezza e della libertà svolgono una funzione accessoria. Si privilegia così «nell’atto la qualità materiale e non la sua relazione alla libertà costitutiva del soggetto morale»; questo primato attribuito alla materia corrisponde peraltro «ad un’idea di soggetto inteso come ‘natura’ e ridotto ‘sostanzialisticamente’ a un subjectum antecedente ai suoi atti» (Chiodi 2014, p. 474). È bensì vero, come aveva scritto Abelardo, che non vi è peccato se non si agisce contro la coscienza; e Tommaso difende senz’altro i diritti della coscienza erronea. Tuttavia, la nozione di coscienza, nella ricostruzione tomista, presenta un carattere puramente applicativo; poste le premesse, esse ricava la conclusione pratica in maniera quasi deduttiva, senza che vi sia alcuno spazio effettivo per la libera valutazione del soggetto, o per la considerazione del ruolo assunto dal singolo atto nella vicenda esistenziale complessiva di chi lo compie. La coscienza si colloca cioè in una prospettiva essenzialmente cognitiva, finendo in sostanza per identificarsi con la ragione nella sua dimensione più immediatamente pratica.
La plausibilità di questa ricostruzione tradizionale della coscienza è stata largamente messa in dubbio dalla filosofia moderna e, più recentemente, dalla riflessione teologica che ne ha subito l’influenza. In particolare, l’ipotesi di una conoscenza intellettuale, infallibile e inestinguibile, dei primi principi morali è stata radicalmente sconfessata dalla successiva indagine filosofica. Da un lato, numerosi autori hanno posto l’accento sul carattere affettivo, sentimentale che caratterizza la “voce” della coscienza in maniera differenziale rispetto alla figura della ragion pratica; dall’altro, si è ripetutamente osservato come il debito che i nostri principi “razionali” intrattengono nei confronti delle condizioni storiche e sociali del vivere, delle immagini del bene e della vita buona suggerite dall’ethos, sia così profondo che le pretese di valore assoluto avanzate dalla nozione tradizionale di synderesis non sembrano essere seriamente difendibili. Al termine di questa linea di riflessione critica sta l’interpretazione filosofica – e successivamente psicoanalitica – che, lungi dal vedere nella coscienza la voce di Dio, della ragione o della natura, ne fa essenzialmente la portavoce dell’ideologia dominante, o delle immagini particolari della vita buona che ciascuna società elabora e tenta di inculcare nei propri membri (cfr. Reichlin 2019, pp. 121-142).
Alla luce di questa radicale critica filosofica, ci si può chiedere se la nozione di coscienza abbia ancora un qualche ruolo positivo da svolgere o se non si debba ritenere che la riflessione morale possa senz’altro farne a meno. Di fatto, molta parte dell’etica filosofica novecentesca ha decisamente trascurato la nozione di coscienza, vuoi perché inesorabilmente segnata da una radice religiosa e teologica, vuoi per via del carattere soggettivo e imponderabile dei suoi giudizi. Dal punto di vista teologico, invece, ci si deve chiedere se sia possibile ripensare la nozione di peccato al di fuori dello schema razionalistico e naturalistico proprio della tradizione scolastica e se una rinnovata nozione di coscienza possa essere utile a questo scopo.


2. Coscienza, integrità, senso di colpa

Al di là della critica radicale operata, tra il secolo XIX e la prima metà del XX, dai cosiddetti “maestri del sospetto” (cfr. Ricoeur 2002, pp. 46-60), un consistente insieme di studi filosofici e, in parte, anche scientifici, in anni recenti ha ripreso a sviluppare un discorso in positivo sulla nozione di coscienza, contestandone la riduzione a pura eco della società e dell’educazione (cfr. Langston 2001; Strohm 2011; Haidt 2013; Ojakangas 2013; Sorabji 2014; Churchland 2019; Samek Lodovici 2020). È vero, per un verso, che la nostra capacità di giudizio morale trova alimento originario nell’esperienza delle attese che altri elevano nei nostri confronti e dei giudizi suscitati dai nostri comportamenti; per questo profilo la coscienza ha un’indubbia ontogenesi di tipo sociale, si lega a emozioni e sentimenti spesso di carattere automatico e indeliberato e reca inevitabilmente con sé il marchio di uno specifico ethos sociale. Per altro verso, però, non sembra corretto concludere che questa sia la sola voce e il solo linguaggio in cui parla la coscienza; all’originaria qualità affettiva e sentimentale dei nostri apprezzamenti morali spontanei e indotti dall’educazione si associa infatti una dimensione più riflessiva e cognitiva, quella dimensione che è stata quasi univocamente sottolineata dalle teorie filosofiche della morale nel corso dei secoli. Anche questa dimensione più cognitiva, peraltro, non può certamente vantare quell’universalità e quell’assolutezza cui pretendevano le teorie morali tradizionali; la nostra stessa capacità razionale e riflessiva, infatti, è indubbiamente segnata da elementi di parzialità e reca in sé l’impronta di una specifica cultura e di una particolare declinazione di valori e principi morali. Tuttavia, non si può negare che, in questo processo di riflessione più consapevole sui giudizi morali ricevuti attraverso l’educazione e sugli schemi teorici appresi nel corso dell’educazione, si dia anche la possibilità di acquisire un’autentica capacità critica rispetto alla morale ricevuta e di estrarre dal corpus dei giudizi morali ordinari un ideale di condotta parzialmente indipendente da interessi e bisogni circostanziali. Nozioni come quelle di imparzialità e di universalizzazione, regole come quella aurea e quella dell’equità distributiva, forniscono strumenti che consentono di operare una valutazione critica della morale interiorizzata nell’infanzia, superandone almeno in parte le inevitabili limitazioni e costruendo progressivamente un modello di vita morale non puramente conformistico.
Tutto ciò fornisce un’immagine della capacità morale che si articola almeno in due aspetti: da un lato, il versante più originario e più profondamente radicato delle emozioni e dei sentimenti morali, dall’altro quello successivo e più riflessivo dell’elaborazione razionale di principi e giudizi. In questo quadro, la coscienza può essere compresa come la figura sintetica che declina questi elementi sentimentali e razionali all’interno di una prospettiva unitaria; come l’atteggiamento fondamentale, cioè, mediante il quale la personalità morale individuale attesta se stessa, il proprio punto di vista in prima persona e la propria concezione della vita buona (cfr. Ricoeur 1993). In altri termini, la coscienza non è una capacità di cui si disponga originariamente, consustanziale alla natura umana e dotata di un sapere definito e universale (come era la synderesis scolastica); è, viceversa, il punto di arrivo della costruzione di una personalità matura, l’unificazione dei diversi vettori normativi di cui si compone il processo di socializzazione umana all’interno di un quadro unitario, dotato di un’impronta personale. Possiede autenticamente una coscienza, in senso morale, solo chi è in grado di adottare e testimoniare nel tempo disteso della propria esistenza un punto di vista personale, una prospettiva relativamente unitaria (benché fallibile e sempre rivedibile) sulla propria vita e sulle proprie relazioni con gli altri. È in riferimento a questo punto di vista personale, all’affermazione del sé come definito da un certo atteggiamento morale, che si può parlare di coscienza; qualcosa che pertanto si collega in maniera diretta con la nozione di integrità morale, ossia con la formulazione e la difesa di un’immagine unitaria di sé e della propria vita.
In questo quadro, il riferimento al sentimento della colpa assume un rilievo primario. La coscienza non è tale se non realizza una non coincidenza di sé con sé sufficiente a generare la consapevolezza del proprio limite, della mancata corrispondenza del proprio sentire e del proprio agire con quell’immagine ideale di sé e della vita buona cui pure si richiama. Il sentimento della colpa, in questo quadro, non è soltanto, o non è affatto, consapevolezza della trasgressione di una regola sociale, o del rimprovero ricevuto da altri a questo riguardo, ma soprattutto consapevolezza in prima persona del proprio deficit rispetto a quell’ideale. Tale sentimento non svolge pertanto la funzione repressiva di disciplinare socialmente i comportamenti individuali, rendendo mansueto l’animale umano (secondo quanto riteneva Nietzsche), ma quella positiva di orientare verso un’immagine di vita piena, di umanità autentica perché strutturata armonicamente attorno a un’affermazione fondamentale di sé. Certo, nella misura in cui la figura concreta della coscienza morale è pur sempre debitrice dei processi di socializzazione e quindi dell’inserimento dell’individuo all’interno di una specifica cultura e dei suoi valori, è solo nel rapporto sociale, ossia nell’agire con gli altri e per gli altri, che da un lato si può accedere alla coscienza di sé, dall’altro ci si può anche mettere al riparo, almeno entro certi limiti, dal rischio dell’autoinganno; l’attestazione di sé passa inevitabilmente attraverso il rapporto con l’altro e la preservazione dell’integrità individuale richiede la costante verifica delle proprie disposizioni nelle forme della relazione sociale. Pertanto, la coscienza non può in alcun modo essere intesa come l’affermazione di un punto di vista puramente soggettivo e autoreferenziale; essa emerge originariamente da un processo di socializzazione e vive e si sviluppa solo all’interno di dinamiche relazionali e di attivo riconoscimento reciproco, le quali definiscono volta per volta i contenuti più specifici del debito vicendevole dei comportamenti umani. Il sentimento della colpa, che riaccende anche affettivamente la consapevolezza delle attese altrui nei nostri confronti, è perciò essenziale perché si preservi la qualità dinamica della coscienza, perché essa eviti di rinchiudersi in se stessa, in una certezza di sé facilmente esposta alla delusione e all’autoinganno. Il sentimento della colpa, quale si accende già solo a partire da desideri cattivi che non si traducono in azioni, apre infatti alla confessione e alla possibilità del perdono, fenomeni attraverso i quali, come suggeriva Hannah Arendt, è possibile non rimanere perennemente invischiati nel passato delle nostre azioni ma aprirci nuovamente al rapporto con gli altri nell’orizzonte del futuro (cfr. Arendt 2009, pp. 175-181).
Ora, questa centralità del senso di colpa nell’esperienza morale ci riporta a quell’altro elemento della riflessione cristiana tradizionale, cui si è sopra soltanto accennato; l’idea di una condizione originaria di peccaminosità, del peccato al singolare che caratterizzerebbe la natura umana in quanto tale. A una tale caratteristica “passiva” da cui è intrinsecamente affetta la natura umana ha dovuto far riferimento anche il più razionalista dei filosofi moderni, ossia Kant, che ha parlato appunto di un “male radicale”, per indicare la fragilità umana che rende debole la volontà nel mettere in pratica le massime buone, la sua impurità, consistente nel mescolare il movente morale con altri moventi che determinano l’arbitrio, e la sua malvagità, consistente nella tendenza ad adottare massime cattive (cfr. Kant 1995, pp. 28-46). Kant riteneva che l’origine di questa tendenza naturale non fosse razionalmente comprensibile e dovesse rimanere per noi impenetrabile; riconosceva però come un fatto constatabile l’esistenza nell’uomo di una radicale peccaminosità che si manifesta nella sua tendenza a subordinare il movente morale ad altri moventi e anche nel modo in cui facilmente inganna se stesso riguardo alle proprie intenzioni, soprattutto quando le azioni hanno la fortuna di non produrre cattive conseguenze. A tale difetto, secondo Kant, si può porre rimedio solo attraverso una rivoluzione profonda dell’intenzione, ossia mediante quella disposizione radicale di sé che la scrittura chiama metànoia, o cambiamento di cuore. Questa figura ci riconduce alla riflessione teologica.


3. Coscienza morale e peccato

La riflessione teologica novecentesca più avvertita, a partire dalla seconda metà del Novecento, ha recepito almeno in parte le sollecitazioni critiche provenienti dalla riflessione filosofica, intraprendendo una profonda revisione della concezione tradizionale della coscienza morale. Da un lato, essa ha insistito sulle dimensioni psicologiche della coscienza, e dunque sui sentimenti di pudore, vergogna e colpa che concorrono alla formazione della coscienza nella sua accezione propriamente morale, dall’altro ha posto l’accento sull’impossibilità di valutare oggettivamente l’atto umano prescindendo dall’intenzione di chi lo compie. Perciò ha insistito sulla dimensione soggettiva della coscienza, intesa non più come capacità di conoscere e applicare principi razionali di valore universale, ma come atteggiamento o disposizione sintetica complessiva del soggetto morale, che si dispiega storicamente attraverso la sua esistenza, nella inevitabile parzialità di un punto di vista soggettivo e limitato (cfr. Demmer 1989, pp. 35-73; Angelini 1999, pp. 611-657; Fumagalli 2012; Chiodi 2014, pp. 437-464).
Questa rivisitazione dell’impianto tradizionale, razionalistico e naturalistico, comporta anche una modifica della comprensione tradizionale del peccato. A questo riguardo, la teologia morale contemporanea ha insistito nell’osservare come la realtà del peccato non si possa in alcun modo esaurire negli atti cattivi che si compiono, né, d’altro canto, si identifichi univocamente con quella sorta di destino ontologico segnato una volta per tutte, in maniera indipendente dalla decisione libera del singolo, dal peccato del primo uomo. Accanto a questi elementi, la teologia post-conciliare, sulla scia della svolta antropologica di Karl Rahner, ha introdotto la nozione di opzione fondamentale, come espressione sintetica dell’atteggiamento complessivo dell’uomo nei confronti di se stesso e di Dio. Al fine di superare una morale degli atti, univocamente dedita a definire prescrizioni materiali che delimitino il lecito dall’illecito, si è affermata la priorità del «situarsi esistenziale del soggetto», ossia dei suoi atteggiamenti fondamentali, rispetto ai quali «le azioni non sono nient’altro che la loro convalida interpretativa» (Demmer 1989, p. 218). L’idea centrale è che la valutazione morale dell’uomo non possa dipendere dalla considerazione puntuale dei singoli atti che egli compie, e della loro oggettiva conformità o difformità rispetto alla norma, ma dipenda in maniera più ampia da una scelta di carattere trascendentale che si realizza progressivamente nel tempo della vita individuale attraverso il compimento di atti categoriali. Questa opzione fondamentale esprime l’autocomprensione dell’uomo che si riconosce come creatura libera di fronte a Dio e decide di orientarsi al bene. Tale decisione non è empiricamente accessibile, ma si manifesta alla riflessione trascendentale come condizione di possibilità della tendenza al bene assoluto; l’opzione fondamentale non è perciò «un atto pienamente conscio e ben definito accanto ad altri atti singoli della nostra vita. Essa è invece un orientamento dinamico radicale della nostra vita, che si afferma liberamente attraverso gli atti e negli atti singoli in cui si realizza. Non è quindi accanto agli altri atti o parallelo ad essi, ma li anima da dentro» (Fransen 1975, p. 453). In questo senso, la categoria teologica dell’opzione fondamentale viene ad essere sostanzialmente assimilata a quella di coscienza morale, nella misura in cui quest’ultima non è più intesa come atto che conclude il sillogismo pratico, ma come espressione sintetica dell’identità morale del credente in riferimento a Dio. In tale espressione sintetica, ossia nella piena disposizione di sé in vista in un bene che promette di dare senso alla propria vita, si realizza effettivamente la libertà umana, è cioè possibile all’essere umano trovare un’immagine compiuta di sé.
In questa linea, anziché come esito di un errore della coscienza, ovvero come atto che nasce da una convinzione morale sbagliata, il peccato può essere inteso come il venir meno della coscienza stessa, o della capacità di determinare se stessi ad agire per il bene che si è scelto, anche a fronte della prova e della tentazione. Nella misura in cui la coscienza è attestazione dell’integrità morale del sé, decisione fondamentale per il bene assunta davanti a Dio, il peccato è il processo mediante il quale tale integrità viene progressivamente a dissolversi. Si tratta di un processo, perché il carattere di distensione temporale dell’esperienza morale vieta che si possa concentrare il significato positivo o negativo di un’esistenza in un singolo atto: «Il peccato è originariamente un processo prima di mostrarsi come atto. Assume la […] forma della caduta, dello strisciante scalzare gli atteggiamenti fondamentali. Per usare un’immagine: è paragonabile ad un processo di deperimento, di decadimento interno, poiché non sono più fornite nuove forze alla dinamica interna della vocazione ricevuta. Si resta così indietro, passo dopo passo, per così dire impercettibilmente, rispetto all’intensità del proprio impegno» (Demmer 1989, pp. 218-219). Il singolo atto è così segno di una realtà più profonda sottostante; è indice della disgregazione in atto di quell’autocomprensione fondamentale del credente in cui consiste l’opzione fondamentale. Come scrive espressamente Franz Böckle, il peccato è «la corruzione dell’opzione fondamentale; ma […] sarebbe errato identificare semplicemente l’opzione fondamentale corrotta con le singole azioni, quindi con i ‘peccati’. Essa è piuttosto una conseguenza dei peccati singoli e a sua volta li genera. Le singole azioni devono quindi essere considerate come ‘segni costitutivi’ dell’opzione fondamentale, sia in senso positivo che negativo: sono segni, cioè espressione di un atteggiamento in profondità; e sono costitutivi, cioè determinano e influenzano l’atteggiamento in direzione della sua conferma o del suo rinnegamento» (Böckle 1985, p. 122).
Questo ripensamento della nozione di peccato in riferimento all’opzione fondamentale ha indubbiamente buone ragioni per proporsi; esso supera la prospettiva limitata della manualistica tradizionale e inscrive opportunamente i singoli atti all’interno della dimensione processuale e storica dell’esistenza individuale, da cui traggono il loro senso compiuto. In altri termini, questa nuova concezione sottolinea in misura molto maggiore la dimensione teologica del peccato, intendendolo come «la lesione, attraverso la trasgressione, di una relazione dialogale con Dio: è un gesto della libertà umana, con cui l’uomo vuole realizzarsi indipendentemente da Lui, andando quindi oggettivamente contro Dio» (Chiodi 1994, p. 133). Ciò che si può obiettare a questa ricostruzione è il fatto che, almeno in alcune sue versioni, il discorso tenda a concepire in maniera eccessivamente separata la decisione libera di carattere trascendentale e le singole azioni come momenti categoriali. In realtà, questa distinzione di carattere analitico e teorico non deve far dimenticare che è soltanto nel campo concreto dell’agire storico che l’opzione fondamentale può effettivamente realizzarsi. Va cioè evitato il rischio di pensare che l’opzione fondamentale appartenga a un ambito puramente trascendentale, sottratto a ogni dimensione empirica; la si deve intendere, invece, come intrinsecamente legata alle singole scelte categoriali e non concepibile indipendentemente da esse. Ogni atto libero è un’espressione dell’atteggiamento sintetico dell’uomo verso la vita e verso gli altri, e perciò in maniera più o meno esplicita anche verso Dio; in tal senso, contribuisce a istituire e rafforzare tale disposizione complessiva, così come può contribuire a corromperla e dissolverla. Come nota opportunamente Giuseppe Angelini, «Ogni atto libero per sua natura fa riferimento all’opzione fondamentale, mediante la quale soltanto il soggetto realizza la sua libertà, la disposizione pratica di sé; questo non significa certo che ogni atto libero realizzi per se stesso tale opzione fondamentale; esso tuttavia non può essere qualificato come libero, e dunque come davvero proprio del soggetto, se non appunto per riferimento a quell’opzione fondamentale, della quale costituisce un momento» (Angelini 1999, p. 626).


4. Conclusioni

La riflessione teologica contemporanea tende a collegare strettamente, se non a identificare formalmente, la coscienza morale con la fede, intesa come opzione fondamentale del soggetto in favore del bene e di Dio. In questo quadro, si dà una relazione molto stretta e molto precisa tra coscienza morale e peccato; la coscienza morale, in quanto tende a identificarsi con la fede, rappresenta il contrario del peccato che consiste essenzialmente nella mancanza di fede. Questo discorso recupera il carattere intrinsecamente teologico del discorso sul peccato, un discorso, come detto, necessariamente legato alla categoria del “davanti a Dio”. Per quanto riguarda la riflessione filosofica, invece, resta centrale la connessione tra coscienza morale e sentimento della colpa; quest’ultima, come notava ancora Ricoeur, è il momento soggettivo del peccato, inteso come condizione ontologica: «è la presa di coscienza di questa situazione reale; se così si può dire, è il “per sé” di questa specie di “in sé”» (Ricoeur 1970, p. 354). Il peccato, di per sé, non inerisce a una riflessione puramente filosofica, se non nella misura in cui si accetti che, nell’attestazione di sé come soggetto caratterizzato da un profilo originariamente morale e da una decisione in favore del bene, l’essere umano assume, almeno implicitamente, una responsabilità di fronte a Dio. In altri termini, se si ammette, con Kant, che «La morale conduce necessariamente alla religione» (Kant 1995, p. 6), allora quella di peccato diventa una categoria che è lecito utilizzare anche in una prospettiva puramente filosofica. In questo caso, l’essere senza coscienza, ossia l’autocontraddizione di una libertà umana che nega la propria identità originariamente morale, può essere definita il peccato filosofico per eccellenza.


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