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Corpo, diritti riproduttivi e rapporti di genere nelle distopie delle donne del terzo millennio

RAFFAELLA BACCOLINI
Articolo pubblicato nella sezione La distopia nel Terzo millennio

La fantascienza utopica e distopica scritta dalle donne costituisce «una tradizione letteraria continua in Occidente dal diciassettesimo secolo fino ai giorni nostri» (Donawerth e Kolmerten 1994, p. 1, mia traduzione). Nonostante ciò, utopie e distopie sono state per lungo tempo appannaggio di scrittori maschili, tanto che, nel 1979, Elaine Hoffman Baruch affermava, con un certo sconcerto, che le proiezioni immaginarie di mondi migliori non contemplavano condizioni sostanzialmente migliorative per quel che concerneva il ruolo delle donne. Mentre nei campi della politica, dell’economia e della religione gli scrittori presentavano proposte innovative, la condizione femminile rimaneva, a parte per poche eccezioni, tristemente la stessa. Il genere utopico e la fantascienza in particolare sono stati quindi a lungo concepiti come territori maschili. Ad esempio, tra il 1953 (anno della nascita degli Hugo Awards) e il 1967 a nessuna autrice è stato conferito il prestigioso premio Hugo (Lefanu 1988, p. 7). Gli anni settanta, tuttavia, hanno segnato l’inizio di un singolare rapporto tra femminismo e fantascienza utopica e distopica, rapporto che continua ancora oggi (molti studi sono stati dedicati alla fantascienza delle donne dopo gli anni settanta, come ad esempio, Barr 1981 e 2000; Lefanu 1988; Moylan 2014; sulla produzione femminile degli anni precedenti si veda invece, per es., Larbalestier 2002). A riprova di questo felice legame, dal 1968 si contano almeno 60 vincitrici nelle quattro categorie principali del premio Hugo (romanzo, romanzo breve, racconto lungo e racconto). Infatti, il genere utopico e la fantascienza, uniti ad una visione femminista e radicale, hanno fornito alle scrittrici il luogo ideale per esplorare la costruzione dei ruoli e la soggettività di genere - una libertà che i vincoli del realismo non sempre hanno loro permesso: «La letteratura che parte dalla domanda ‘cosa accadrebbe se’ [è] il modo letterario perfetto per esplorare (e far esplodere) le nostre ipotesi sui valori ‘innati’ e sugli assetti sociali ‘naturali’, in breve le nostre idee sulla natura umana, che non cambia mai» (Russ 1972, p. 80, trad. mia). Se l’ottimismo radicale degli anni sessanta e settanta ha visto il fiorire delle nuove utopie critiche femministe (cfr. Moylan 2014), il ritorno al conservatorismo degli ultimi trent’anni ha visto la pubblicazione di un vasto numero di narrative distopiche e, più recentemente, post-apocalittiche da parte di molte autrici (cfr. Baccolini & Moylan 2003). La distopia sembra essere oggi il genere preferito per dare voce a una critica della società attuale e dei suoi ruoli di genere. L’enorme popolarità della trilogia degli Hunger Games di Suzanne Collins e la riscoperta di The Handmaid’s Tale di Margaret Atwood, grazie anche all’adattamento televisivo del 2017, sono due dei principali fattori che hanno contribuito all’affermazione dei romanzi distopici degli ultimi anni. Tra questi, alcuni dei più interessanti sono The Power di Naomi Alderman (2016), Vox di Christina Dalcher (2018) e Red Clocks di Leni Zumas (2018). In tutti questi testi, il corpo della donna, la sua autodeterminazione e il rapporto tra i generi rappresentano ancora oggi temi centrali.
Femminismo e utopia/distopia sono “intimamente connessi” da molto tempo, e Jane Donawerth ne ha tracciato l’interconnessione identificando alcuni temi ricorrenti: i diritti delle donne all’istruzione, alla proprietà, al voto, alla sessualità e all’espressione di sé (Donawerth 2009, p. 214). L’utopia femminista ha permesso alle scrittrici di usare la presentazione di una società immaginaria per affermare che «le donne, private dei diritti civili nel mondo reale, sono pienamente in grado di governare e di dimostrare, con arguzia e ingegno, che un mondo governato da donne sarebbe un luogo molto più piacevole, pacifico ed etico» (Jones 2009, p. 484, trad. mia). La distopia femminista, invece, si è concentrata sull’attacco alla libertà individuale mettendo in primo piano, in particolare, la questione della violazione dei diritti riproduttivi delle donne e del controllo del loro corpo. Se le utopie di moltissime scrittrici, ad esempio, sottolineano «la natura essenzialmente diversa delle donne» e rappresentano «modelli di una società migliore», le utopie femministe diventano allora «un modo di elaborare in forma narrativa i temi centrali del femminismo degli anni settanta e ottanta» (Donawerth 2009, pp. 216-218). The Female Man di Joanna Russ (1975), Woman on the Edge of Time di Marge Piercy (1976), Dreamsnake di Vonda McIntyre (1978), The Wanderground di Sally Miller Gearhart (1979), Always Coming Home di Ursula K. Le Guin (1985), A Door into Ocean di Joan Slonczewski (1986), The Shore of Women di Pamela Sargent (1986) e The Gate to Women’s Country di Sherri Tepper (1988) rappresentano alcune delle narrazioni più influenti di quegli anni. Questi romanzi utopici femministi degli anni settanta e ottanta mettono al centro delle loro storie la creazione di comunità femminili che sostengono l’agency femminile - la capacità cioè di agire in modo libero e autonomo. Alcuni dei mondi raffigurati sono luoghi dove le donne vivono in armonia con l’ambiente e dove l’integrità della natura diventa espressione dello sviluppo naturale e morale delle donne. La tecnologia non è rifiutata, ma è al servizio delle priorità sociali; pertanto, essa non viene utilizzata per dominare la natura, ma per migliorare la vita umana. La tecnologia può quindi essere recuperata nell’utopia femminile, e diventare così un mezzo per liberare le donne dalle costrizioni patriarcali.
Il corpo e la sessualità delle donne sono invece sempre stati al centro delle narrazioni distopiche. Nelle distopie classiche, ad esempio, i corpi di alcuni personaggi femminili diventano elementi di disturbo per i protagonisti maschili e, di conseguenza, per i regimi totalitari in cui questi vivono. All’interno delle società totalitarie concepite da Aldous Huxley o da George Orwell, ad esempio, sia che la sessualità sia libera (come in Huxley) o controllata (come in Orwell), il corpo delle donne rappresenta un potente elemento sovversivo per il protagonista maschile che, stimolato dalla sessualità femminile, è portato a sfidare l’ideologia del sistema egemonico. Tuttavia, mentre questi personaggi femminili servono alla ribellione del protagonista maschile, rimangono essi stessi strumenti passivi, incapaci di autocoscienza e di sovvertire attivamente la società. Allo stesso modo, anche nelle società future descritte in distopie più recenti come quelle cyberpunk degli anni ottanta, il corpo e la sessualità delle giovani donne agiscono spesso come pericolosi stimoli per i protagonisti maschili. La critica delle società (patriarcali e totalitarie) di questi testi distopici spesso non affronta il rapporto tra genere e potere - tema presente, invece, in molti romanzi distopici delle donne.
Ambientando le loro narrazioni in un futuro totalitario, in società passate o in mondi ipertecnologici, le distopie delle donne identificano, nella critica e nella riappropriazione della sessualità e dei corpi femminili, un mezzo cruciale di emancipazione dal patriarcato. Tale revisione è necessaria per una critica delle radici patriarcali del totalitarismo e dell’abuso di tecnologia, ma anche per la ridefinizione dell’agency e della soggettività femminile. In romanzi distopici quali Swastika Night di Katharine Burdekin (1937), Walk to the End of the World di Suzy McKee Charnas (1974), Benefits di Zoe Fairbairns (1979), Kindred di Octavia E. Butler (1979), Native Tongue di Suzette Haden Elgin (1984), e The Handmaid’s Tale di Margaret Atwood (1985), le autrici descrivono società oppressive in cui la riproduzione è controllata o obbligata, mostrando così come le identità di genere siano il prodotto di un discorso androcentrico e totalitario. La riduzione delle donne alla loro funzione biologica, anche quando viene eseguita in silenzio e passività, non è mai una qualità innata ed essenziale, ma viene loro imposta attraverso l’uso dello stupro e della violenza istituzionalizzati, ed è costruita dal discorso totalitario della supremazia maschile.
Al centro delle distopie delle donne - siano esse scritte negli anni trenta e quaranta o in anni più recenti - vi sono proprio le questioni di genere, come la violenza contro le donne e la funzione esclusivamente riproduttiva delle stesse. Tali questioni sono viste come indissolubilmente legate al culto della virilità e all’idea di mascolinità che si trovano alla base dei regimi totalitari. Queste distopie rivelano infatti il rapporto tra totalitarismo, violenza e discriminazione di genere. In questo modo, esse identificano nel clima, nei rituali e nella mentalità sia dell’estrema destra europea degli anni trenta e quaranta, sia delle forze fondamentaliste, sovraniste e populiste di oggi, alcune delle principali minacce alla libertà e all’autonomia delle donne. Non è dunque un caso che il racconto distopico sia tornato ad essere così popolare oggi. A fronte di eventi politici quali la violazione dei diritti riproduttivi e delle scelte delle donne, la distopia riemerge come critica del presente.
Non sorprende quindi che il romanzo di Margaret Atwood del 1985, The Handmaid’s Tale, abbia goduto di una riscoperta negli ultimi due anni, anni caratterizzati da una serie di crisi - la Brexit, l’elezione di Trump, l’aumento del populismo, i femminicidi sempre più frequenti, la crisi dei migranti, i conflitti e le guerre in corso, l’odio etnico e razziale - che hanno reso la futura società di Atwood estremamente attuale [si veda il commento della stessa Atwood (2017) sulla rilettura del suo romanzo nell’era di Trump]. Ambientato in un futuro non così lontano, in quelli che un tempo erano gli Stati Uniti e che sono diventati una teocrazia repressiva dove la riproduzione è obbligatoria, il romanzo descrive dalla prospettiva di una delle sfortunate ancelle, Offred, una società tragica e grottesca che prende il Libro della Genesi alla lettera. Sotto il nuovo regime le ancelle vengono sfruttate come madri surrogate e lo stupro viene istituzionalizzato. Nella nuova Repubblica di Gilead, una Ancella viene assegnata ad ogni famiglia, composta da una Moglie ufficialmente sterile e da un Comandante, che potrebbe anche essere sterile (ma naturalmente, nella nuova società, solo le donne sono responsabili della sterilità in una coppia). Una volta al mese, in presenza della moglie, il Comandante ha un rapporto sessuale con l’Ancella, al solo scopo di procreare.
The Handmaid’s Tale è dunque una potente critica femminista delle definizioni patriarcali di femminilità. Nel romanzo, le donne sono considerate di proprietà dello Stato: non possono lavorare né avere proprietà, la riproduzione è obbligatoria, e la lingua - leggere, scrivere o parlare - è proibita, fatta eccezione per frasi religiose vuote e banali. Le donne sono completamente prive di potere: sono ridotte alla loro funzione biologica, non hanno un nome proprio, non hanno lingua, libertà o identità oltre a quella definita dallo Stato. I loro nuovi nomi esemplificano la loro condizione: sono costrette ad assumere un patronimico composto dalla preposizione possessiva “of” e dai nomi dei Comandanti che le possiedono, nel caso della protagonista, Of-Fred. Passività e silenzio non sono, tuttavia, qualità innate delle donne, e come altre autrici femministe di distopie, Atwood dimostra che queste sono imposte alle donne di Gilead.
Tra le recenti distopie che sono state interpretate come eredi del testo di Atwood, Vox di Christina Dalcher e Red Clocks di Leni Zumas descrivono società che ricordano quella di Gilead. Il regime immaginato in Vox (un romanzo purtroppo discontinuo, che parte da un’ottima premessa ma si perde nella seconda parte e nello sbrigativo finale, in particolare) sembra continuare idealmente quello di Atwood. Ambientato in un futuro molto vicino, la distopia di Dalcher immagina che il nuovo governo dei Puri - che unisce al maschilismo il fondamentalismo religioso di estrema destra - abbia imposto a tutte le donne negli Stati Uniti di indossare un braccialetto che eroga una scossa elettrica quando superano il limite di cento parole pronunciate al giorno. Penne, carta e libri sono dunque proibiti per le donne, che hanno dovuto rinunciare anche al passaporto, al conto in banca, al lavoro. L’unica lettura consentita è l’edizione «ridotta e commentata della Bibbia» per donne, caratterizzata da una copertina rosa, mentre a scuola le ragazze seguono corsi di «economia domestica, educazione fisica e [...] gestione familiare di base» (Dalcher 2018a, p. 61, p. 9). Il nuovo governo al potere ha creato un regime cupo e repressivo dove le donne sono ridotte a silenziose incubatrici: «Non vogliono ucciderci, per la stessa ragione per cui hanno vietato l’aborto. Siamo un male necessario, oggetti muti che servono solo a essere scopati» (Dalcher 2018a, p. 43).
Jean, la protagonista di Vox, in particolare, si rammarica di non aver compreso la portata di quello che stava per succedere e di avere sottovalutato i segnali circostanti. Il romanzo diventa allora un inno alla resistenza e all’assunzione di responsabilità:

Ho iniziato a essere responsabile [per ciò che è accaduto] due decenni fa, la prima volta che non ho votato, la milionesima volta che ho detto a Jackie che ero troppo impegnata per partecipare a una delle sue manifestazioni o per disegnare un cartellone o scrivere ai membri del Congresso. (Dalcher 2018a, p. 283).

La protagonista si ritrova quindi nella (un po’ troppo facile e conveniente) posizione di porre rimedio alla sua precedente apatia e, in collaborazione con altri dissidenti, riesce a ribellarsi e a portare a termine un piano per rovesciare il regime. Per stessa ammissione dell’autrice, Vox è quindi un «racconto di avvertimento, un campanello di allarme sulle politiche di genere, sui contraccolpi e sui cambiamenti culturali», ma anche su «quanto la nostra umanità, la personalità, sia legata alla capacità di acquisire e utilizzare il linguaggio» (Dalcher 2018b, online, trad. mia). Dalcher esprime allora il desiderio che le sue lettrici e i suoi lettori lascino il teso con due insegnamenti: la facilità con cui la società può cambiare se non prestiamo attenzione e l’importanza fondamentale del linguaggio - una dote che viene data spesso per scontata (Dalcher 2018b, online).
Se il futuro immaginato da Leni Zumas in Red Clocks non è altrettanto estremo, esso condivide tuttavia con i romanzi già citati la violazione dei diritti riproduttivi. Al centro del romanzo vi sono le storie di quattro donne, le cui vite si intrecciano nel fare i conti con un’America in cui l’aborto è proibito, la fecondazione in vitro è vietata, gli embrioni hanno pieni diritti e una legge che vieta l’adozione per le persone non coniugate sta per essere approvata. È la voce di Ro, una delle quattro donne, a spiegare la situazione:

Due anni fa il Congresso degli Stati Uniti ha ratificato l’Emendamento sullo stato della persona, che conferisce a un ovulo fecondato, sin dal momento del concepimento, il diritto costituzionale alla vita, alla libertà e alla proprietà. L’aborto adesso è illegale in tutti e cinquanta gli stati. Chi lo pratica può essere accusato di omicidio di secondo grado, chi cerca di abortire rischia l’imputazione di concorso in omicidio. Anche la fecondazione in vitro è stata bandita a livello federale, perché l’emendamento dichiara illegale il trasferimento di embrioni dal laboratorio all’utero (gli embrioni non possono dare il loro consenso a essere spostati). (Zumas 2018, p. 38)

Se questo non bastasse, un “Muro Rosa” divide la frontiera con il Canada, dove invece i diritti delle donne canadesi sono ancora garantiti, così che al confine le cittadine americane sono soggette ad ogni tipo di controllo per evitare che ricorrano all’aborto altrove. Ancora una volta la facoltà di generare nuove vite, potere unicamente femminile, è temuto e invidiato, e quindi soggetto al controllo da parte degli uomini. La critica della società attuale è confermata da un’intervista in cui Zumas afferma che tutte le restrizioni che ha immaginato sono basate su proposte reali di politici americani quali i repubblicani Mike Pence e Paul Ryan, proposte che, sotto l’amministrazione Trump-Pence, non sembrano più estremizzazioni, ma vere e proprie minacce (Sugiuchi 2018, online). E come per la protagonista di Vox, anche i personaggi di Zumas si rammaricano di non aver agito in tempo e di essere state spettatrici, quelle che «sanno ma [non alzano] un dito» (Zumas 2018, p. 316; cfr. anche p. 281, p. 297).
Oltre a quella di Ro, una insegnante di liceo alla disperata ricerca di avere un figlio da sola mentre scrive la biografia di Eivør Mínervudottír, una (fittizia) esploratrice polare del diciannovesimo secolo, le altre voci narranti sono quelle di Susan, una moglie/madre intrappolata in un matrimonio in crisi, di Mattie, una delle migliori studentesse di Ro che si scopre incinta e vuole abortire, e di Gin, erborista/guaritrice che riunisce i loro destini quando viene arrestata e processata per le sue attività. Le voci e le vite delle quattro donne si intrecciano e creano il racconto di una comunità, dove le donne che si ribellano alle imposizioni dettate dalla società si rafforzano tramite alleanze e solidarietà. Attraverso il racconto dei legami tra donne che possono essere solidali quanto competitivi, il romanzo mostra gli inconciliabili ma validi sentimenti che ogni donna che desidera o sperimenta la gravidanza e la maternità prova. In particolare, ogni donna si trova di fronte a scelte difficili e complicate, intrinsecamente legate a un'autodeterminazione che nel romanzo viene minacciata non solo dalle leggi, ma anche dai dilemmi personali e dai (pre)giudizi che le donne hanno su loro stesse e che immaginano che la comunità abbia su di loro - in breve, dalle aspettative su ciò che una donna dovrebbe essere o volere. Il romanzo riesce quindi a mantenere la complessità delle diverse posizioni dei quattro personaggi femminili, senza giudicare la scelta di portare a termine una gravidanza, abortire o adottare un bambino. Zumas non sceglie - con quella che sarebbe l’opzione dell’adozione - la via più facile e consolatoria di un aggiustamento privato tra il desiderio di maternità di Ro e quello di Mattie di non diventare madre. Permette invece a ogni suo personaggio di approfondire le contraddizioni e di desiderare «più di una cosa sola» per «vedere ciò che è. E vedere ciò che è possibile» (Zumas 2018, p. 384).
Anche la recente distopia scritta da Naomi Alderman può essere ed è stata letta in un dialogo diretto con il testo di Atwood (l’autrice stessa riconosce il ruolo di mentore di Atwood nei ringraziamenti: 2017, p. 445). Tuttavia, a differenza dei due romanzi precedenti, The Power è una distopia che appartiene al sottogenere chiamato «battaglia dei sessi», «un corpo di storie esplicitamente sulle relazioni tra uomini e donne» (Larbalestier 2002, p. 39, trad. mia), con una sconcertante inversione dei ruoli sessuali (cf. sul genere anche Russ 1980 e Patai 1982). Mentre al centro delle tradizionali battaglie dei sessi vi «è la lotta per ristabilire il dominio maschile e ‘l’ordine naturale delle cose’» (Larbalastier 2002, p. 40, trad. mia), The Power presenta una stimolante riflessione su dominazione e violenza, possibilità e cambiamento e, quindi, sui rapporti tra i generi.
Ambientato a circa 5.000 anni di distanza nel futuro, dopo un grande evento che ha preso il nome di “Cataclisma” e che ha stabilito il femminile come il sesso dominante, il romanzo viene presentato come una «specie di ibrido, [...] una sorta di rappresentazione romanzata di quella che gli archeologi ritengono la narrazione più plausibile» (Alderman 2017, p. 11). Il racconto, un manoscritto stilato da un uomo (Neil Adam Armon, un anagramma del nome della autrice) e inviato ad una collega scrittrice (Naomi), è racchiuso dalla corrispondenza tra i due. La storia ha inizio quando le ragazze, in tutto il mondo, sviluppano una «matassa», ovvero «una fascia di muscoli striati intorno alle clavicole» che conduce l’elettricità, dando loro il potere di ferire, torturare e uccidere (Alderman 2017, p. 38). Alderman immagina quindi la transizione verso un mondo alla rovescia, dove gli uomini hanno paura di camminare da soli di notte e i corpi delle donne diventano uno strumento di potere. Attraverso gli occhi di quattro personaggi diversi, la scrittrice sfida i tradizionali presupposti di genere ed esplora i modi in cui il potere influenza e cambia le relazioni a tutti i livelli. Il risultato è una inquietante e stimolante distopia: se, in un primo momento, la rivoluzione può apparire esilarante, soprattutto per le lettrici, Alderman si appresta a sfidare il nostro entusiasmo iniziale mostrando che una (vera) rivoluzione femminista non può semplicemente riprodurre, al contrario, i valori e le norme di una società androcentrica.
I vari sviluppi sociali, politici e religiosi prodotti dal semplice ribaltamento delle gerarchie e dei rapporti di genere dimostrano che la diffusione del potere femminile degenera rapidamente, passando dalla semplice punizione alla crudeltà gratuita. Le donne arrivano a distruggere, violentare, torturare e uccidere, proprio come facevano gli uomini prima di loro. Entrambe le società - il nostro presente patriarcale e il futuro distopico in cui le donne governano - si basano sulla violenza e sull’uso spietato del potere. Perché le persone, indipendentemente dal genere o dalla razza, abusano del potere? «Lo fanno perché possono farlo», è la risposta semplice ma inquietante (Alderman 2017, p. 375). Perché nelle società che prosperano sulla disuguaglianza, l’impunità diventa la norma e la responsabilità, anche quando è richiesta, può essere facilmente ignorata.
Può un universo governato solo da donne produrre una società migliore? La risposta è negativa se le dinamiche di potere e i valori alla base della nuova società rimangono gli stessi, dice Alderman. L’inversione di ruoli sessuali non descrive un mondo utopico gestito da donne che governano con giustizia. E tuttavia Alderman, mostrando solo il capovolgimento del sessismo, non chiede il ritorno ad un ordine naturale delle cose come fa il sottogenere delle battaglie dei sessi. Al contrario, ritraendo i danni inflitti alle donne che diventano vittime dello stesso sistema che stanno creando, l’autrice invita i lettori a riflettere anche sui danni che il patriarcato fa agli stessi uomini. Alderman sembra evocare, quindi, la famosa affermazione di Audre Lorde secondo cui «gli strumenti del padrone non smantelleranno mai la casa del padrone. Possono permetterci di batterlo temporaneamente al suo stesso gioco, ma non ci permetteranno mai di realizzare un vero cambiamento» (Lorde 1984, p. 112, enfasi originale, trad. mia). Il femminismo non è il semplice rovesciamento dello status quo. Allo stesso modo, il libro suggerisce che il genere non è “naturale” e ci invita ad andare oltre il binarismo tradizionale:

il mondo attuale è quello che è a causa delle strutture di potere di cui è intriso da cinquemila anni, strutture che si trascinano dai tempi più oscuri in cui la vita era molto più violenta [...] Ma oggi non dobbiamo agire così. Possiamo pensare e immaginare noi stessi in un modo diverso, dopo aver compreso su che cosa abbiamo fondato le nostre idee (Alderman 2017, p. 443).

Alcuni potrebbero pensare che queste siano ormai idee ovvie. Ma è comunque utile cercare di far riflettere su di esse. Ed è certamente utile riconoscere le somiglianze e il parallelismo con il nostro presente.
La recente pubblicazione di The Power di Naomi Alderman così come di Red Clocks di Leni Zumas e del pur imperfetto Vox di Christina Dalcher sono segni della stimolante ricchezza e varietà delle distopie femminili. Nello stesso periodo, diversi altri romanzi distopici sono stati pubblicati, a testimonianza che le distopie femminili e femministe continuano ad essere in grande espansione e, seppure non sempre tutte esteticamente all’altezza, presentano comunque scenari interessanti che offrono spazi di riflessione e di critica della società contemporanea. Tra i romanzi pubblicati tra il 2017 e il 2018 spiccano Future Home of the Living God di Louise Erdrich (una riflessione sull’autodeterminazione femminile, la biologia e i diritti naturali, 2017), The Growing Season di Helen Sedgwick (un racconto sulla famiglia, la biotecnologia e la perdita, 2017), An Excess Male di Maggie Shen King (una inquietante distopia, ambientata in una Cina futura, su politica, disuguaglianza, matrimonio, amore e ribellione, 2017), Before She Sleeps di Bina Shah (una distopia ambientata nell’Asia sud-occidentale, dove il governo usa terrore e tecnologia per controllare il popolo e le donne devono prendere più mariti per avere più figli, 2018) e The Water Cure di Sophie Mackintosh (una fantasia di vendetta femminista distopica sulla capacità di violenza e la potenza del desiderio femminile, 2018). Sono tutti romanzi che trattano dell’intersezione tra genere e stato in futuri fin troppo plausibili e riconoscibili. Nel delinearci società future in cui le donne (e/o gli uomini) sono schiavizzate e il loro corpo continua ad essere terreno di scontro, le distopie femminili e femministe rappresentano un campo ancora vitale per esplorare e mettere in discussione l’ingiustizia, la disuguaglianza e il patriarcato.



Bibliografia

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