cosmopolis rivista di filosofia e politica
Cosmopolis menu cosmopolis rivista di filosofia e teoria politica

Confini e zone di esclusione nella civiltà urbana contemporanea.
Spunti per una riflessione interdisciplinare*

ZHANNA V. NIKOLAEVA, ALBERTO PIRNI
Articolo pubblicato nella sezione Tra le righe

Dalla sua comparsa sulla Terra, l’essere umano ha sempre abitato in pur sempre problematica “simbiosi” con la natura. Tale simbiosi, come noto, fu duramente messa alla prova con la formazione di nuove modalità di sopravvivenza, ovvero con la cosiddetta “svolta urbana”, corrispondente alla nascita delle grandi civiltà antiche. Se volessimo portare la nostra attenzione all’attuale fase di urbanizzazione impetuosa, naturalmente evitando di ripercorrere una storia delle città la cui mole esorbita i confini del presente contributo, assisteremmo ad un’esperienza di duplice radicalizzazione. Si verificherebbe infatti sia l’agonia di strutture sociali non correlate con la civiltà urbana, sia la formazione di zone di alienazione (esclusione) culturale pur all’interno dei propri confini. Al centro dell’interesse e dibattito scientifico contemporaneo troviamo la problematica del “teichopolitics” (dal Greco το τείχος — la muraglia), cioè la formazione delle nuove mura sia fisiche sia mentali negli ambienti delle nostre odierne poleis.
Basti ricordare gli ambienti urbani divisi artificialmente nelle zone di influenza militare, città divise dai confini di stato, le famose città nelle città come le gated communities molto popolari negli Stati Uniti e America del Sud, in Cina ed in Russia. Nella sua più condivisa accezione, con l’espressione gated community si intende una comunità chiusa (protetta), per lo più indicante una zona residenziale che è strettamente controllata. Quindi è una zona urbana chiusa (chiamata anche cittadella chiusa o privata, quartiere chiuso o privato, paesino, colonia privata) dove il traffico è solo di auto private o comunque autorizzate, che ha anche un perimetro definito circondato da un muro o una recinzione. L’accesso nella zona avviene tramite ingressi controllati da un servizio di sicurezza, che è incaricato di controllare l'identità dei visitatori. In alcune città, tali aree esistevano da secoli.
A volte circondarsi di mura significa proteggersi, a volte significa escludere volontariamente, a volte, non da ultimo, tali esiti si realizzano per contraddizioni ideologiche, religiose, sociali ecc. Un riferimento diuturno, da questo punto di vista, va a Michel Foucault, che per primo ha studiato il fenomeno di luoghi di reclusione per le malattie mentali o contagiose come di un fenomeno che caratterizza il Moderno e l’Urbano contemporaneamente.
L’ottica metodologica che sarà qui adottata intende sottolineare il carattere spaziale di alienazione, ovvero il fatto che le “zone di esclusione”, espressione che si andrà nel seguito a meglio definire, non solo sono rappresentate da territori simbolici al di fuori dello spazio storico-culturale di una civiltà, ma sono anche corrispondenti a luoghi fisici ben determinati: discariche, rovine, fondi chiusi dei musei, parchi recintati, zone segretate dallo Stato, quartieri dedicati ad alcune categorie di visitatori o cittadini, luoghi di punizione, zone militari, favelas e altri tipi di territori marginalizzati. In una fiorente polis greca tutto ciò si sarebbe tendenzialmente trovato nello spazio della cosiddetta chora, ovvero lo spazio fisico (e insieme metafisico, riferendoci qui ai pionieristici studi di Jacques Derrida e Julia Kristeva) escluso e concluso nei barbarismi della terra “incognita” - o comunque non protetta od esplicitamente difesa - che si trova fuori dalle mura (e oltre la zona dell’accesso marittimo vero e proprio).
Ma è già possibile apprezzare un mutamento sistemico a partire dalla Roma Antica. Ad esempio, il prolungamento della Urbs Romae, in corrispondenza all’ottica dell’urbanistica romana, seguendo cioè la possibilità dell’estensione continua, non prevedeva la nascita di realtà esclusive, come luoghi di culto da proteggere: nacque così una delle più famose zone di esclusione nella civiltà urbana romana, quella circondata dalle Mura leonine.
Merita a questo proposito di essere ricordata la testimonianza di Strabone: «Riguardo a questa città , ho già detto che fu fondata lì per questioni di necessità e non di scelta; e devo aggiungere che anche quelli che successivamente inclusero certi distretti nell’insediamento non poterono da padroni scegliere il miglior perimetro (per le mura), ma come schiavi furono costretti ad adattarsi a ciò che già era stato costruito» (Strabone - Geografia V.3.7.2-9). Le mura leonine furono erette da papa Leone IV a difesa del Colle Vaticano dopo che i Saraceni, nell’846, saccheggiarono la basilica di S. Pietro. Il territorio venne chiamato la “Civitas Leonina” ed il muro, tuttavia, è un peculiare “guscio protettivo” della Roma cristiana in termini sia storici che culturali. Nel XIV secolo, con il ritorno della sede papale a Roma dopo la parentesi avignonese, i pontefici ritennero che quest’ultimo fosse meglio difeso e protetto rispetto al Laterano. Così nacque lo Stato nello Stato forse più famoso nel mondo.


***


«La Città emerge al confine, protegge i suoi confini e sempre si presenta come un confine metafisico. La città è il Cosmos contrastante al Caos, uno spazio umano, […] dimensione umana del Cosmos» (Gurin 2014). Mentre l’animale “marchia” e circoscrive il territorio di proprio interesse e più immediato riferimento in modo istintivo, l’animale razionale delinea le territorialità con la ragione pur costruendo confini non fisici ma mentali. La città è un prodotto esclusivamente umano. La città e i suoi territori di accesso limitato sono i prodotti di lunga cultura razionale dell’uomo che comprende tutta la molteplicità della vita sociale, compresa quella storica ereditata, persino scomparsa.
L’organizzazione della vita sociale nella città attuale è vista come una particolare realizzazione della iperrealtà, destinata a superare entropicamente i propri confini (resta punto di riferimento, su questo punto Baudrillard, 2000). La coscienza di e dei propri confini fisici entro un locus spaziale avviene tramite (e comunque non solo) la comprensione dell’Altro, mentre quell’altro (presente sia nel passato che nel virtuale futuro) ci appare nelle sue estensioni fisiche: nell’architettura e nello spazio urbano quest’ultimo è immaginato come il prolungamento del corpo, inteso in senso materiale.
Già Hegel, nelle opere del periodo di Yena (Sistema di moralità e Filosofia dello Spirito Jenese) delineò la celebre espressione di “lotta per il riconoscimento”, il cui punto di partenza è la tesi in base alla quale, per la costituzione dell’Io, è necessario un atteggiamento di reciproco riconoscimento tra soggetti, che conseguentemente si differenziano in base al loro grado di autonomia. I soggetti, durante la formazione della loro identità a livello dell’inclusione nella comunità, entrano necessariamente in conflitto e interpretano - non di rado subiscono - varie fasi di lotta morale. Le autonomie così risultanti, in situazioni di conflitti morali irrisolvibili e in presenza di disponibilità di uno spazio urbano, formano le zone dette “di esclusione”, che si mantengono e consolidano fino al mutare delle strutture identitarie individuali e dei correlativi rapporti di autonomia tra soggetti che andranno a costituirsi.
Quando si parla di filosofia urbana, si intende non la filosofia contemplativa del paesaggio artificiale (quello urbano), ma la filosofia della costruzione della realtà sociale in cui esso è incorporato. All’inizio del secolo scorso Pitirim Sorokin esaminava la struttura sociale nel contesto della teoria di stratificazione sociale e di mobilità sociale. Secondo Sorokin, definire la posizione di una persona o di qualsiasi altro fenomeno sociale significa definire il loro rapporto con altre persone e altri fenomeni sociali che hanno lo stesso “punto di partenza”, che si precisa anche nella determinazione fisica (cfr. Sorokin 1937-1941). Talcott Parsons introdusse i concetti di “territorialità” e di residential thinking. Pierre Bourdieu presentò la teoria dello spazio sociale descritto come un diagramma costruito razionalmente e gerarchicamente, in possesso di spazi di interazione tra il potere e le posizioni sociali dei soggetti che ultimi occupano secondo il loro status identitario (cfr. Bourdieu 2014). Il suo sistema di habitus si spiega con il termine “dispositivo”, usato anche da Michel Foucault e Giorgio Agamben. Si tratta di un meccanismo che gestisce il comportamento di un individuo, ma che è anche quello diretto a trasformare oggettivamente le pratiche quotidiane e a razionalizzare le condizioni di ambiente. Quindi nelle topografie urbane si trovano proprio le raffigurazioni di tutti i tipi di capitale economico, culturale, sociale, simbolico.
Nella filosofia di Pierre Bourdieu gli spazi riferibili a posizioni sociali storicamente costruite sono direttamente trattati e rappresentati, come ad esempio “il campo”, mentre l’habitus si riferisce ai sistemi di disposizioni incorporate dall’agente nel corso della sua traiettoria sociale. Va ricordato che Bourdieu non utilizza i concetti di soggetto e oggetto, ma introduce un nuovo termine, quello di «agente». Il concetto di spazio sociale in Bourdieu, centrale per i concetti di strutturalismo genetico, non è un concetto puramente sociologico. La “biblioteca come uno spazio sociale” o “lo spazio sociale dei gruppi etnici” sono solo le più comuni (e quindi le più formali e vuote) definizioni di uno «spazio sociale». La visualizzazione dei vari casi speciali dello spazio sociale nelle numerose opere di Bourdieu è un tentativo di formalizzare e rendere operativa la base per costruire un approccio olistico allo studio della realtà sociale. Possiamo trovare in lui un approccio per una più vaga comprensione degli elementi in base ai quali lo “spazio sociale” in senso stretto è piuttosto lontano dalla semplice riproduzione geometrica e dall’intuizione di base della filosofia sociale. La caratteristica principale delle relazioni sociali è che esse presentano una condizione necessaria per la pratica, per le idee e per le interazioni dirette da agenti individuali e collettivi. A livello fenomenico, le relazioni sociali si manifestano come una distribuzione di condizioni di azione collettiva, oppure, sotto l’aspetto di pratiche e idee, come una forza. In effetti, sono le forze e le dinamiche effettivamente in campo che stabiliscono lo spazio sociale, quindi esso non è un contenitore passivo di conoscenza sociologica, ma si sta attivamente modificando. Possiamo ottenere informazioni significative sulle modificazioni e sui mutamenti dello spazio sociale, esplorando la forma di distribuzione (sia materiale che ideale) delle premesse e delle condizioni di pratiche e idee.
A differenza dei soggetti che dipendono da determinate regole, gli agenti riproducono le strategie, cioè alcuni sistemi di prassi, che hanno un obiettivo specifico, ma non sono diretti in forma esclusiva da quello. Secondo Bourdieu, “spazio sociale” è, prima di tutto, la struttura delle posizioni sociali topograficamente contesa. Poiché la maggior parte delle organizzazioni (tra cui le aziende private, le imprese statali e le istituzioni come l’esercito, gli enti educativi e sanitari, le organizzazioni religiose) sono strutture gerarchiche e occupano aree dell’ambiente urbano di dimensioni notevoli, che sono escluse dallo spazio civile e dall’uso comune, si può parlare della c.d. dittatura (Diktat) spaziale che incide sul paesaggio urbano (merita di essere notato che le attuali ricerche sul concetto di gruppo prevedono di sviluppare anche uno specifico filone di studio che si raccoglie intorno al concetto di “gerarchia topografica”).
Per descrivere i principi dell’esistenza dei campi sociali (e dello spazio sociale nel suo complesso), Bourdieu introduce alcune regole universali. Si tratta principalmente del fatto che ogni “campo” vive di un certo grado di autonomia da altri campi, che si ottiene dalla capacità di evitare influenze esterne e mantenere le proprie regole. I “campi” sono anche caratterizzati da una lotta tra il vecchio e il nuovo, dall'accettazione da parte di tutti i partecipanti degli obiettivi del loro “campo” e del loro desiderio di sopravvivenza. Seguendo tali premesse, il funzionamento della società si rende possibile a partire e nell’intreccio di campi di ogni tipo: politici, giuridici, scientifici, economici, culturali, artistici, sportivi, religiosi e quant’altro sia possibile immaginare. Non da ultimo, essi hanno anche la capacità di essere sovrapposti, ovvero di essere comprensibili e compresi nello stesso spazio e nello stesso tempo (Pirni 2018, capp. 6. e 8.).
Accanto a questi ultimi, vi sono anche spazi che hanno la prerogativa di non essere identitari, relazionali e storici, ovvero quelle concrezioni che Marc Augé chiama “non-luoghi” (non-lieux): luoghi “anonimi”, ovvero destinati ad una breve permanenza, di passaggio, come aeroporti, metropolitane, stazioni, alberghi, supermercati (Augé 1992). Questi ultimi sono importanti per studiare alcuni fenomeni di nuovo nomadismo nella cultura contemporanea (turismo, individui di passaggio continuo come il tipo identitario, ecc.) e sono da relazionarsi con i fenomeni dell’esistenza insensata, non memorizzata, che si consegna inevitabilmente all’abbandono, in assenza, appunto, di identità, relazionalità e storicità. Nei centri urbani contemporanei i “non luoghi” occupano uno spazio notevole, creando i territori di esclusione culturale e rappresentando in sé le frontiere, talvolta inattraversabili tra gli spazi che, invece, hanno valore identitario e culturale.
Sono numerosi gli attori, che “insistono” sul medesimo ambiente urbano e che “soffrono” mentre quello stesso ambiente entra in conflitto territorialità altrui. Come è noto, anche e innanzitutto gli animali hanno e interpretano senso e concetto di territorialità. Si tratta in questo caso di una forma di utilizzo del loro territorio o area, che definisce le relazioni spaziali tra gli individui; essa non solo regola il posizionamento degli individui, ma serve come un meccanismo limitante il numero delle specie che insistono sul medesimo spazio geografico. I processi sociali dipendono dall’uomo, dalla sua identificazione personale, dalla sua posizione sociale e dalla consapevolezza (associazione con) del proprio posizionamento (luogo) all’interno di uno specifico territorio (l’ambiente urbano fu creato dagli uomini per uomini, cioè animali razionali).
La teoria degli spazi sociali legati alle identità individuali e a quelle di gruppo studia spazi immaginari apparsi grazie alla capacità umana di avere “immaginazione sociologica”, secondo l’espressione del sociologo statunitense Charles Wright Mills (Mills 2000 [1959]). Le forme spaziali che costituiscono le attività sociali in forma materiale vengono chiamate “spazialismi” (M. Foucault, A. Lefebvre), i quali però solo parzialmente spiegano come la struttura immaginaria si trasformi in una struttura identitaria e fisica.


***


L’identità urbana è una forma di impegno della e nella memoria collettiva del passato, e segna, ovvero “marchia” specifiche e riconoscibili aree di grandi città attraverso alcuni sistemi di relazioni consolidate come quelli, ad esempio, tra centro e periferia (istituendo così una sorta di gerarchia topografica), tra l’alto e basso (elaborando in questo caso forme di gerarchie simboliche), tra vecchio e nuovo (si tratta qui di modalità gerarchiche temporali, che possono però assumere scale valoriali e di preferibilità non esclusivamente orientate a favore dell’una o dell’altra dimensione). Nell’insieme, si può affermare che la creazione di una solida struttura simbolica è legata al riecheggiamento di stili di vita tradizionali, quelli tipici della o attribuiti all’età agraria, in cui l’uomo si pensava - ed era - soggetto a cicli naturali e allo spazio cosmico, all’interno di una gerarchia universale e inamovibile. Nella cosiddetta età dell’urbanizzazione gli uomini ancora dipendono da concetti antichissimi, procreando e conservando per se stessi i confini mentali espressi nello spazio.
Lo storico e sociologo francese A. Lefebvre, noto anche come “il critico della quotidianità” che ha introdotto concetti come “diritto alla città” e “produzione dello spazio sociale”, ha inteso presentare una distinzione sul come lo spazio sociale è percepito e organizzato in Occidente e in Oriente. In Oriente (ad esempio, in Cina) uno spazio qualsiasi (necessariamente “quadrato”, ovvero circoscritto da ogni parte), possiede un quinto elemento, che è abitato dalla divinità, dalla conoscenza, dal potere, ed esso è identificabile come il Centro: «Ogni gruppo di luoghi e di oggetti ha un proprio centro; lo hanno una casa, una città, il mondo. Il centro è visibile da tutti i lati; colui che in esso si trova, dal suo posto scopre tutto ciò che sorge. Tutti i valori sono determinati nel rapporto con esso. [...] L’enfasi metafisica sui centri e sui loro valori non svaluta ciò che li circonda» (Lefebvre 2015 [1974], p.108).
In Occidente il modus operandi è diverso e diverse sono le idee sulle identità nello spazio, a volte più simili ad una scacchiera. Può forse essere utile richiamare i processi di formazione delle cosiddette “zone di memoria”, in cui si accumulano le nostre conoscenze sul passato; queste aree di memoria sono sempre accompagnate dalla comparsa di “zone di soppressione” che per un motivo o per l’altro sono state escluse dalle comuni pratiche culturali. L’esclusione culturale in un ambiente urbano e le relative identità implicano il ricorso al tema della memoria sociale e culturale. La comprensione di quest’ultima deve per altro essere affiancata ad uno studio sui confini e sulle dinamiche di marginalizzazione dell’esperienza civile. Chi abita luoghi urbani contribuisce a costruire, più o meno consapevolmente, un particolare “tipo” culturale, caratterizzato da determinati marcatori di coscienza: miti urbani, codici di memoria, percezione, costumi e stili, norme comportamentali, linguistiche, abitudini, tendenze antagoniste ed altri fenomeni che implicano una presa di coscienza collettiva. Ogni “prassi cittadina” può essere esclusa dalla memoria collettiva perché, a prima vista, priva di rilevanza. Ad un esame più attento, essa potrebbe risultare respinte attraverso una procedura più complessa, subliminale e, al fondo, traumatica associata alla formazione di “zone” di negligenza, oblio culturale e di dimenticanza. Nella memoria pubblica, esse si materializzano nelle zone di esclusione sulla mappa del territorio urbano.
Le funzioni delle zone di esclusione urbana (che restano al fondo di difficile rilevazione su una mappa fisica della città) sono contraddittorie. Da un lato, esse rappresentano uno spazio escluso, sequestrato, protetto e nascosto. Dall’altro, delimitano e racchiudono al loro interno essenze identitarie, che altrimenti tenderebbero a diffondersi e dissolversi. Che alle origini più antiche della cultura si trovi il concetto di recinto, lo ritiene il filosofo sanpietroburghese Valery Savchuk: «Esso è anche un tipico esempio dei media. Dividendo ci collega; limitando la visibilità ci mostra una condizione sociale, il grado di dissociazione o solidarietà umana [...]. Una questione importante è la relazione tra i concetti di una recinzione e un confine, una recinzione e l'ordine delle cose» (Savchuk 2012, p.105). Nel romanzo “Les Misérables” (1862), V. Hugo creò una delle descrizioni più impressionanti di tutta la letteratura circa le barricate per le strade di Parigi nei giorni della Rivoluzione, che rappresenta la quintessenza della poetica delle nuove frontiere. Le barricate visualizzano quell’esperienza di rottura, che cade da una sequenza storica coerente, del tempo di un individuo, che è sempre associato all’essere nella città. Le barricate rivoluzionarie nelle città, soprattutto, abbattono la meccanica sostenibile dell’esistenza urbana e violano percorsi di traffico specifici. Creano pause, formano ostacoli nelle dinamiche continue della città. Il compito principale di queste strutture è quello di paralizzare la città, di bloccare le arterie del movimento. La loro funzione teatrale nello spazio urbano è la produzione di un effetto pausa, cesura, di interruzione di flussi volta ad un più parcellizzato controllo.
Provare a comprendere la problematica identitaria in un ambiente urbano implica provare ad affrontare una serie di questioni connesse a concetti binari come: globale/locale, proprio/altro, qua/là, (o “al di là”), ecc. È stato notato che uno dei concetti meno descritti nella letteratura filosofica e antropologica è proprio quello di «confine» e della condivisione tra i soggetti. Ciò che è interessante è che per descrivere un certo “campo” (area, zona) postulato da installazioni collettive ed esistente nella memoria pubblica, e per proseguire ad elaborarlo da parte di istituzioni sociali, lo si può riconoscere e capire meglio attraverso lo studio delle modalità dei suoi stessi confini, come la loro variabilità e condizionalità, la presenza delle proprietà di porosità o, al contrario, di rigidità e/o rigorosità. Certamente, non si tratta di paralleli diretti, piuttosto, di metafore o analogie che permettono di vedere un ulteriore livello semantico in un certo numero di pratiche esistenti.
In un contesto più ampio, è proprio l’immagine del confine interno (rigido o fluido) urbano che sembra diventare la più capiente e precisa per descrivere le identità sociali e culturali dell’ambiente. Ma una tale idea è possibile esclusivamente se pensiamo le strutture dello spazio topografico non nelle tradizionali opposizioni binarie (centro/periferia), ma come strutture rizomatiche, che rendono lo spazio stesso (e, di conseguenza, le sue immagini) potenzialmente illimitato.


***


L’ultima opera congiunta di G. Deleuze e F. Guattari Che cos'è la filosofia? continua a costituire un punto di partenza e riferimento, aprendo definitivamente il campo del dialogo tra filosofia e spazio geografico. Come noto, il concetto di “geofilosofia” in tale opera proposto indica il processo di de-territorializzazione (la scoperta del territorio verso l’esterno, dal territorio alla terra) e il processo di ri-territorializzazione (dalla terra al territorio, il ripristino del territorio attraverso la terra). Un pensiero è formato, “modellato” dallo spazio geografico e diventa, di fatto, una specie di forma di questo spazio; come il paesaggio, risulta essere non solo la geografia della natura e dell’uomo, ma anche la geografia della mente. Lo spazio viene percepito dagli individui in modo diverso. Si può dire che vi sia anche una certa evoluzione di queste sensazioni-percezioni di spazio e di tempo della civiltà urbana. Kevin Lynch ha aperto il dibattito sullo studio dello spazio nell’ambiente urbano, che orienta i ricercatori all'antropologia dei cittadini e allo studio delle città come le opere sociali (cfr. Lynch 1960). Se consideriamo l’urbano come una creazione sociale, ossia come un prodotto, ci si apre la possibilità di una costruzione mentale degli ambienti, in cui si evitano errori nella progettazione sociale. Come è noto, progetti simili hanno già trovato la loro espressione in una varietà di utopie, che sono spesso accompagnate e integrate da un progetto e prospettazione di piano urbanistico (senza alcuna pretesa di completezza, basti qui ricordare come esempio la “Sforzinda” di Filarete, i cui prototipi si ritrovano nella Cosmopolis degli Stoici, nello stato ideale di Platone, nella città celeste della rivelazione di San Giovanni Evangelista, ecc.).
I sistemi di progettazione sociale e urbanistica stanno attualmente cercando di prendere in considerazione la sempre rinnovantesi necessità di amalgama tra tradizione e innovazione, nonché, a pressoché ogni latitudine, le crescenti esigenze di (percezione di) sicurezza. L’oggettiva (pragmatica, ma spesso solo percepita) e sempre riproponentesi difficoltà che incontra l’affermarsi di ogni innovazione in un ambiente urbano produce la tendenza ad evitarne la proposta o ne rende l’effettivo perseguimento su scala sistemica troppo complesso e praticamente impossibile. Allo stesso tempo, alla pianificazione urbana si avvicina un nuovo progetto culturale, politico ed ideologico, ovvero il tentativo e l’aspirazione a “ri-formattare” la società stessa (può essere definito come «permanente riforma di campi culturali» che predilige lo sperimentare nuove forme di norme culturali, ma accompagnate dalla dinamicità di esclusione e di marginalizzazione di altri valori culturali, la loro reclusione in recinti paradisiaci). Il parco newyorkese «High Line» è un esempio archetipico, che negli ultimi anni spesso appare come un perfetto modello di ricostruzione degli spazi urbani. Il parco, strappato al contesto industriale della vecchia ferrovia sopraelevata, costituisce un territorio nuovo da tutti i punti di vista; l’ambiente industriale ha improvvisamente fatto marcia indietro di fronte alla natura e, come se si fosse nascosto, ha cominciato a mostrare non la sua presenza ma la sua futura assenza e inutilità.
Per il nuovo modus vivendi (progettato idealmente sullo sfondo della sociologia del benessere) è già pronto uno spazio sociale, ma il suo nome è, per il momento, “zona di esclusione”. Simili spazi, dove al posto delle vecchie strutture sono cresciute le betulle, e dove ora ci si può impegnare solo in una sorta di nuova «attività» localizzata, si possono trovare anche a Mosca (per esempio, la zona di Zaryadye), creati negli ultimi anni, ma anche in altre parti del mondo.
Nell’ultimo decennio del XX secolo una serie di nuovi approcci alla teoria sociale ha contribuito all’allontanamento dall’interpretazione delle coalizioni (gruppi) sociali come comunità portatrici di identità specifiche. Viviamo in una situazione in cui i legami sociali non sono più veri legami sociali, perciò tutto è possibile. Costruire, ci diceva Heidegger, significa trasformare lo spazio in un luogo. Gli spazi non hanno identità, mentre i luoghi, al contrario, sì, ed è nel luogo che una persona riceve, contrassegna e approva il suo contatto con l’identità personale. Forse il costante complicarsi dello spazio urbano e il suo riempirsi di reti di comunicazione hanno raggiunto un punto tale che i luoghi più ricercati della città sono diventati quelli in cui essa è particolarmente nascosta, oppure si mimetizza con altre sostanze come, ad esempio, la natura, oppure si presenta come una scena teatrale o una rovina cinematografica, un museo all’aria aperta ecc.
Il famoso architetto e teorico Jean Nouvel si rifiuta di creare uno spazio dotato di identità (luogo); ha inventato la teoria del cosiddetto “spazio zero”. L’architetto propone soluzioni urbane che possono erodere o attraversare (anche spezzandoli) gli eventuali confini presenti nell’ambiente urbano. Nelle sue opere Nouvel offre la massima dematerializzazione dell’edificio, dando in modo metaforico la priorità alla categoria del tempo anziché a quella dello spazio. La filosofia “pratica” di Nouvel sviluppa il concetto dello “spazio attivo” e quello del “luogo-evento”, lanciato da H. Bergson e H. Poincaré, e ci propone di combinare (durante la creazione di nuovi spazi urbani) le categorie di illusione, mistero, mito e leggenda. In questa combinazione sono poi inseriti i meccanismi della «memoria associativa», che implica la conservazione di tutti i confini topografici presenti, ma rielaborati in forma di paesaggio. Che sia proprio questo il futuro post-urbano? Un futuro in cui la città crea ed “abilita” zone di esclusione, nelle quali poter “giocare” con l’intersezione dei confini o dei mondi, o diviene possibile usare, custodire e rinnovare questi stessi confini per sfuggire alla nostra identità debole e fluida o per trovarla, infine, offertaci “in loco”, in una spazialità creata appositamente per poter essere interpretata dal singolo che la abita e ne è ospitato?


* Il presente studio è stato finanziato da RFBR (Russian Foundation for Basic Research) nell’ambito del progetto di ricerca «The problem of identity in cultural exclusion zones in the urban environment» (№ 18-011-00552). Gli autori ringraziano la Dott.ssa Marianna Capasso per il prezioso supporto redazionale.



Bibliografia

M. Augé (1992), Non-Lieux. Introduction à une anthropologie de la surmodernité, Seuil, Paris; trad. it. di Dominique Rolland (1996), Non-luoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, Elèuthera, Milano.
J. Baudrillard - J. Nouvel (2000), Les objets singuliers. Architecture et philosophie, Calmann-Lévy, Paris.
P. Bourdieu (2014), Soziologiya sozialnogo prostranstva [Sociologia dello spazio sociale], trad. russa di “Sociologie de l'espace social”, Aleteja , Mosca.
- (1979), La Distinction. Critique sociale du Jugement, Les Editions de Minuit, Paris.
G. Deleuze G, F. Guattari F. (1991), Qu’est-ce que la philosophie?, Les Editions de Minuit, Paris; trad. it. di Angela De Lorenzis (1996), Che cos’è la filosofia, a cura di Carlo Arcuri, Einaudi, Torino.
S. Gurin (2014), Philosophy of Identity. Ontological walks, «Topos. Literary and Philosophical Journal», Publishing Club Topos, available at: http://www.topos.ru/article/6727 (ultimo accesso: 10.05.2019).
M. Heidegger (1976), Vorträge und Aufsätze, Pfullingen, Neske 1954; trad. it. Saggi e discorsi, a cura di G. Vattimo, Mursia, Milano.
H. Lefebvre (1974), La Production de l’espace, Anthropos, Paris; trad. it. (1976), La produzione dello spazio, Moizzi, Milano; trad. russa (2015), Strelka Press, Mosca.
B. Latour (2005), Reassembling the Social. An Introduction to Actor-Network-Theory. Oxford University Press, New York.
J. Law (2004), After Method. Mess in Social Science Research, Routledge, London.
N. Leach (ed., 1997), Rethinking Architecture: A Reader in Cultural Theory, Routledge, London; republished in (ed., 2005) Taylor & Francis e-Library, Available at: https://ateneum.edu.pl/assets/Dziekanat/ELEARNING/jERZAK/Leach-ed-Rethinking-Architecture.pdf.(ultimo accesso: 10.05.2019)
K. Lynch (1960), The Image of the City, MIT Press, Cambridge.
C. W. Mills, (2000 [1959]). The Sociological Imagination (40th anniversary ed.), Oxford University Press, New York.
Z. Nikolaeva, S. Troitskiy (2018), An Introduction to Russian and International Studies of Cultural Exclusion Zones. An Analytical Overview of Recent Concepts, «Rivista di estetica», LVII, 1, pp. 3-17.
A. Pirni (2018), La sfida della convivenza. Per un’etica interculturale, Edizioni ETS, Pisa.
V. Savchuk (2012), The Fence as a Kind of Media, «International Journal of Cultural Research», IV, 9, 105-111. Available at: https://culturalresearch.ru/files/open_issues/04_2012/IJCR_04(9)_2012_Savchuk.pdf (ultimo accesso: 10.05.2019)
P. Sorokin (1937-1941), Social and Cultural Dynamics. American Book Company, Cincinnati.



E-mail:

E-mail:



torna su