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Note sulla filosofia del populismo in Ernesto Laclau

FRANCESCO SCANNI
Articolo pubblicato nella sezione Tra le righe

Introduzione

Il populismo è una malattia della società di classe oppure è il sintomo di un errore di fondo che alligna in questa stessa divisione sociale per come la si è intesa tradizionalmente? Questo quesito rappresenta un buon punto di partenza se si vuole approfondire l’analisi del populismo che troviamo negli scritti di Ernesto Laclau e tutto il dibattito che ne è derivato. Chiarire, cioè, se il fenomeno populista sia da intendere come eccezione o come normalità all’interno dei diversi sistemi politici. L’idea che pervade tutta l’opera di Laclau ricade certamente sulla seconda opzione: il populismo è un metodo ordinario di costruzione di un collegamento tra domande sociali differenti (che l’autore definisce “catena equivalenziale”; Laclau 2008), ed ha la funzione di strutturare la società stessa che è sempre il prodotto di una costruzione discorsiva, mai un’oggettività pre-esistente. Che l’essere della società, il modo in cui essa si manifesta, non abbia punti d’attracco sociali prestabiliti, significa che ogni analisi sociale sistemica e strutturale debba essere sacrificata sull’altare della costruzione. Questo “iper-costruzionismo”, che disconosce l’esistenza di ogni oggettività o essenzialismo che, in Laclau, assume l’aspetto di schematico determinismo, viene criticato da diversi autori, ma principalmente da S. Žižek (Butler, Laclau, Žižek 2010). Il tema su cui i due dibattono è l’esistenza o meno di una “Verità”, intesa come campo del “non ulteriormente decostruibile”, o più semplicemente come struttura sociale da cui ogni sovrastruttura deriva. La discussione entra nel marxismo ma subito si spinge oltre, interessando molti altri autori classici come Hegel, Lacan e Spinoza (Butler, Laclau, Žižek 2010).
Nel primo Laclau, ancora marxista, il populismo rappresentava il viatico per fuoriuscire dal riduzionismo di classe, sebbene egli continuasse a rintracciare nell’identità precostituita della classe il luogo privilegiato di un’articolazione del popolo contro il potere. Successivamente l’autore abbandonerà questa prospettiva, in nome di un costruzionismo sociale che si potrebbe definire “estremo”, e della negazione di ogni essenza economicistica orientata a dividere il mondo in antagonismi sociali che si riflettono in antagonismi politici più o meno adeguati e conformi. Il riferimento ad una verità sociale (a sua volta prodotta dalla struttura economica) che funga da parametro di giudizio di veridicità e valore della conflittualità politica, viene sostituita da un primato del politico descritto come il vero ed unico campo della contesa. Il politico diventa la struttura e sostituisce il primato che il marxismo assegnava alla struttura economica (Marx 1998). In base alla lettura classica, il populismo risultava distorsione della verità del conflitto di classe; deviazione dalla reale divisione sociale che caratterizza la società capitalistica: quella tra capitale e lavoro. Il populismo, in questa classificazione, non era considerato se non in termini di aberrazione. Con il rifiuto di ogni essenzialismo economico, Laclau invece riconsidera il populismo in termini di necessaria semplificazione discorsiva, proponendo una rivoluzione epistemologica che consideri l’azione politico/discorsiva e la lotta egemonica come fondative della stessa realtà sociale.


L'impianto teorico/filosofico laclausiano

Il soggetto di Laclau è fondazionale cartesiano, capace di costruire e consolidare la propria identità e quella dell’Altro (Gaboardi 2016). Entra allora in scena il tema della costruzione delle identità sociali e politiche. Senza misurazione della verità sulla base della realtà economica e sociale per come descritta da Marx (Marx 1997), i fenomeni populistici ed anche fenomeni autoritari come il fascismo ed il nazismo, non possono essere interpretati come “inganno”. Tutt’al più come ingiustizia, se ne misuriamo il grado di giustizia sulla base dell’ideale etico/normativo della democrazia. Ma non vi è, in questi fenomeni, distorsione ideologica dalla lotta di classe, anzi essi evidenziano soltanto l’abbaglio che Marx ed i marxisti hanno preso teorizzandone l’esistenza.
“La società non esiste” (Laclau, Mouffe 2011), affermerà nei suoi scritti Laclau, o meglio non pre-esiste, così come il socialismo non esiste, perché è viziata da economicismo l’idea dell’esistenza obiettiva della sua classe di riferimento: il proletariato. La società è quel che l’uomo fa, è il risultato di uno scontro egemonico tra diverse visioni in conflitto. All’accusa di “falsa retorica” mossa contro il populismo, Laclau risponde che bisogna, invece, abbandonare le categorie oggettivistiche e comprendere che non vi è alcuna realtà sganciata dalla retorica, poiché ogni realtà ha natura discorsiva ed il populismo è la forma moderna che assume ogni soggetto politico. Anche le distinzioni dicotomiche giusti/ingiusti, popolo/governanti ecc. non rappresentano una semplificazione, ma la condizione stessa dell’azione politica. L’esistenza di un gruppo non è data soltanto dalla sussistenza di una volontà comune, ma richiede l’identificazione con un’immagine; ha bisogno di riconoscersi in un oggetto (o in un soggetto-Leader) di cui ci si innamora. In quell’oggetto ci si riconosce e si diventa riconoscibili, poiché esso contiene una quota di informazioni di massima che ci riguardano (l’appartenenza ad un’ideologia specifica, un’identità o più semplicemente l’essere parte di un gruppo definito), e ciò dà vita ad una catena equivalenziale in cui “l’altro del mio gruppo mi equivale”. L’incontro con l’Altro avviene sin dalla nascita, fin dall’inizio dell’esistenza, pertanto la psicologia individuale è sempre psicologia sociale perché non può prescindere dall’incontro con l’Altro da sé (Freud 2011) che viene investito simbolicamente. Questo investimento entra a far parte del subconscio, e può assumere la forma dell’investimento pulsionale che rifiuta l’altro e lo descrive narcisisticamente in termini di oggetto del proprio godimento, oppure del legame emotivo che si instaura attraverso l’identificazione con l’Altro.
Ma non è questa tutta la spiegazione. Resta da stabilire, infatti, cosa tenga assieme un gruppo e cosa lo distingua dagli altri gruppi. Possiamo continuare, con Freud, dicendo che l’idea dell’Altro da sé ed il subconscio agiscono in due modi distinti ma non conflittuali: tramite investimento affettivo e tramite investimento libidico. Ciò che tiene assieme un gruppo e lo distingue dagli altri è inizialmente il comune amore dei membri per il Capo (identificato con una figura oppure con un’idea), che all’aumentare del livello di organizzazione perde d’importanza, ma non sparisce mai del tutto. Per questa ragione, ogni gruppo si basa su una tensione mai risolta tra totale legame libidico con il Leader ed autonomia completa dell’organizzazione.
È proprio in questa tensione che si inserisce il populismo, anzi, è proprio questa tensione irrisolta il populismo, che Laclau intende come costruzione di nessi tra domande insoddisfatte attraverso i quali descrivere ed interpretare la realtà sociale che è sempre, per definizione, segnata da vaghezza ed indeterminatezza. Ogni struttura concettuale è retorica, per cui che lo sia anche il populismo è consustanziale. Il populismo, ci dice Laclau, coincide con il politico che è articolazione tra differenze ed equivalenze sempre contingente ed egemonica, cioè non rappresenta mai un contenuto ontico universale che trascende la contesa dialettica. Per Laclau ogni processo di universalizzazione è sempre legato alle esclusioni storiche contingenti (Butler, Laclau, Žižek 2010), per cui il populismo non si associa ad un particolare contenuto ideologico ma è piuttosto la modalità moderna, tipica dell’affermazione del pubblico (Urbinati 2013), di costruzione dello spazio politico. Lo scopo del populismo è la creazione di un popolo, ritenuto l’unico legittimo e diretto depositario della volontà generale all’interno della società (Mény, Surel, 2000). Questa costruzione è sempre contingente, sebbene si ponga come universale: il popolo del marxismo, ad esempio, coincide con la classe operaia, il popolo della rivoluzione francese era la Nazione dei cittadini, come quello del nazionalismo etnico è la razza ecc. Ne consegue che tutte queste categorie (classe, nazione, razza, etc.) non siano considerate da Laclau come naturali (esistenti cioè da sempre), quanto piuttosto come costruzioni storiche.
Già in Hegemony and socialist strategy (Laclau, Mouffe 2011), scritto con la moglie Chantal Mouffe, Laclau dichiarava l’autonomia della sfera politica da ogni condizionamento sociale ed economico. Ma per la costruzione di una contrapposizione populistica devono verificarsi alcune condizioni. In primo luogo nella società devono essere presenti delle domande sociali (cioè richieste e rivendicazioni particolari) a cui le istituzioni non riescono a dare risposte. L’insoddisfazione dei portatori di richieste specifiche genererà un nucleo di resistenza al sistema dominante che li porrà in dissenso rispetto a questo. La relazione tra legame di equivalenza e sistema di potere è inversamente proporzionale: più si riduce la dimensione dei settori sociali coinvolti nelle decisioni governative, più aumenta la distanza tra il sistema istituzionale ed il popolo, maggiori saranno le domande insoddisfatte che andranno ad allargare la catena equivalenziale. Ma ancora ciò non basta affinché si abbia populismo. Si ha un populismo, inteso come costruzione politico/retorica di un legame tra domande insoddisfatte, quando queste diverse domande vengono legate in un’unica prospettiva che porta il nome di un “significante vuoto”, cioè un anello della catena che nomina l’intero legame delle equivalenze. Le domande sociali che entrano a far parte di una catena, divengono più solide e durature, ma devono sacrificare frammenti di identità sull’altare di una più ampia generalità. Questa catena si mostrerà tanto più forte quanto più tenue sarà la specificità delle domande singole che ne costituiscono gli anelli; al contrario si indebolirà se le rivendicazioni specifiche si mostreranno non disposte a sacrificare quote di specificità sull’altare di una più ampia e complessa generalità, oppure qualora domande isolate della catena vengano accolte dalle istituzioni e tradotte in politiche, in maniera tale da indebolire il fronte antagonistico e rafforzare il proprio. D’altra parte, essa si muove costantemente su un crinale che la rende instabile e problematica, in quanto sempre sottoposta a doppio rischio:
di disgregazione e frammentazione, qualora prevalesse la logica delle differenze;
di omologazione identitaria, qualora prevalesse quella dell’equivalenza.
Una costruzione che può sembrare paradossale, se la si legge con le categorie del conflitto di classe che segna la società, nella quale potrebbero trovarsi fianco a fianco, nella catena equivalenziale, i più disparati ed anche contraddittori interessi (anche quelli tra capitalisti e lavoratori, come spesso accade di questi tempi; cfr. Revelli 2017). Ma la cosa originale è che tutto ciò venga descritto come normale prassi, rispondente alla normale dinamica di costruzione politica dei fronti antagonistici, assolutamente non come deviazione dalla reale frattura tra capitalisti e lavoratori o come falsa coscienza (cfr. Gramsci 2014). L’unico rischio che Laclau rinviene, nel caso di una catena equivalenziale eccessivamente eterogenea e ampia, è che ciò possa produrre una totale identificazione con la figura del Capo come unico collante possibile di una catena tanto composita (come nel caso del peronismo, esempio analizzato da Laclau nel suo testo La Ragione populista).
Dal canto loro, le istituzioni devono mostrare la capacità di saper disarticolare le catene equivalenziali, accogliendo alcune delle domande insoddisfatte nella fase decisionale della governance. In questo modo possono indebolire la catena equivalenziale antagonistica e rafforzare quella del governo. Il popolo, secondo questa prospettiva, è un’unità prodotta da tante micro-unità che si assemblano, una fusione di domande sociali variegate e distinte che, attraverso un processo di nominazione (de Saussure 2009), acquisiscono un’identità che ne trascende la singolarità ed un nome che ne diventa il “point de capiton” (Althusser 1994), ossia un nome che fissa il significato degli elementi che lo precedono. Risulteranno oramai evidenti, al lettore attento, le tracce della moderna scienza linguistica che ebbe in Saussure il precursore. La cosa osservata (il referente empirico) ed il suo significato sono sempre mediati da una forma segnica (significante) che svolge una funzione costitutiva in quanto dà senso alla cosa osservata. La chiama e la significa. A tal proposito Laclau parla di “significante vuoto” (cfr. Laclau 2008), un concetto che spiegheremo nel prossimo paragrafo.


La totalità impossibile e necessaria

Un significante vuoto è un costituente generico e neutrale dell’interazione sociale. Esso dà nome ad una totalità che non esiste mai obiettivamente, ma è sempre costruita. È il frutto cioè del processo di nominazione di una frontiera antagonistica di natura discorsiva. Nel mondo sociale, né tantomeno in quello politico, non vi è mai totalità, soltanto tensione alla totalità. Essa non è mai compiuta, mai definitiva, ma sempre segnata dal fallimento. Si tratta di un luogo impossibile, mai completo, tragico (cfr. Bazzocchi 2009), ma allo stesso tempo necessario, poiché una qualche chiusura è sempre indispensabile per stabilire l’identità e rendere possibile la rappresentazione. Come si esce dall’impasse? Laclau, che rifiuta ogni “a priori”, sostiene che tutto si risolva nel processo egemonico, all’interno del quale una particolarità assume la funzione di significante vuoto e crea l’intero; si auto-rappresenta come universale. Questo è un continuo processo di universalizzazione, che ininterrottamente si solidifica e nuovamente si sbriglia, segnato perciò da perpetuo fallimento e continua risignificazione. In tal senso, la totalità deve essere intesa come orizzonte discorsivo, mai come approdo.
Nel testo La Ragione populista Laclau utilizza l’esempio della sineddoche (figura retorica), nella quale una particolare differenza assume la funzione di rappresentare la totalità che la eccede. Il populismo è quindi la costruzione stessa del gruppo, coincide con il politico proprio in quanto manifestazione delle relazioni tra agenti sociali di cui il popolo è frutto. L’unità da esso prodotta si pone ad un livello più alto rispetto alle micro-identità che lo compongono, che sono le domande sociali; le issues. È l’indispensabile processo attraverso il quale una parte si mostra come tutto. In un certo senso, questo processo coincide con l’azione simbolica svolta dal lacaniano “Nome del padre”, che sormonta e nomina la tensione tra equivalenza e differenza tipica del politico. Una parte si identifica con il tutto, pretende di essere il popolo integrale e di fungere da totalità (lo slogan “tutto il potere ai soviet!” ne fa da esempio). Per Laclau, però, la società rimane sempre segnata da una frattura, che è costitutiva e non assorbibile se non temporaneamente. Diversamente da quanto avviene nel pensiero di Hegel (cfr. Lukàks 1960), che comprende i mutamenti complessivi nel razionale e dialettico divenire storico, in Laclau l’unico assoluto che funge da parametro normativo è il concetto di “antagonismo”, del “tutto impossibile”. L’eterogeneità è costitutiva e non può essere superata da alcun rovesciamento dialettico. Non esiste alcuna negazione determinata che trasforma ogni negativo in positivo, nel processo, poiché il negativo è costitutivo e non superabile. La divisione della scena politica in due o più fronti è dunque di natura discorsiva, non deterministica: dipende dai significanti privilegiati che condensano in loro un intero fronte antagonistico. La vuotezza del significante, ci dice Laclau, non è indicativa di imprecisione o vaghezza del populismo, né della sua debolezza ideologica, ma il frutto dell’eterogeneità di ogni terreno populistico e politico. Investire il vuoto significa creare un’universalità capace di trascendere le particolarità, attraverso una domanda particolare che proviene dalla serie stessa, la quale, per ragioni circostanziali, acquisisce centralità e diventa il denominatore comune che incarna la totalità della serie e la trasforma in singolarità. Il vuoto è dunque necessario per accogliere la molteplicità delle domande (cfr. Laclau 2017). In base a tale ragionamento, più sarà ampio il vincolo, più saranno vuoti i significanti che ne mantengono la catena. Vuoto non significa astratto, giacché il particolarismo permane sia all’interno della catena che nel significante vuoto, ma che un particolare si svuota dei suoi contenuti ontici ed assurge ad un ruolo ontologico; nomina e sussume la catena, ne crea l’unità ed il nome diventa fondamento della cosa stessa. L’equivalenza accetta il particolarismo delle domande, ma le subordina a sé. L’autore parla anche di “significante fluttuante”, proprio per intendere la necessaria imprecisione del linguaggio da cui discende un’unità discorsiva, non concettuale. Una domanda popolare diventa un nome che sublima un oggetto (una pluralità di punti di rottura) e lo eleva alla dignità della “Cosa” che gli è ancestralmente negata (cfr. Recalcati 2016). È così che una domanda parziale diventa qualcosa che la eccede, attraverso il movimento del Nome che si distacca dal concetto ed il significato diventa significante: “significa” la catena. Ogni popolo che sorgerà da tale processo sarà ancipite, ed incorporerà in sé un momento di rottura contro l’ordine esistente ed un momento di ordinamento interno e nel sistema. Sarà un “dentro e contro” che rappresenterà la tensione necessaria tra differenza ed equivalenza (impossibile).
La cristallizzazione del legame tra domande insoddisfatte, sublimate da un significante vuoto, crea il “Popolo” del populismo, che travalica la mediazione tra le varie domande ed instaura un legame che retroagisce sulle singole domande che formano la catena stessa, fungendo da fondamento. Essendo una caratteristica discorsiva, il populismo non è collegato a nessuna ideologia specifica, anzi può acquisire qualsivoglia ideologia politica. In quanto metodo di costruzione dell’antagonismo, può diventare populismo di destra o populismo di sinistra (cfr. Tarchi 2015), ed in quanto linguaggio si mostra in grado di saltare oltre le barriere ideologiche e sedurre trasversalmente i diversi settori sociali (Formenti 2016). Essendo sganciato da ogni riferimento di carattere economico, non esiste nessun elemento privilegiato tra i punti dell’antagonismo.
Quella di Laclau, com’è oramai evidente, rappresenta una vera e propria ontologia, che mira ad affermare il primato del politico rispetto all’economico ed al sociale. Un antideterminismo che rifiuta ogni universale che non sia pura contingenza, che finisce però per scivolare in un costruzionismo estremo negando la preesistenza di ogni soggetto sociale, e quindi anche dei rapporti produttivi che li produrrebbero, che sia astratto dai rapporti politici e di potere che nella società si innescano. L’identità di ogni soggetto politico, allora, avviene attraverso un meccanismo definitorio, nel quale l’articolazione equivalenziale si basa su un processo di nominazione della propria catena e dell’identificazione di un nemico che ne sta fuori (cfr. Merker 2009).


Il lacaniano

Perché la pienezza della società, la totalità, è impossibile? Il tema della non saturazione del soggetto nella soggettivazione deve trovare una risposta convincente. Mi spiego: se noi parliamo di conflitto, di pienezza impossibile, qualcuno potrebbe chiedersi perché ci sia, perché ogni sistema economico, un modello di società, un modello di soggettivazione sia sempre incompleto? Marx risponderebbe materialisticamente: «perché un determinato sistema si basa su specifici interessi di una classe a danno di un'altra» (cfr. Marx, Engels 1998, corsivo mio); Hegel, dal canto suo, sosterrebbe, con Eraclito, che ad un positivo corrisponde sempre un negativo, e che il movimento dialettico si compone (e scompone) di Tesi, Antitesi e Sintesi che subito diventa nuova Tesi. In alternativa, come fa Laclau, ma anche in parte Žižek, si può dare una risposta lacaniana: perché ogni soggettivazione lascia sempre un elemento forcluso che coincide con il subconscio. In sintesi, se la domanda si sposta dal marxismo, si deve dare una risposta metafisica di questa mancanza costitutiva.
Per la spiegazione, Laclau ricorre all’orizzonte epistemologico ed ontologico della psicoanalisi lacaniana, nel quale la scissione necessaria in ogni soggetto viene ricondotta all’azione dell’inconscio sul soggetto stesso (cfr. Nasio 1998). Ogni processo di oggettivazione lascia uno scarto soggettivo ed ogni tentativo di soggettivizzazione non comprende l’oggettualità del soggetto. Per cui ogni soggetto è attraversato da una breccia che lo rende incompleto, sempre aperto ed impossibilitato alla chiusura. Nessuna soggettivazione può essere esaustiva, proprio perché ogni soggetto ha in sé altro dalla soggettivazione, la quale è sempre assoggettata al simbolico e condannata, in Laclau, alla catena dei significanti vuoti egemonici, quindi a non poter mai accedere alla verità del Reale. Proprio questa incompletezza originaria rappresenta il presupposto di una società necessaria ma impossibile al tempo stesso, che rende efficace l’articolazione egemonica. Si tratta di una breccia, un principio trascendentale o semi-trascendentale, che l’autore teorizza come costitutivo dell’immanenza e descrive riprendendo il concetto lacaniano di “breccia” e quello kantiano di “fenomeno”. È la stessa condizione di finitudine dell’umano e delle sue cose a produrre l’antagonismo costitutivo, non assorbibile, della società. Questo concetto deriva dall’idea, presente nella psicanalisi lacaniana, di godimento. Potremmo esemplificare con Nasio, ex allievo di Lacan:
«[...] perché il desiderio deve fallire necessariamente? Il desiderio non si soddisfa mai per il semplice motivo che parliamo. E finché parliamo, finché siamo immersi nel mondo simbolico, finché apparteniamo ad un universo in cui tutto può assumere un senso qualunque, non arriveremo mai alla piena soddisfazione del desiderio, poiché da qui alla piena soddisfazione c’è un campo infinito, formato da mille e uno labirinti. [...] l’atto può dunque essere creatore, ma l’atto più puro o la parola più corretta non potranno mai evitare la comparsa di altri atti o altre parole che mi allontaneranno dal cammino più breve verso la soddisfazione del desiderio. Una volta detta la parola o compiuto l’atto, il cammino verso la soddisfazione si riapre» (Nasio 1998, pp. 41, 42). Ci si può dunque soltanto approssimare alla totalità, ma essa non è mai compiuta definitivamente. Il desiderio costruttivo, dunque, è antidoto al godimento distruttivo e permette la perpetua elaborazione del sociale attraverso il politico. Il soggetto è un finito che pensa all’infinito che gli risulta sempre inattingibile, ma questo scacco esistenziale lo spinge all’elaborazione (cfr. Bazzocchi 2013).
Lo scacco si palesa attraverso due elementi differenti, che nella teoria lacaniana vengono uniti in uno solo: l’inconscio e l’Altro (Lacan usa la lettera minuscola per distinguerlo dal piccolo altro, l’objet petit a, che rappresenta l’oggetto di parziale godimento). L’Altro di Lacan è il campo del linguaggio, entro le cui leggi si trova sempre il soggetto. È una rappresentazione che gli è necessaria per dimostrare la dipendenza dell’uomo dalla struttura linguistica, dalla cultura. Ed il soggetto, l’essere umano, vi si trova iscritto sin dalla sua nascita. Lacan dice che ogni soggetto nasce «nel campo dell’Altro» (Di Ciaccia, Recalcati 2000, p. 64). L’Altro agisce quindi immediatamente sul bambino a causa delle leggi che esistono prima della sua nascita. In verità, la prima versione del grande Altro risulta integralmente freudiana, mentre la seconda è la versione hegeliano-dialettica che conosciamo oggi. Inizialmente ha il significato di soggetto dell’inconscio come trascendenza interna al soggetto: «c’è un soggetto interno al soggetto che trascende il soggetto», ripete Lacan (1974, p. 429), che non è identificabile con un residuo istintuale/pulsionale ma rappresenta una vera e propria ragione distinta.
Il luogo dell’Altro ha in un primo tempo la configurazione del soggetto dell’inconscio, ma in un secondo tempo Lacan pensa al luogo dell’Altro come luogo della parola e dell’intersoggettività. È in questo momento che Lacan, il quale si è formato nel brodo primordiale delle lezioni di Kojève sulla Fenomenologia dello spirito, fa propria l’idea hegeliana per cui il soggetto non è una sostanza che si auto-fonda, ma sempre una realtà desiderante che dipende dal riconoscimento, cioè dalla presenza dell’Altro, dal desiderio del desiderio dell’Altro. L’Altro, allo stesso modo della soggettività hegeliana, come inconscio non può prescindere dall’intersoggettività (cfr. Butler, Laclau, Žižek 2010) e rappresenta un ostacolo negativo ai sogni di onnipotenza dell’Io. Il soggetto non può parlare di sé senza parlare allo stesso tempo del suo Altro, sia in termini di subconscio, che in termini di altro da lui (anche di ordine simbolico, in quanto ogni linguaggio manifesta una serie di consuetudini socialmente accettate). Qui è condensata tutta l’importanza che assume la parola, intesa come dimensione umana del desiderio di riconoscimento da parte del soggetto. Parlare significa richiedere ascolto, e la parola è la dimostrazione che il sistema significante ha un’onnipotenza sul soggetto perché lo fabbrica, lo costruisce, lo soggioga tanto quanto la madre o il Nome del Padre. Potremmo quindi dire che la parola sia, ad un tempo, richiesta di riconoscimento, potenza espressiva e manifestazione dell’impotenza di fronte al potere performativo del grande Altro. Ciò significa che l’Altro è anche insorgenza del conflitto tra soggetto riconoscente e soggetto (o cosa) riconosciuto. La distinzione di base è dunque tra soggetto e soggettivazione: la seconda è la costruzione sociale ed egemonica di un soggetto, il primo è quello che resta, il soggetto nella sua vera essenza, che non si dissolve nell’assoggettamento all’ordine simbolico come avviene al soggetto foucaultiano ma è caratterizzato da una x che resiste, da un margine, una scissione, una ferita che lo pone in attrito con l’ordine dato. È ciò che Žižek definisce “il soggetto scabroso” (Žižek 2003), traslando sul piano sociale il “soggetto barrato” lacaniano. Nella storia, in un preciso sistema sociale che si consolida come assoluto, ciò che rimane fuori è un soggetto scabroso relativo, proprio come nella psicoanalisi ciò che rimane fuori dal processo di soggettivazione è l’inconscio del soggetto. Il soggetto fantasmatico è dunque il Reale che sfugge alla costituzione egemonica e ne rappresenta la breccia costitutiva, il fallimento che caratterizza ogni riduzione rappresentativa. Il Reale è dunque il nome di questo limite che segna internamente il sistema (il Grande Altro): il soggetto è il rovescio reale del simbolico che vorrebbe identificarlo. Per questa ragione non esisterà mai piena rappresentabilità, proprio perché rimarrà sempre un escluso che coincide con il Reale lacaniano. Questo limite, dice Žižek, deve valere anche per le costruzioni egemoniche positive, poiché esso pone il terreno per il “non ulteriormente decostruibile”, ossia il punto di incontro con la verità rimossa da cui genera il sistema; la marxiana struttura economica che pone un argine alla negatività del soggetto.
In questo senso, il “Popolo” rappresenta un Reale che resiste ad ogni integrazione simbolica, il nocciolo che resiste alla simbolizzazione e crea la soggettività (contrariamente a quanto accade nello strutturalismo; cfr. Žižek 2014). Questo nucleo di resistenza è la x, la quale permette che il soggetto non sia totalmente assorbito nell’ordine simbolico. Rispetto a questo argomento, i punti di vista si diramano: Laclau sostiene che questo nucleo, essendo costitutivo, non possa essere ricompreso in nessuna gerarchia sociale. Ogni esclusione ha dunque identico peso e la sua strutturazione in una catena equivalenziale dipenderà da eventi casuali o da volontà politiche ed egemoniche. Žižek, invece, non soltanto sostiene che quella x sia “hegelianamente” in ogni soggetto, ma anche che essa sia “marxianamente” il soggetto, se si risale all’esclusione originaria su cui si fonda il regime capitalistico. È una disputa filosofica non di poco conto, che riverbererà i suoi effetti su molti altri aspetti del dibattito sul soggetto politico, sul suo statuto e sulle possibilità ad esso riconosciute. Partendo da prospettive simili, i due studiosi arriveranno a deduzioni diverse, passando per punti di vista che in alcuni casi sembrano avvicinarsi, in altri tornano ad allontanarsi considerevolmente. Un confronto comunque molto interessante e ricco di spunti, che richiameremo nel prossimo paragrafo. Le critiche di Žižek

Per comprendere più a fondo il pensiero di Laclau e gli sviluppi che ha prodotto nella teorizzazione del populismo e della politica in generale, sarebbe utile richiamare le critiche mossegli da un suo ex allievo, divenuto successivamente il suo principale critico: Slavoj Žižek. Comparare succintamente i due impianti filosofici può essere utile per analizzare punti critici e punti di forza di entrambi gli autori. Tutti e due, in un’opera in cui si confrontano direttamente (cfr. Butler, Laclau, Žižek 2010), concordano sulla necessità di tenere assieme contingenza ed universalità ed entrambi partono da una considerazione di fondo: la soggettivazione produce sempre, necessariamente, un fallimento. Ma mentre Žižek sostiene che il vero universale si possa raggiungere soltanto facendo leva sull’esclusione originaria da cui genera un universale concreto, Laclau esclude la possibilità di questo accesso, poiché non esiste altro universale che non sia il particolare egemonico. Per Žižek il soggetto può pervenire alla sua vera essenza, alla verità, attraverso l’atto rivoluzionario, un salto palingenetico che permette di giungere alla reale esclusione originaria su cui si fonda il sistema; in altre parole, al soggetto è consentito approdare alla “Verità” che coincide con il “non ulteriormente decostruibile” sopra menzionato, ossia il capitalismo. Se è vero che ogni processo di soggettivazione non comprende mai tutto il soggetto, ma è costretto a lasciare uno scarto, una x che resiste alla costruzione, anche il sistema economico presenta questa x, che è il fallimento originario, poiché l’uomo vi si trova sempre immerso: È il Reale lacaniano (cfr. Recalcati 2013). Ma a differenza di Laclau, per il quale il fallimento di ogni processo di soggettivazione è la costante formale che da luogo ad un vuoto mai colmabile e produttivo della continua costruzione egemonica, per Žižek costituisce anche il riferimento solido a cui rivolgersi, il Reale oggetto di forclusione che è ad un tempo il fallimento dell’ordine simbolico e la soluzione del fallimento medesimo. Rispetto alle implicazioni di quel dispositivo ideologico generatore di senso comune che è l’immaginario sociale, interpretato althusserianamente come quadro di senso entro cui si articolano le pratiche di potere, Laclau, considerandolo come unico campo possibile della contesa, ne accetta la pervasività e lo descrive come grembo generativo di nuovi significati/soggetti populistici. Žižek invece è più drastico, e considera l’immaginario sempre segnato dalla non coincidenza con il reale che lo eccede. Esso si fonda proprio sullo scarto del Reale nei rapporti concreti di potere e di dominio. Così la controffensiva simbolica deve presentare un’aderenza al Reale, all’elemento spettrale forcluso dall’accesso alla rappresentazione. Deve, in parole semplici, essere espressione della classe esclusa dall’ideologia dominante. Nel rapporto tra storicità e nucleo traumatico residuale a-storico, Žižek sostiene che il capitalismo poggi su una rimozione originaria, che non è contingente e storica ma tale da sostenere la storicità stessa. Per cui la contingenza è sempre compresa tra mutamento storico e nucleo a-storico traumatico. Tramite la miracolosa fuoriuscita dalla falsa coscienza ideologica attraverso l’atto palingenetico di timbro cristiano e paolino, il fantasma escluso che ossessiona il simbolico accede alla verità e diventa una forza sovvertitrice dell’ordine costituito.
Ma come avviene questa improvvisa manifestazione? La risposta si trova nel concetto di evento, anch’esso mutuato dalla psicanalisi lacaniana nella quale è rappresentato dal desiderio non appagato, che rappresenta la manifestazione inattesa di una ferita non rappresentabile che non si iscrive nell’ordine simbolico. Attraverso la fedeltà all’evento si giunge all’atto, quindi alla fuoriuscita dall’ordine simbolico. Ma cosa garantisce, obietta Laclau a Žižek, che questa trasformazione palingenetica del soggetto non sia aberrante? La risposta di quest’ultimo è chiara: un atto è autentico solo se riconosce l’antagonismo nello spazio simbolico senza autolegittimarsi con un’ipotetica pienezza sostanziale (come ad esempio fece il nazismo e come spesso fa il populismo). Ogni elemento spettrale che presenti la pretesa di suturare la breccia antagonistica costitutiva (ad esempio i migranti che rubano il lavoro) rappresenta un tentativo di positivizzazione della negatività, e quindi un rifiuto dell’antagonismo come strutturale. Per Žižek, il soggetto c’è prima della soggettivazione, quindi il soggetto scabroso è ciò che rimane della soggettivazione, mentre per Laclau esiste soltanto come risultato di essa.
Proviamo a confrontare queste due teorie con una terza, quella di Judith Butler, secondo la quale il soggetto scaturisce dal processo di soggettivazione (è evidente quanto essa sia più vicina a Foucault che non a Lacan ed, in generale, all’approccio psicoanalitico prestato alle dinamiche sociali) e presenta come caratteristica distintiva il dolore che essa gli produce, in quanto si auto riconosce riflessivamente nel desiderio di riconoscimento (cfr. Butler 2009), traducibile come desiderio del desiderio dell’altro. Il soggetto è interno all’ordine ma spinto a riparare ai torti da una avvertita espropriazione del sé (che porta in grembo la sua nota attenzione nei confronti delle tematiche gender). Attraverso l’interpellazione, l’altro da noi (il simbolico) ci invade, ed al soggetto non resta che rispondere con l’attaccamento appassionato, che è una forma di assoggettamento volontario all’ordine; una risposta alla sua chiamata. L’universale butleriano è quindi lontano dalla volontà di potenza del soggetto e teorizza la concretezza del riconoscimento, la piena consapevolezza del limite kantiano. A questo punto, la domanda sorge spontanea: se l’uomo è sempre implicato nella realtà sistemica, nel dominio dell’Altro, quali spazi rimangono alla dis-identificazione che il soggetto opera tentando di staccarsi dall’ordine simbolico? La risposta di Butler è chiara: la tensione che scombussola è quella tra modelli sociali strutturati ed il proprio sé. La sovversione è il frutto della ripetizione parodistica dell’identificazione con la norma assoggettante, della parola egemonica che diventa universale (si pensi all’universale soggettivo gramsciano depurato dal rapporto struttura/sovrastruttura), ma proprio perché parziale e concreta lascia sempre uno scarto da politicizzare per riformare il sistema. C’è sempre un processo di traduzione attraverso il quale, ciò che all’interno di una universalità era ripudiato viene riammesso all’interno dell’ordine mediante un processo di iscrizione. Su questo punto si concentra la critica di Žižek, il quale sostiene che non è la dis-identificazione ad indebolire le interpellazioni ideologiche, anzi è proprio ciò che le fortifica permettendo al sistema di presentare le varie identificazioni come altro da sé. Attraverso la dis-identificazione il sistema cela l’esclusione che lo sormonta e su cui si regge, un concetto che assomiglia molto a quello di ideologia (cfr. Dardot, Laval 2013). Ma il decostruzionismo butleriano, a differenza di quello laclausiano, trova un punto di approdo al non ulteriormente decostruibile in una forma di naturalismo rinvenibile nei concetti di “umano” e di “vivibilità”, e si incontra con la dialettica hegeliana all’interno della quale la trasformazione del negativo diviene universale concreto, mentre Laclau rifiuta Hegel nel cui sistema filosofico scorge il vizio di panlogismo (ecco il motivo per il quale anche Butler condivide, per Laclau, l’accusa di formalismo kantiano). Le soggettivazioni, per quanto fallimentari, sono comprese nell’assoluto, così come vi tendono anche le antitesi concrete. Il decostruzionismo butleriano non fluttua nel vuoto linguistico, come quello di Laclau, ma trova un cardine nei corpi segnati da attaccamento appassionato e dal desiderio. Lo “star dentro” all’ordine simbolico di Butler non è affatto passivo ma abilitante, dialettico e storico. L’immaginario è quindi una trappola che rende possibile la resistenza, l’antagonismo, dei soggetti esiliati.
Tutti e tre condividono la non saturabilità oggettiva del soggetto che riattiva l’antagonismo, una soglia lacaniana quasi trascendentale che rappresenta la sutura impossibile tra significante e significato e che funge da leva per una resistenza dissolvente-antagonistica, ma si dividono sul livello su cui condurre la lotta: Žižek pensa ad un universale sistemico che funga da riferimento ultimo, gli altri due leggono l’universalità sempre come continua interazione tra particolarità. Dalla prospettiva essenzialista di Žižek, in merito alla distinzione tra contenuto ontico e ruolo ontologico, ed alle trasformazioni della classe sociale alla luce degli stravolgimenti prodotti dalla rivoluzione post-fordista (cfr. Boyer 2007), ci si può rendere conto che anche se la classe si esaurisse totalmente come contenuto ontico specifico, rimarrebbe necessaria la riformulazione del suo ruolo ontologico. Ciò in virtù del fatto che il vuoto potrà certamente essere colmato da destra o dalle forze neoliberiste, ma ciò sarebbe un atto di distorsione della reale composizione degli interessi sociali. Sarebbe un caso, l’ennesimo, di “rivoluzione passiva”, per dirla con il dizionario gramsciano (cfr. Liguori, Voza 2009).
Per Laclau, invece, è tutto comprensibile nei termini dell’articolazione egemonica, che rappresenta l’unica forma politica possibile, e il soggetto, essendo sempre “soggettivato”, non potrà mai accedere alla verità del Reale, sempre condannato alla catena dei significanti vuoti egemonici. Egli ammette di aver espunto dal suo pensiero ogni essenzialismo presente in Gramsci (secondo il quale ogni concezione del mondo, in origine, è determinata da una realtà superficiale, e ciò genera una disunità tra fatto intellettuale e concreto operare. Per comprendere a fondo la realtà abbiamo bisogno di agire su essa e non solo in essa, ma la strada che la coscienza deve compiere per approdare a tale traguardo e liberarsi dall’occultamento non appare semplice; si veda Gramsci 1971), accettando soltanto la sovradeterminazione egemonica senza alcun richiamo ad una classe fondamentale per lo sviluppo storico della società. E non si tratta solo di riscrivere la natura di questa classe alla luce dei mutamenti complessivi della società capitalistica; si tratta di un vero e proprio rifiuto di qualsiasi entità sociale che abbia natura economica o sociale, facendo scivolare la dialettica hegeliana su un piano complessivamente più basso, quello dei fenomeni sociali, rifiutando di applicarla al piano complessivo della storia che finisce per rimanere piatto, sempre identico a se stesso, noumenico. È questa la motivazione per cui viene accusato, dai suoi critici, di compiere il tipico errore del formalismo kantiano (cfr. Zanardo 1974).


La questione politica

L’impegno teorico di Laclau scaturisce, certamente, anche dalla necessità di rispondere ad alcune questioni di ordine politico: come si costruisce un nuovo soggetto di sinistra? È contingente o universale? Per pensare ad esso bisogna utilizzare categorie formali o sostanziali/essenzialistiche? E soprattutto: quale grado di importanza bisogna dare a queste fratture? Sono tutte uguali o quella di classe, essendo preminente, va posta su un piano superiore rispetto alle altre così da costituire sempre la base di partenza per raggiungere la frattura principale su cui si fonda la conflittualità sociale?
La traducibilità politica dei soggetti sociali nel post-fordismo rappresenta un problema ancora da scandagliare filosoficamente (cfr. Galli 2013). L’anti-essenzialismo di Laclau nega l'esistenza di una società determinata su cui, pure, le costruzioni sociali si basano. Per lui la domanda diventa: il populismo può essere uno strumento per imporre una nuova egemonia socialista? È evidente che siamo in pieno post-strutturalismo, poiché ritorna centrale la questione del soggetto: ripensare un soggetto politico di sinistra, contro la frantumazione atomistica prodotta del sistema economico e contro la dissoluzione del soggetto nel sistema ideologico proposta dallo strutturalismo. La soluzione di Laclau e Mouffe prevedeva un superamento della prospettiva riduzionista del conflitto di classe come dato naturale e astorico, verso una proposta di democrazia radicale in cui le diverse lotte (di genere, ambientali, culturali e sociali) si unissero in modo paritario per la costruzione di una società plurale e progressista. Il popolo non è il palesamento sovrastrutturale di una logica strutturale più profonda, ma il terreno primario della costruzione di ogni soggettività politica.
La posizione teorica di Laclau non si limita quindi ad essere post-marxista, ma si colloca in una prospettiva anche post-socialista, in cui la critica del sistema economico dominante viene infatti declassata a battaglia fra le tante poiché l’obiettivo ultimo non è il suo superamento ma l’affermazione della democrazia radicale. Il popolo è il point de capiton (objet petit a) di Lacan (cfr. Nasio 1998, pp. 81-107), che Laclau intende come il punto in cui l’ontico e l’ontologico si fondono in un’unità contingente che costituisce un’universalità, e diventa il simbolo di una pienezza assente della società. Questa non rappresenta una soluzione di ripiego rispetto ad una pienezza ultima, per Laclau, ma l’unica possibile attraverso l’egemonia alla luce di una pienezza impossibile, ed è proprio seguendo questa strada, e portandone alle estreme conseguenze il ragionamento di fondo, che egli finisce per compiere l’errore opposto: la completa relativizzazione di ogni assunto sociale.
Negli anni ’70 anche i movimenti post-operaisti ribadirono la necessità, di fronte al mondo globalizzato, di “unire le lotte” per assemblare un nuovo antagonismo che non avesse più un carattere di classe. Ma è sulla natura del soggetto politico, oltre che sull’idea di ciò con cui la sinistra dovrebbe coincidere, che il dibattito si concentra. In un certo tipo di analisi marxista del passato, e in particolare nella tradizione del marxismo italiano e della "filosofia della prassi" (cfr. Gramsci 1975), la discussione del problema filosofico si convertiva, per il modo stesso in cui era congegnata, in analisi e strategia politica. In Gramsci, l'analisi del problema del soggetto e della natura della modernità metteva capo all'identificazione di un soggetto storicamente determinato (o di un insieme di soggetti da costruire egemonicamente) che in un qualche modo è incaricato di risolvere storicamente il problema (l'unificazione del genere umano, ecc.). Tale approccio faceva da apripista ad uno stile di analisi nel quale si tendeva, appunto, all’unione di teoria e prassi (cfr. Gramsci 1975). Filosofia e politica erano inestricabilmente connesse e si tenevano di conserva nel progetto complessivo di conoscenza e mutamento dell’ordine sociale dato. Ebbene, quantomeno dagli anni Ottanta ad oggi, con la crisi del soggetto (il movimento operaio, il partito, ecc.) questo stile di analisi viene meno, riportando in un qualche modo a uno stile filosofico più "classico", se vogliamo metafisico. Non c'è più l'intellettuale collettivo che si incarica di contribuire alla soluzione pratica dei problemi teorici che vengono posti, ma si afferma nuovamente la figura dell'intellettuale-filosofo individuale che riflette sui problemi.
Inoltre il rifiuto totale dell’essenzialismo marxista, produce anche altri limiti di natura politica e sostanziali, oltre che formali. Se si segue la prospettiva laclausiana, quando il sistema assorbe domande popolari, oppure le crea, non compie un atto interpretabile con le categorie gramsciane di trasformismo o rivoluzione passiva. Ciò perché non v’è frattura normativa di riferimento, in ragione del fatto che tutto è compreso nel gioco della costruzione di catene equivalenziali che è scevra da ogni valutazione di carattere gnoseologico. L’universalità di Laclau è sempre contingenza, l’egemonia è sganciata da ogni riferimento socioeconomico. Portando agli estremi tale ragionamento, ci si rende conto che non esiste progetto egemonico più giusto rispetto ad un altro. Tutto dipende dalla capacità di assorbire domande inevase in catene equivalenziali, senza giudizi di valore su di esse. Il rischio è che il soggetto politico incaricato di attuare la riforma democratica in senso radicale sia sempre sfuggente, non caricato da alcun principio di ordine etico/politico né sorretto da analisi strutturale precedente all’atto progressista. La stessa democrazia radicale rischia di essere un progetto vuoto di significato e sempre ingabbiato in un contesto sistemico che l’estremo antiessenzialismo rischia di favorire. Ma anziché rinvenirvi elementi post-ideologici (cfr. Revelli 2014) e richiami antipolitici, Laclau sostiene che il “contagio populista” (lo “Zeitgeist” populista descritto dal politologo olandese Cas Mudde, 2004) segni l’avvento di un’epoca pienamente politica. Nel rapporto causa-effetto, Laclau vede chiaramente come la frammentazione sociale e la moltiplicazione delle domande sociali costituiscano la condizione strutturale del populismo, ma non vede il rovescio della medaglia, ossia come il populismo amplifichi tale frammentazione e la svuoti di significati sistemici, riducendola ad unità semplice discorsiva; retorica.
Un altro rischio soggiacente a tale prospettiva è quello di perdere di vista il nucleo, i reali rapporti di potere e di produzione che sussistono e persistono e quindi ricadere in un soggettivismo relativistico che rifiuta ogni analisi strutturale. Inoltre, svuotata da ogni contenuto ontico ed etico, la costruzione del Popolo come assembramento di domande eterogenee può apparire come un atto di pura ingegneria istituzionale. È l’errore opposto commesso da alcune forme di operaismo esasperato che prevedevano l’assoluta eliminazione del politico (i lavori di Toni Negri ne rappresentano un esempio emblematico), ma finisce col ricadere nello stesso fatidico cortocircuito: l’assolutizzazione dell’ordine esistente. Il problema filosofico che pone Laclau, rappresenta uno stimolo a fare i conti con un presente difficilmente ingabbiabile nelle categorie del passato, oltre che una critica alle concezioni ipersoggettivistiche ed un modo di fare i conti con un soggettivismo condiviso incentrato su modelli naturalistici de-soggettivizzanti di matrice deleuziano-spinoziana che stanno facendo presa in ampi settori della sinistra radicale. In questo senso le riflessioni di Ernesto Laclau sul populismo possono rappresentare uno spunto di riflessione utile per chiunque si interroghi sulle ragioni del disarmante sradicamento dalle classi popolari della sinistra italiana ed europea (cfr. Barba, Pivetti 2016), a patto che si analizzino attentamente pregi e difetti del suo elaborato pensiero.


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