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Il dissidio politico in Antigone.

VIVIANA SEGRETO
Articolo pubblicato nella sezione “Tra le righe”

La dicotomia che vivifica, per certi versi con violenza, l’Antigone sofoclea è quella tra polis ed oikos. La tensione irrisolta e non risolvibile tra i due poli inscena la tragedia che patiscono Antigone e Creonte.
La polis è logos, ordine legittimato dalla legge, Creonte ne è il signore, si staglia al contempo quale vigilante e dominatore di tale struttura ordinata, ma solo superficialmente lineare; essa contiene in sé la possibilità della propria destabilizzazione, proprio perché la sua anima più profonda non è logos, ma a-logos: oikos. L’oikos costituisce il cardine a partire dal quale è possibile ipotizzare e realizzare la polis, la sua radice interna e ineludibile, il principio generatore che mai soccombe e che sottrae la polis alla stasi uniforme. «Molteplice è la polis, non riducibile ad uno. […] La polis è molti […] perché agon drammatico tra la potenza di ciò che è logos e quella di ciò che non è logos, di ciò che è straniero al logos. Ma che il logos deve ospitare, pena il diventare echthroxénos, cadere nel peccato di hybris – dissolversi. Il logos dovrà perciò giungere a sapere che la città non può trascendere né il suo principio né la sua fine – che essa ha nascita e morte, radice e termine necessariamente terranei» (Cacciari 1997, p. 37). Più il logos è potente, maggiormente possiede la capacità di scorgere la pre-potenza della forza che ad esso si oppone; nulla può annichilirla, qualcosa può soltanto contraddirla.
Antigone e Creonte si situano dentro tale lotta, alla morte di Antigone corrisponde la disfatta di Creonte. Chi è Antigone? È una donna, quindi intrinsecamente ed essenzialmente “straniera” rispetto alla polis. Il suo essere straniera situa Antigone in una dimensione in cui coabitano l’a-logico e il pre-logico; rappresentando la prima accezione di senso essa è dislocata assolutamente fuori dall’ordine logico che regola la polis, tuttavia ne incarna al contempo la profonda radice pre-logica, senza la quale nessun potere costruito può legittimarsi e trovare una (presunta) stabilità.
La “contraddizione” tra pre-logico e logico inscena il tragico. Lo scontro tra Creonte e Antigone, dunque, riflette la necessità del logos di reprimere ogni elemento di distonia che potrebbe destabilizzarlo, localizzando tale minaccia specificamente nella sepoltura di un corpo. La corporeità, storicamente, a partire da Parmenide, più chiaramente da Platone, è stata pensata come altro negativo della facoltà razionale, non a quest’ultima subordinata, bensì da questa depotenziata. Affermare la potenza dell’“essere corpo” delinea la possibilità di scuotere l’“essere pensiero”.
Così, l’autorità del sovrano, che nega sepoltura al corpo del defunto, e l’atto della donna, che ne disconosce il potere per onorare il fratello, convergono nel corpo di Polinice, sospendendo all’interno della scena tragica la legittimità dell’azione politica classicamente riservata all’anima razionale, tratto caratterizzante della polis. «Sembra così che la centralità del corpo nel disegno dell’Antigone, proprio per la sua eccedenza di senso rispetto alla tradizione, voglia orientare sul suo asse l’intera dinamica del testo […]. C’è nell’opposto orientarsi di Antigone e Creonte una medesima e quasi ossessiva considerazione del corpo di Polinice, che l’alludente silenzio sull’anima riesce a enfatizzare in assoluta prospettiva. È soprattutto a partire da questa centralità corporea, da ambedue strettamente osservata e, per così dire, esaltata nell’anomalia di una psyché assente, che lo sguardo dei contendenti può davvero tradursi nell’inconciliabilità delle due opposte visioni che Antigone e Creonte, tragicamente, inscenano» (Cavarero 1995, pp. 29-30).
Il corpo, pertanto, soppianta l’anima nell’orientare l’agire politico, e al contempo ne produce uno “impolitico”; il gesto di Antigone, nel presupporre la legge che sfida, si pone contro di essa sottraendovisi, situandosi in un luogo in cui la consanguineità è più forte dell’autorità, poiché è il legame di sangue ciò a cui Antigone si piega. Soltanto a un essere femminile è concesso di sostare ai bordi della legge e scegliere di restarne estranea, aggrappata a quel corpo che la definisce “apolis”, e che occupa uno spazio “pre-logico”, che lo stesso sovrano è obbligato a riconoscere, affinché la sua autorità venga confermata; per cui Creonte è costretto «a guardare al corpo stesso come al protagonista dell’agire e perciò ad attribuirgli quelle qualità politiche che anche il cadavere, in quanto pur sempre corpo individuale, conserva. Il nemico nel fatto e nel concetto appare nient’altro che puro corpo» (Ivi, p. 56). «La donna [invece] è la custode del sangue» legata “dialetticamente” a colui la cui coscienza universale nutre sotterraneamente, può affermare il suo essere femminile unicamente «[riponendo] il morto nel ventre della terra, ridandogli la vita in eterno. Infatti l’esangue è la mediazione che lei conosce nel suo essere, passaggio da ciò che è più sepolto e singolare nel vivente, a ciò che è più generale, all’essenza di un esser-là che ha rinunciato ad ogni sé qui» (Irigaray 1993, p. 209).
L’Antigone hegeliana suggerisce interessanti spunti di riflessione nel momento in cui ne tematizza l’agire come un uniformarsi a quella configurazione “naturale” che assume la legge all’interno dello spirito etico; soltanto una donna può onorare i defunti, a lei è affidato il compito di custode del sangue. Nel contesto hegeliano, l’affermazione della legge “femminile”, “divina”, costituisce il momento etico della famiglia, ponendosi come alter dello stato, quindi della legge pubblica, umana.
La propria condizione di uomo conseguentemente impone al fratello di uscire dalla famiglia, dalla “immediatezza” della legge divina per realizzarsi nella sfera umana, poiché egli «è il lato secondo il quale lo spirito della famiglia diventa individualità che si svolge verso altro e passa nella coscienza della universalità. Il fratello abbandona quella eticità della famiglia che è immediata ed elementare, e perciò propriamente negativa, per conquistare e produrre l’eticità effettuale consapevole di se stessa. Dalla legge divina, nella cui sfera viveva, egli passa alla umana, ma la sorella diviene […] la direttrice della casa e la conservatrice della legge divina» (Hegel 1974, v. II, p. 18); proprio per realizzare compiutamente il suo compito quest’ultima, dunque, è necessitata a compiere quel gesto che fa da perno all’intera azione tragica.
La tracotanza dell’atto di Antigone risulta così sfumata dal suo essere iscritta all’interno di quella sfera etica che le conferisce legittimità. Antigone si ribella o è strumento singolare della legge universale? (Pontara 2011, pp. 9-42). Una lettura ce la presenta «come un individuo sui generis, che assume come compito del proprio agire unicamente l’universale, una legge coincidente con la dimensione essenziale della famiglia e dei legami di sangue. Antigone è dunque una individualità pienamente coincidente con l’universale, un semplice mezzo attraverso il quale la legge etica trova realizzazione. Aderire ai legami di sangue, assumersi il dovere di dare sepoltura al fratello non è una sua scelta, ma dipende unicamente dalla dimensione immediatamente naturale del suo essere donna» (Vinci 2001, p. 35).
Allora, che cosa connota la tragicità del suo agire? Contro che cosa si infrange il suo atto? Il conflitto contro la legge di Creonte attesta che «la legge a lei palese è nell’essenza congiunta con la legge opposta; l’essenza è l’unità di entrambe le leggi, ma l’operazione ha realizzato solo l’una di contro all’altra. Ma essendo essenzialmente congiunte, il compimento dell’una evoca l’altra, la evoca come un’essenza violata e ora nemica gridante vendetta» (Hegel 1974, p. 28). La scissione della complementarità delle due leggi, del loro costituire unitamente la sfera etica, segna l’esplodere del tragico che, nel porre Antigone e Creonte una di fronte all’altro, li oppone come negativi di un positivo che non riescono a scorgere, e che, inscenando l’affermazione dell’essere singolare, destabilizza l’equilibrio armonico della polis.
Verso questa direzione vale la pena tentare un ulteriore approfondimento che apra uno spiraglio alla presa di coscienza di un gesto che si manifesta in primis come scelta individuale. All’interno di quale registro è consentito rilevare la singolarità dell’atto di chi commette una “colpa” senza per questo travisare il rigido impianto hegeliano? L’assoluto ha necessità di storicizzarsi, di attraversare l’umano per poter compiere la riconciliazione ultima con se stesso; immerso in una condizione di instabilità e frammentarietà non può che frantumare la propria compiutezza, il “mondo etico” si scinde pertanto in legge umana e legge divina, storicamente corrispondenti l’una allo stato, l’altra alla famiglia, polis e oikos.
Si disegna così la scena di cui Antigone, Creonte e Polinice sono protagonisti; questi ultimi appartengono allo stesso mondo, quello dell’uomo-cittadino che trova la propria realizzazione abbandonando il focolare domestico, la legge divina “femminile”, per incarnare quella umana “maschile”; è proprio tale co-appartenenza a legittimare la condanna di Creonte e l’illiceità del gesto di Antigone. «L’atto di Antigone è il più sacro che una donna possa compiere. È anche un crimine. Ci sono infatti delle situazioni in cui lo stato non è pronto a rinunciare alla propria autorità sui morti» (Steiner 1990, p. 45). La sepoltura del corpo del defunto concentra la tensione oppositiva tra i due poli: alla necessità della donna di ricondurre all’oikos il fratello, si contrappone la necessità dell’uomo di far rispettare la legge sovrana; il negativo e il positivo della sostanza etica sono così posti uno di fronte all’altro, ma «la sostanza etica può essere afferrata solo dalla coscienza di sé; può diventare sostanza propria nella persona umana individuale» (Ivi, p. 41). Antigone, dunque, prima di rappresentare la notturna legge del focolare, è armata della forza di consanguineità, l’unicità del vincolo di sangue con Polinice muove la sua scelta, che si rivela tanto più “sua” se giustapposta alla non scelta della sorella Ismene, «la [cui] delicatezza verginale arretra dinanzi alla fine liberamente scelta» (Jaeger 2003, p. 488) dall’eroina sofoclea. La figura di Antigone quindi è essenzialmente tragica; non è piegata da un destino ineluttabile che vanificherebbe il sofferto epilogo del suo destino, ma converte lo strazio per la morte del fratello in affermazione della propria umanità di donna che, adempiendo al dovere di disporne le esequie, si offre consapevolmente alla condanna. Tale passaggio segna la modernità della tragedia sofoclea rispetto a quella eschilea, l’umanizzazione dei personaggi ne costituisce la cifra caratterizzante, per cui «soltanto nel dolore, anzi persino nell’annientamento totale della sua felicità terrena, il personaggio tragico in Sofocle si eleva a vera grandezza umana» (Ivi, p. 490).
La tragica umanità di Antigone dirompe nel momento in cui, situando sullo stesso piano i corpi dei due fratelli, rende giustizia all’insepolto in nome del legame di sangue. Il sangue, che definisce il femminile, altro non è che l’essenza stessa del corporeo, la sua linfa vitale, affermazione di materialità, quella materialità a cui, a partire dallo strappo platonico tra psychè e soma, è stato imposto il silenzio, e che trova nel cogito cartesiano la sua più evidente censura. La codificazione all’interno del sapere di un Io penso, individuo singolare che pensa l’universale attraverso la legittimazione della relazione soggetto-predicato da lui stesso istituita, fonda la scissione dell’elemento mentale da quello materiale (la stessa costituzione di un soggetto padrone dei suoi atti giustifica, storicamente, la mutazione del termine/concetto “anima” in quello moderno di “mente”). Un soggetto, pertanto, capace di mettere tutto in dubbio eccetto i suoi processi mentali, costruisce le sue certezze specchiandosi in un altro da sé a cui imprime il marchio di oggetto della propria rappresentazione, e individua, quindi, nel corpo femminile uno degli specchi attraverso cui elaborare la propria illusione di totalità; ecco che «interamente riflesso dallo specchio del corpo femminile, il soggetto pensante non vede più né il suo specchio, né che il suo pensiero, tutto il pensiero riposa su una finzione, quest’illusione di se stesso come totalità. […] Sogno solipsista che si gioca a spese del corpo della donna, della materia, e delle radici corporee dell’intelletto umano» (Braidotti 1994, p. 241).

Il gesto di Antigone, allora, si rivela un gesto tracotante perché mosso da un’ossessiva esigenza di custodire il corpo del fratello, rendendo così giustizia al vincolo di consanguineità, vincolo che la disloca al di fuori della polis. Ma tale legame le sarà fatale; il suo atto pubblico di sfida ne segna tragicamente il destino. Il momento cruciale di opposizione al potere politico consiste, secondo la lettura di Judith Butler, nel riconoscimento pubblico della colpa, in tal senso l’azione sovversiva di Antigone non è individuata nel rendere sepoltura alle spoglie di Polinice, bensì nell’atto illocutorio con cui si autoaccusa; asserire di fronte a Creonte la forza del suo gesto, converte quest’ultimo da privato in pubblico, situando Antigone ai bordi della polis, dalla cui legge, nello stesso istante, è bandita.
Lo slittamento al piano linguistico modifica i contorni della figura della donna che, nel momento in cui affida l’inevitabilità del gesto all’espressione verbale, lo iscrive all’interno del discorso logico tradizionale. Si pone, così, in posizione “chiasmatica” con Creonte; relazionandosi a lui parlando il suo stesso linguaggio, depotenzia, in parte, il suo essere femminile, ammantandosi, nella parola, di una mascolinità che non le appartiene e di cui non può appropriarsi: in quanto donna deve morire, la legge del potere non ammette un sovvertimento del ruolo definito dal genere. «Antigone [dunque] segna il fallimento illocutorio della parola di Creonte, e la sua contestazione assume la forma verbale di una riaffermazione di sovranità […]. Al pari di Creonte, Antigone vuole che il suo atto linguistico sia radicalmente e intelligibilmente pubblico quanto l’editto stesso. Sebbene la sua sfida sia stata udita, il prezzo del suo discorso è la morte. Il suo linguaggio non è quello di un’azione politica che possa sopravvivere» (Butler 2003, p. 21, p. 44). Per lei, cioè, non esiste alcuno spazio di azione politica, in quanto rappresenta il legame di sangue che Hegel vede separato dalla sfera pubblica dallo Stato; lo Stato è l’universale a cui la donna non ha accesso; anzi, più precisamente, l’ “elemento femminile”, espressione con cui Hegel nella Fenomenologia cancella il nome di Antigone, «corrompe l’universale». Pertanto, il fatto che Antigone si riconosca colpevole non è, secondo Hegel, un’ammissione di colpa; perché ciò avvenga è necessaria la mediazione dello Stato, della sfera etica, di cui Antigone non fa parte.
Significativamente alla donna sembra essere preclusa anche la possibilità di provare un sentimento di colpa, come, inevitabilmente, le è negato accesso al sistema linguistico logocentrico; in tal senso Butler, leggendo l’azione di Antigone come un’azione specificamente verbale, direi performativa, in quanto carica di senso soltanto nel momento in cui è “detta” dentro la struttura politica della polis, può sostenere che la donna, nel proferirla, in un certo senso cede al maschile, «la sua azione affiora proprio nel rifiuto di rispettare il suo [di Creonte] ordine, eppure il linguaggio di questo rifiuto assimila i termini stessi della sovranità che essa respinge. […] [La] confessione nel momento stesso in cui viene resa, impone paradossalmente un sacrificio dell’autonomia. Antigone afferma se stessa appropriandosi della voce dell’altro, colui al quale si contrappone» (Ivi, pp. 24-25). Colui al quale si contrappone è l’uomo, storicamente e teoreticamente definito, la donna è istituita come suo “altro necessario”; per cui la rivendicazione di forza di Antigone attraverso il linguaggio è destinata a fallire, perché la posizionerebbe accanto a Creonte, il quale è «disperato, senza dubbio, ma deciso ad avere tutto per sé il potere. Avendo portato alla totale distruzione la donna e il figlio, ascende però al trono, senza amore, conservando tra le sue mani lo scettro. Mortificato, nondimeno regola rigidamente le sue azioni. Inflessibile nel suo rigore. Implacabile nella sua ragione» (Irigaray 1993, p. 204). Alla donna tacitata, allora, non resta che «mettere ogni significato sottosopra […]. Scuoterlo radicalmente, riportandovi, reintroducendovi quelle convulsioni che il suo corpo patisce, impotente com’è a dire ciò che lo agita. Insistere inoltre e deliberatamente su quei vuoti del discorso che ricordano i luoghi della sua esclusione, spazi bianchi che con la loro silenziosa plasticità assicurano la coesione, l’articolazione e la coerente espansione delle forme stabilite» (Ivi, p. 137).
In che modo insinuarsi tra le pieghe del significato, divenendo sovrana dello spazio vuoto? Assumendo su di sé la cura del corpo del fratello; con un unico gesto manifesta il suo essere femminile, qualificando il proprio essere corporeo restituendo dignità all’essere corporeo altrui, erodendo così l’atavica scissione psychè/soma, e al contempo risponde con forza e singolarmente all’impeto del vincolo di consanguineità.


Bibliografia

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BUTLER J., La rivendicazione di Antigone, Bollati Boringhieri, Torino, 2003.
CACCIARI M., L’arcipelago, Adelphi, Milano, 1997.
CAVARERO A., Corpo in figure, Feltrinelli, Milano, 1995.
HEGEL G. F. W., Fenomenologia dello spirito, La Nuova Italia, Firenze, 1974.
IRIGARAY L., Etica della differenza sessuale, Feltrinelli, Milano, 1985.
EADEM, Speculum. L’altra donna, Feltrinelli, Milano, 1993.
JAEGER W., Paideia, Bompiani, Milano, 2003.
PONTARA G., Antigone o Creonte, Edizioni dell’Asino, Roma, 2011.
SOFOCLE, Antigone.
STEINER G., Le Antigoni, Garzanti, Milano, 1990.
VINCI P., L’Antigone di Hegel, in MONTANI P. (a cura di), Antigone e la filosofia, Donzelli, Roma, 2001.



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