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“Mais qu’est ce que nature?”:Blaise Pascal

ROBERTO GATTI
Articolo pubblicato nella sezione Il futuro della natura umana

1. Natura e non-natura

Ciò che sorprende in Pascal non è certo l’affermazione concernente l’esistenza di una natura dell’uomo, se con questo termine s’intende la natura edenica, cioè la vera natura. Dio ci ha creati, maschio e femmina, dotati dei caratteri essenziali che ci sono propri, ivi compresa la piena conoscenza di Dio, l’immortalità, l’assenza del dolore e dell’infelicità. Il punto è che questa natura l’abbiamo perduta a seguito del peccato originale. E’ qui, semmai, che l’accento pascaliano cade con una forza che non sarebbe esagerato definire inusitata. Non sull’idea, in sé ovvia in ogni versione del cristianesimo, della caduta di Adamo ed Eva successiva alla trasgressione della volontà divina, ma sulla radicalità che contraddistingue le conseguenze della cacciata dal paradiso terrestre per il destino dell’umanità. Non può lasciare indifferenti la circostanza che, pur dando largo spazio alla lettura allegorica e figurativa del Vecchio Testamento, Pascal in tal caso non le concede nulla. Sulla caduta non sono possibili né interpretazioni né esercizi metaforici. L’atto è quello che ci tramandano le Scritture nella sua terribile realtà e malinconica semplicità. E’ quella semplicità cui la ragione, con la sua vanità, oppone resistenza quando si tratta di dare fiducia alla narrazione biblica, concernente anche gli effetti che la Parola ci impone di credere siano derivati da quel gesto originario, che sta giù, remotissimo, nella vicenda umana, ma che ciò nondimeno è storico, è quello che è stato, in ogni suo particolare. E poi, ragione o non ragione, chi non si sente spontaneamente incline a rifiutare come immorale follia il dovere di credere -come invece il “cristiano perfetto” deve credere- che da quell’atto sia discesa una corruzione della natura che l’ha portata a degenerare fino a non farla più neppure essere tale, ma solo “abitudine” e un perenne fluire senza forma, un disordine fatto di mali, sofferenze, dolori, mortalità, che ogni essere umano riceve in eredità di generazione in generazione?
Eppure, ammonisce Pascal, qui sta il nodo di tutto. Infatti, come comprendere un essere che ha in sé elementi evidenti di “miseria” che l’avviliscono e, contemporaneamente, elementi di “grandezza” che portano questo stesso essere a compiere atti, a formulare pensieri, a provare sentimenti che conducono tanto più in alto di lui, anzi che con la sua indigente natura appaiono incompatibili? Questa dialettica di miseria e grandezza ci dice dell’appartenenza degli esseri umani a un regno che non è più il loro. Ma che loro avrebbe potuto continuare a essere se l’abuso della libertà da parte dei progenitori non li avesse precipitati nell’abisso. Dall’abisso riemergono, a tratti, ma solo attraverso il “desiderio”, cioè l’aspirazione confusa diretta a qualcosa che li trascende e che non arriva mai a tradursi in realtà: “Noi desideriamo la verità e non troviamo in noi che incertezza […]. Questo desiderio ci è stato lasciato […] per farci capire da dove siamo caduti” (Pensées, fr. 270).
Il fatto è che la dinamica desiderante non si lascia spiegare da sola: da dove mai deriverebbe? Ha un senso solo se riusciamo a capire che in questo desiderare c’è una sorta di filo che continua a tirarci verso un altrove, senza che noi riusciamo però a vederne il capo. Sentiamo di essere come dei re spodestati, perché la regalità era il nostro stato: la consapevolezza, per quanto confusa, della nostra “miseria” attuale rivela la nostra “grandezza”, come avviene appunto per un monarca che ha perso il suo regno, il suo luogo proprio (Pensées, fr. 268).
Una sola cosa gli esseri umani non hanno perso con la caduta: l’amore infinito che li legava nell’Eden all’Infinito Amore da cui provengono. Ma questo amore non ha più, nel mondo, alcun oggetto al quale attaccarsi e, di conseguenza, si perde nei beni finiti di quaggiù (cfr. Pensées, fr. 370). E si perde vuol dire non solamente che vaga senza mèta, ma che ama questi beni insignificanti con tutta la forza che è insita nell’amore originario. E così l’amore finisce fuori bersaglio e si condanna a inseguire gli oggetti della concupiscenza uno dietro l’altro, quasi che l’accumularli potesse equivalere a soddisfare quel desiderio infinito che lo abita: “Dopo che [l’uomo] ha perduto il suo vero bene, tutto gli pare tale indistintamente” (Pensées, fr. 370). Come se la quantità potesse surrogare la qualità delle cose amate: “questo abisso infinito può essere riempito solo da un oggetto infinito […], che è Dio” (Pensées, fr. 370).
La ragione può opporsi come e quanto vuole a tale resoconto della condizione umana, ma -se lo fa- deve spiegarci allora come altrimenti si può render conto della realtà fondamentale degli eredi d’Adamo, cioè della tensione che li attraversa continuamente tra ciò che appartiene alla miseria e ciò che appartiene alla grandezza. Infatti, nessuna spiegazione psicologica e nessuna delucidazione antropologica arrivano al fondo di questa dialettica. Ci dicono, al massimo, come si manifesta, ce ne illustrano i modi e le forme. Ma devono tacere per forza sul perché. E non è vero che tentare la via del perché sia ambizione e illusione -come dirà Voltaire e con lui gran parte dell’Illuminismo. Non è vero perché un testo ci è stato dato e ci offre una chiave. Di fronte a questo testo il cristiano non chiede per nulla ai non credenti che rinuncino alla loro ragione; domanda qualcosa di molto diverso, vale e a dire la cognizione del limite che la caratterizza. La scienza ha insegnato a Pascal che il punto saliente del conoscere coincide con la capacità di arrestarsi là dove lo scienziato comprende di non poter arrivare. Si può ben accettare il principio secondo il quale non siamo tenuti ad accogliere enunciati che contraddicono la ragione, ma questo atteggiamento è ben diverso da quello che consiste nel fermarsi dove non c’è aporia, ma unicamente qualcosa che della ragione oltrepassa le capacità (in questo caso, la strada da Pascal a Locke è decisamente breve). E nel peccato originale non c’è contraddizione alcuna; c’è solo un mistero -quello, già mirabilmente messo a fuoco da Agostino, della libertà che nega se stessa rendendosi schiava delle passioni. “Senza questo mistero, il più incomprensibile di tutti, noi siamo incomprensibili a noi stessi” (Pensées, fr. 438). Il metodo di Pascal è chiaro: non parte, come primo passo, dal dogma della caduta per spiegare la condizione umana, ma muove dalla situazione attuale dell’uomo nel mondo per mostrare la ragionevolezza di prestar fede alla narrazione biblica del peccato originale. Da qui, poi, è possibile aprire un orizzonte di comprensione della condizione che viviamo.
Diciamolo pure: le interpretazioni troppo ripetute che sono state offerte, ache autorevolmente, da molti autori filosofi o no, a forza di essere passivamente riproposte, diventano dogmatiche e noiose. Non dovrebbe essere così. E allora va precisato, pur in rapida sintesi, che la posizione pascaliana non è fideistica, non è cioè quell’atteggiamento che non vuol saperne di motivazioni, ragioni, prove, quando si parla di Dio e del rapporto dell’uomo con Lui. E’, piuttosto, l’opposto di un razionalismo ottuso che accetta esclusivamente i suoi mezzi e le sue misure per arrivare alla verità. E non è neppure, dal punto di vista dell’apologia pascaliana, il caso della fede che corre in soccorso della ragione. Qui Tommaso e quanti si muovono sulla sua traccia non c’entrano. La riflessione di Pascal è, difatti, tutta interna alla razionalità moderna. E al razionalismo moderno -sovente diretto, passando per il deismo, verso l’ateismo, con le sue certezze basate su una scienza tanto giovane quanto orgogliosamente intraprendente- egli si limita a rivolgere l’invito di pensare il limite. Non si precipita a parlare, agli indifferenti e agli atei, della trascendenza e neppure del benefico soccorso della Grazia. Li rinvia, per così, dire, a loro stessi e a considerare senza pregiudizi ciò che sta al di là del limite; insomma, li provoca a leggere le tracce di una realtà che non si lascia decrittare Pensées,, ma che ciò nondimeno ci interroga. Gli propone un metodo che è stato giustamente definito dell’immanenza: parte dai fatti, dai fenomeni, dagli eventi, dai comportamenti di cui siamo spettatori e protagonisti qui, nel nostro mondo. Il passo della fede verrà o non verrà: l’apologia ha fatto quel che doveva, ha cioè istillato, con raffinata leggerezza, il senso del finito. Ha instillato, dunque, il dubbio. Un dubbio ben diverso da quello cartesiano: non apre all’evidenza e alla certezza, ma incalza la raison per farle scoprire quanto la sovrasta e richiede quindi umiltà, modestia, misura. Il senso del finito schiude, poco a poco, alla percezione dell’Infinito, che alla fine del percorso apologetico apparirà come ciò che, solo, consente di pensare il finito come tale.
Emergono l’efficacia e, allo stesso tempo, i confini dell’apologia: può accompagnare i non credenti e gli indifferenti fin dove si instaura la dialettica tra libertà e Grazia, almeno per quanti vorranno accettare, ragionevolmente, di camminare per questa via. E qui si deve arrestare. Se la Grazia facesse tutto, l’apologia sarebbe inutile, se bastasse l’apologia rischieremmo il pelagianismo, come quei gesuiti troppo fiduciosi nel compromesso facile tra ragione e fede, tra Dio e mondo.
E lo stesso vale per la “scommessa”: è una raffinata provocazione rivolta alla ragionevolezza; non si scommette sul nulla come se si stesse giocando una partita a dadi, ma si è chiamati a ponderare i pro e i contro in relazione all’esistenza di Dio. Serve innanzitutto a intraprendere una via verso di Lui. Non è una prova che si aggiunge a quelle tradizionali, verso le quali Pascal non nutre alcun apprezzamento (cfr. Pensées, fr. 5); è piuttosto la proposta di un atteggiamento esistenziale che non escluda a priori, dogmaticamente, l’esistenza di Dio. Quello che verrà dopo sarà in mano alla Grazia e all’insondabile relazione tra essa e la libertà del singolo soggetto umano. E l’affidamento umile alla Grazia, insieme alla risposta del Signore, sono tutto meno che una scommessa, che c’è già stata e che ha riguardato la partenza per il viaggio, non il suo punto di arrivo.


2. Natura e giustizia

Molto, troppo fiduciosi nella sostanziale integrità della ragione e della natura umana sono anche i gesuiti, che -con un’interpretazione decisamente disinvolta di Tommaso- ci assicurano, quanto all’uno e all’altra, che sono sostanzialmente in grado, pur dopo il peccato originale, di conservare e fra fruttare le loro migliori potenzialità. Convinto di dover fare i conti con una forma di neo-pelagianesimo, Pascal non risponde solo e soprattutto con gli argomenti di Agostino, ma in parte con la lezione appresa dal pirronismo e in parte con il bon sens imparato da Descartes.
I pirroniani -dei quali Montaigne è per Pascal il modello- insegnano ciò che, in verità, il “cristiano perfetto” sa già perché l’ha conosciuto dalle Scritture, cioè per vie ben diverse da quelle della erudizione storica. Quindi, più che altro, sono chiamati a confermare -con i loro innumerevoli e non di rado soffocanti rimandi all’esperienza, ai libri, ai detti, alle massime- la realtà di fatto dei comportamenti umani. Anche se non sempre arrivano a vedere le cause, colgono bene l’assenza di una “natura” nell’uomo; e ben perciò che il “pirronismo serve alla religione” (Pensées, fr. 387). Solo che, appunto, quest’assenza più che altro la descrivono per i loro fini di critica alla tradizione. E ci ripetono i mille motivi che, in un confuso disordine, muovono gli esseri umani, il loro perenne oscillare tra le passioni, il loro farsi trascinare dai bisogni più disparati, insomma la loro mancanza di unità, di coerenza, di un’identità universale che li definisca al di là del fluttuare continuo delle abitudini, dei costumi, delle usanze, delle mode. Secondo loro, solo il “saggio” può sfuggire a questa condizione, in quanto non si lascia influenzare dalle opinioni del popolo e neppure da quelle dei falsi sapienti.
Pascal segue i pirroniani o, meglio li usa, per mettere in evidenza una realtà molto vicina a quella da loro delineata, anche se lo fa in una forma e con una capacità di penetrazione psicologica che non sopportano ovviamente paragoni con la letteratura del pirronismo. Abbiamo altresì visto che il defluire della natura in “costume” rinvia, nei Pensieri, non al piano storico e/o naturale, ma a quello soprannaturale: la natura umana è divenuta “abitudine”, adattamento alle circostanze, movimento senza termine perché ha smarrito il suo fondamento e il suo fine. Il contrasto con la linea tomista, in parte continuata nella neo-scolastica, è netto: la natura è incurvata dal peso della concupiscenza che distorce la volontà e ne fa, se non interviene la grazia efficace, una volontà per il male. Dio è nascosto: lo è in qualche modo anche prima del peccato molto più gravemente, in ragione dell’infinita differenza ontologica rispetto alla creatura, e lo è, dopo il peccato a causa del tradimento operato dal primo maschio e dalla prima femmina. Nascondimento di Dio significa anche, in questa seconda prospettiva, stravolgimento del mondo fisico e occultamento della natura umana. Non c’è solo il fatto che l’uomo non ha più una natura perché la sua unica e vera natura è stata degradata nel momento della caduta; ma c’è di mezzo anche il fatto ulteriore che l’uomo non è più una natura né ha coscienza di dover agire secondo una natura: “Non c’è nulla che non si possa rendere naturale; non c’è niente di naturale che non si possa perdere” (Pensées, fr. 121). Sul piano etico, la ricaduta del peccato originale è questo spaesamento, questo girovagare senza mèta, questo movimento che torma sempre su se stesso (cfr. Pensées, fr. 198-199). Quindi Pascal è lontano da Tommaso e da buona parte dei gesuiti perché mostra l’inconsistenza della natura dopo il primo peccato: “J’ai grande peur que cette nature ne soit elle-même qu’une première coutume, comme la coutume est une seconde nature” (Pensées, fr. 120). Ma è lontano anche dal pirronismo: innanzitutto perché ammette, dal punto di vista gnoseologico, le verità del “cuore” come fondamento di ogni conoscenza (spazio, tempo, movimento, numero: Pensées, fr. 479), fondamento -si badi, però- evidente per sé ma non passibile di dimostrazione (cfr. ivi). E poi anche in virtù della componente escatologica. E’ ben vero che, in questo mondo affetto dal peccato, la natura è divenuta abitudine -quindi non/natura. Ciò non toglie che la via della salvezza -che va chiaramente intesa anche come il ritrovamento della vera natura nella comunità dei salvati- è aperta a quanti, con l’ineludibile e misterioso ausilio della Grazia, conducono l’esistenza dell’autentico cristiano, tutta improntata all’attesa della “Gerusalemme celeste”.
Il problema che si apre a questo punto è giudicare se la posizione pascaliana nei confronti dell’idea di natura umana porti, come sovente è stato sostenuto, a un realismo antropologico radicalizzato che rischia di sfociare in un vero e proprio nichilismo. E qui soccorre l’apporto cartesiano cui ho accennato precedentemente: il secondo, si ricorderà, dopo quello pirroniano.
Per Descartes, la “morale par provision”, come ci viene detto nel Discorso sul metodo, consiste in quell’insieme di regole di condotta indispensabili per tutto il tempo necessario alla definizione dell’etica more geometrico demonstrata, cioè dell’etica dotata di quella chiarezza ed evidenza difficili ma forse non impossibili da raggiungere. Al centro di questa morale provvisoria sta il bon sens, che consiglia di conformarsi ai costumi, alle usanze, alle tradizioni del paese in cui viviamo, visto che innovare senza avere in mano gli strumenti adatti è non solo pericoloso ma insensato. Nelle scienze è tutto il contrario: in questo caso bisogna fin dall’inizio far tabula rasa delle opinioni tramandate e intraprendere a ricostruire tutto da capo. Ma la prassi umana risulta terribilmente complicata, affidata com’è alla libertà, alla contingenza delle situazioni sempre diverse, alla fortuna. E allora -in attesa del compasso- val meglio usare, per esempio, il bastone di quanti hanno tracciato i sentieri di montagna senza avere fin dall’inizio un piano preciso in mente, comportandosi piuttosto secondo necessità e prudenza. O di quanti hanno edificato i palazzi e le case che ora vediamo costituire una città; anche in tal caso lo hanno fatto senza un disegno, hanno operato per approssimazione, ognuno aggiungendo un muro, una facciata, un piano. Ne è uscito il disordine? No. Piuttosto ne è nato un ordine che è sì, in buona parte, opera del caso e delle occasioni contingenti, quindi in buona misura non intenzionale. Ma comunque è un ordine. Ed esso ha avuto e ha una sua durata, una sua relativa stabilità; e ha anche, perché no?, i suoi vantaggi, visto che funziona, promuove le sue attività, distribuisce i compiti di ognuno, rende possibile l’esistenza comune. A tutto questo non ha contribuito la Ragione, con la sua folgorante luminosità, ma la più modesta ragionevolezza, che è sforzo quotidiano di amministrare e di gestire la disperante variabilità degli artifici umani. Pian piano, il definitivo sfuma all’orizzonte e il provvisorio diventa, in vece sua, il definitivo vero e proprio, quello che di fatto conta.
Il confronto con Descartes si precisa: il provvisorio è, infatti, in Pascal, la dimora degli esseri umani dopo che sono stati destinati all’esilio dalla loro patria e condannati a vivere lontani da quella giustizia alla quale si sono sottratti. Non si profila nell’ambito di una riflessione gnoseologica come in Descartes, ma definisce una condizione ontologica, quella dell’uomo in un mondo sul quale incombono gli effetti del peccato originale. Quest’atto non ha certo distrutto (come avrebbe mai potuto?) il fondamento del Giusto, la legge naturale, le cui regole sono per sempre consegnate al Decalogo. Ma ha guastato a tal punto la ragione da renderla incapace di operare la mediazione tra i princìpi generali della legge naturale e la prassi storica: “Ci sono senza dubbio leggi naturali, ma questa bella ragione corrotta ha corrotto tutto” (Pensées, fr. 230).
Cosa rappresentava, peraltro, nella tradizione, tale facoltà mediatrice se non la modalità per eccellenza in cui si manifestava l’essenziale legame tra legge eterna, legge naturale e legge positiva? Tommaso qui è un riferimento cruciale. Adottare la prospettiva pascaliana significa, quindi, sostenere che il peccato originale ha intaccato alla radice il fulcro su cui l’idea tomista del diritto naturale si regge: la nozione di partecipazione, che indica sia la comunicazione dell’uomo alla legge eterna, sia la capacità di operare sempre il collegamento tra diritto naturale e storia, tra universale e particolare. Pascal non nega l’esistenza della legge naturale, ma la capacità della ragione, di questa nostra ragione degenerata, di tradurla in diritto positivo partendo da una qualche proporzione tra (prima) natura e ragione (corrotta): “C’è così grande sproporzione tra la nostra giustizia e quella di Dio quanta ce n’è tra l’unità e l’infinito” (Pensées, fr.451) . Non è giuspositivista perché ammette la legge divina come fondamento della giustizia, ma non è neppure giusnaturalista, dal momento che intende il compito umano nel mondo come ricerca ragionevole di un giusto possibile, frutto del bon sens e non della recta ratio. Domina in lui la razionalità del verosimile, del probabile, che guarda all’esperienza, ai fenomeni, ai comportamenti concreti degli uomini, senza più la possibilità di riferirli a un fondamento di cui l’essere umano possa essere considerato partecipe, perché quella partecipazione l’ha infranta lui per primo abusando della sua libertà.
Com’è detto nei Tre discorsi sulla condizione dei Grandi, l’atteggiamento raisonnable ha per obiettivo di assicurare alla società la pace, la sicurezza, il godimento dei beni materiali, che devono essere distribuiti con magnanimità e benevolenza da governanti miti, guidati dalla consapevolezza che, anche se il popolo, nella sua ingenuità, li considera al di sopra dell’umanità e li venera come fossero veramente istituiti da Dio, in realtà non sono altro che amministratori di un’autorità nella cui attribuzione spesso conta più il caso che il merito o l’investitura divina. Meglio che i Grandi tacciano questo segreto del potere, forse. Ma non è questo il punto.
Il punto sta nella circostanza che, arrivati qui, bisogna prendere atto che la funzione decostruttiva del pirronismo è conclusa. A quest’altezza della riflessione pascaliana, dobbiamo fare i conti con la prospettiva di una teoria giuridico-politica che ritaglia il suo spazio fuori dalle coordinate del giusnaturalismo medievale così come da quello moderno (che su un’idea forte di “natura umana” ancora si basa, in Hobbes come in Pufendorf, Locke, Jurieu, Burlamaqui, Locke, e quanti altri autori si vogliano citare) senza concedere nulla di sostanziale al giuspositivismo, che già parzialmente in Hobbes si prepara. E’ vero che Pascal afferma con durezza che le leggi vanno obbedite in forza dell’autorità che le impone, insomma perché sono leggi (cfr. Pensées, fr. 235-236, 287, 307). Ma non è qui tutto Pascal, perché egli indica anche le condizioni che rendono l’autorità degna di essere esercitata e obbedita.
Nei Tre discorsi già citati, si ricorda ai Grandi che ci sono doveri da rispettare. Li abbiamo già nominati:
-la mitezza dell’autorità, che porta a non servirsi della “forza” e della “durezza” ma della benevolenza
-la soddisfazione dei desideri e dei bisogni dei più
-la cura per la durata di quel fragile edificio che è la società politica
-la pace (Tre Discorsi sulla condizione dei Grandi, specie il III) e la sicurezza contro il più grande mali, che è la guerra civile (cfr. Pensées, fr. 296).
Ironizza sulle fantasie, buone per un “ospedale di folli”, di Platone e Aristotele (Pensées, fr. 294). Ma l’ironia serve a far risaltare quanto sia difficile governare realmente -e non sui libri- questo ospedale, in cui si scontano gli effetti perversi della concupiscenza (con in testa l’amor proprio), ma in cui è anche possibile amministrare saggiamente, accortamente, prudentemente questa cupidigia portandola ad autodisciplinarsi, visto che non è impensabile arrivare a rendere evidenti, almeno agli individui più accorti e meno sprovveduti (che Pascal chiama “habiles”), quali guasti subentrerebbero se la cupidité fosse lasciata senza freno.
La proposta teorica di Pascal è mille miglia lontana da quella di Hobbes: l’accento cade, infatti, sul lento ma essenziale processo di autodisciplinamento dell’amor proprio raisonnable e molto meno sulla coercizione, che è l’unica strategia hobbesiana per ottenere l’ordine. Cade anche sulla suggestione esercitata dalle “grandezze d’istituzione”, cioè dagli apparati del potere, che poco a poco rafforzano l’ “immaginazione”, “questa superba potenza, che ha stabilito nell’uomo una seconda natura” e che è un ineludibile sostegno di ogni autorità (Pensées, fr. 104). Cade sull’educazione dei Grandi, che è lontana dagli spaecula principis medievali così come dalla loro inversione machiavelliana. Il senso complessivo è forse consegnato, meglio che a ogni altro passo pascaliano, alla ben nota parabola politica -contenuta nel primo dei Tre discorsi sulla condizione dei Grandi- dell’uomo che, naufragato in un’isola, viene scambiato, data la straordinaria somiglianza fisica, per il re che era da tempo misteriosamente scomparso. Il naufrago è, di conseguenza, elevato, in virtù di questo colossale equivoco, agli onori della carica che gli isolani credono gli competano. Da parte del naufrago promosso re, sarebbe sbagliato rifiutarli; e però è bene che li accetti senza rivelare la verità. Dobbiamo chiederci se siamo di fronte solo o soprattutto a un atto di dissimulazione in questo originario segreto del potere attraverso cui viene taciuto lo scandalo più grande per il razionalismo, cioè il ruolo del caso, veramente fondante in questa vicenda a mezzo tra realtà e finzione. Mi pare proprio di no. La parabola ci dice altro. Intanto dice che ogni monarca, ma in generale ogni uomo investito del potere, deve sapere che la leva del comando gli può venire -e sovente gli viene- da un qualsiasi accidente, da una coincidenza, da un concorso per nulla programmato di circostanze. E poi dice che tutte quelle cerimonie che lo fanno sembrare un dio coprono una realtà ben diversa: gli dei tra gli uomini non ci sono e nessun uomo deve sentirsi tale, in quanto è uguale agli altri nella sua indigenza, ma anche nelle sue possibilità in vista del bene fattibile. Certo, si tratta di un bene che non sarà il riflesso mondano del Bene Sommo, ma costituirà, più modestamente, lo sforzo di organizzare la vita comune (questo compito che ci può capitare addosso anche se non lo vogliamo e non l’avremmo mai pensato) come meglio si riesce a fare lavorando con il materiale che c’è e che è composto di esseri imperfetti, carichi di amor proprio, legati ai loro interessi personali. Ma sarebbe un errore dimenticare o non capire che questi esseri sono anche capaci -come l’esperienza documenta- di quel po’ di bon sens che aiuta a raddrizzare talvolta i legni più storti. Il regno del ragionevole è questo: capacità di trattare con i propri simili senza baldanza, talvolta con quel pò di astuzia che occorre, con lo sguardo di chi sa vedere le necessità dei suoi concittadini, con l’equilibrio caratteristico dell’“honnête homme”, il quale ha la preziosa qualità di conoscere molte cose senza essere specialista di nessuna e quindi di saper agire all’occorrenza senza pregiudizi e/o restrizioni mentali (Pensées, fr. 39-41). Il suo occhio sa abbracciare il tutto proprio perché non è l’erudito, il dotto, il saccente, ma la persona colta, che ha imparato ad ascoltare e a comprendere l’infinita differenza da cui è costituito il mondo umano (ivi). E, benché sappia fingere quando ce n’è bisogno, prende molto sul serio il suo ufficio; la finzione di essere il vero re non ha niente a che fare, in questo caso, con una tattica di conquista e conservazione del potere, ma è piuttosto una pedagogia politica finalizzata a non esporre alla luce del pubblico ciò che potrebbe minare il fragile consenso del popolo, che di simboli, di narrazioni, di immagini ha bisogno. Peraltro, sia chiaro che può fingere se vuole (“si vous voulez”); anche l’uso del segreto è lasciato alla prudente e saggia discrezione del governante, non è un imperativo e/o una regola fissa della politica. Poco, d’altronde, c’è di fisso in questo mondo in perenne movimento e al cospetto di esseri, come gli uomini, che sono anch’essi soggetti cangianti, mutevoli, privi di un’identità che sia al sicuro dalla generale oscillazione e che possa dominarla facendo perno su una natura delle cose, umane e non umane.
Dal punto di vista della filosofia politica, Pascal traccia un via alternativa tra il modello onto-teologico di provenienza aristotelica e tomista e il “modello giusnaturalista” (così Norberto Bobbio). Pensa la politica a partire da una concezione radicalizzata dell’abisso che la caduta ha scavato tra piano soprannaturale e piano storico. Liquida, di conseguenza, l’analogia entis che legava, in una tradizione entro la quale si situa anche Agostino, natura divina e natura umana. Non ne ricava però un pensiero atteggiato in senso anti-politico o apolitico. Traccia piuttosto le coordinate di una politica che ha il suo asse nella ragionevolezza come prudente, attenta e duttile condotta che dovrebbe guidare le scelte dei governanti muovendo non da premesse metafisiche (Aristotele->Tommaso->neo/scolastica) e/o da un resoconto fisso e astratto di natura umana (qual è quello tipico del diritto naturale moderno), ma dalla ricognizione dell’esperienza, espellendo ogni vanità circa i poteri della ragione. Detto molto in sintesi: si tratta di una posizione che, pur sviluppandosi nell’epoca della crisi dell’Umanesimo, non intende tagliare tutti i ponti con esso e che, per questo motivo, dialoga sì con Sesto Empirico e Charron, ma anche con Erasmo, Lipsio, Grozio, Mersenne, Descartes. L’insidia del nichilismo -cioè del pirronismo come negazione senza riserve della possibilità di una morale- viene esorcizzata dalla fiducia nella ragione che si piega umilmente sul mondo dei fenomeni e ricerca il bene possibile a partire dalla faiblesse della condizione umana e dalla sue contraddizioni, verso le quali non esercita tanto la censura, quanto il tentativo di comprensione in vista del loro unico e vero superamento attuabile, cioè quello che sarà operato nel giudizio finale. Il “pirronismo è il vero” (Pensées, fr. 384) in sede critica, ma non certo in sede ricostruttiva, sia che si tratti dell’affermazione della Verità religiosa, sia che venga in questione la ricerca di un bene praticabile tra i “fiumi di fuoco” (Pensées, fr. 696) del mondo com’è.
L’unica notazione che si può fare concludendo è che questa forma di pensiero -che ha tutti i caratteri di uno scetticismo politico non pirroniano e che caratterizza autori troppo poco studiati da questo punto di vista (a cominciare da Montaigne, passando per Charron e dando ciò che gli spetta al troppo trascurato La Mothe le Vayer)- ha avuto quasi sempre, salvo una ripresa in Francia nell’ultimo quindicennio, un’ attenzione molto frammentaria ed episodica. Ma qui il discorso si amplierebbe molto al di là di Pascal, che pure in questo contesto, a mio avviso, ha la sua collocazione dal punto di vista della filosofia politica in generale e -per quanto concerne il dossier di questo numero- anche da quello della contrastata vicenda del concetto di “natura umana”.


Riferimenti bibliografici

L’ed. delle Pensées è quella contenuta nelle Oeuvres complètes a cura di J. Chevalier, Gallimard, Paris 1954, da cui ho attinto anche per gli altri scritti di Pascal.
La citazione di Pierre Nicole è tratta da P. Nicole, De la charité et de l’amour propre, in Id., Essais de morale, Slatkine Reprints (réimpression dell’éd. Paris 1733-1771), Genève 1971, vol. I, t.III, pp. 131-140.



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