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Mobilitate viget. La crisi del concetto di natura umana in Montaigne

NICOLA PANICHI
Articolo pubblicato nella sezione Il futuro della natura umana
Je ne me suis pas attendu
d’attacher monstrueusement la queuë d’un philosophe
à la teste et au corps d’un homme perdu (III, 2, 816C)

Nature humaine?

Che cos’è natura umana negli Essais? È possibile darne una definizione risolutiva, permanente, definitiva? Nella sua prima occorrenza il lemma compare relativamente tardi, in una couche primitiva dell’Apologie de Raymond Sebond (Montaigne 1965, 1998, 2012: II, 12) e in un contesto peraltro già legato alla valorizzazione del concetto propositivo di diversité: «nature humaine» è un apax che nelle successive quattordici occorrenze si muterà morfologicamente nel perfetto chiasmo di «humaine nature», mantenendosi in questa forma sino al penultimo capitolo. Al lemmario bisogna aggiungere le sei occorrenze di humaine condition e una di condition humaine. Un numero, tutto sommato, esiguo. Ma come emergerà, andrà presto a sovrapporsi alla nozione di estre, non inteso come (essere) permanente e sostanziale, ma essere-in-movimento, soggetto a passaggi, declinazioni e vicissitudini – metamorfosi.
In prima approssimazione e, dunque, prima facie la natura umana viene presentata in una posizione mediana tra la bestia e Dio, entro le coordinate della tassonomia classica della gerarchia degli esseri. Ma non si tratta del punto di vista di Montaigne. Gli Essais si sforzeranno di provare che la bestia non è bestia (id est inferiore alla natura umana, come tradizionalmente era intesa), tra uomo e bestia c’è sostanziale parità – stessa razionalità, stessa immaginazione (il difetto in questo caso esisterebbe non nella qualità, ma nella quantità: gli uomini ne possiedono di più), stesse passioni, anzi superiorità di ‘sentimenti morali’ da parte degli animali – e illegittima gradazione nella scala naturae (Cfr. Panichi, 2011, pp. 117-128; i lavori di Gontier, 1998, 1999, 2011; e Plures 2005). Una delle argomentazioni forti fatte agire dal Bordolese è che si riscontra più distanza da un uomo all’altro che tra uomo e bestia, punto di osservazione che fornirà carne e sangue al titolo del capitolo quarantaduesimo del libro primo (De l’inegalité qui est entre nous) e che coinvolgerà non solo il piano sociologico ma quello ontologico.
La tesi corrosiva di Montaigne è che non esista alcuna differenza specifica tra uomo e animale. La natura è una moltiplicazione e vicissitudine di forme infinite, sconosciute all’uomo, ma non alla sua produttrice. Nel loro essere forme della natura, esse acquistano e mantengono pari dignità, compresi monstra e mirabilia.
A ben vedere, la radice della natura umana è la diversité e non la ressemblance: sul piano naturale/culturale diversità dei costumi, dell’ethos dei popoli, su quello ontologico natura umana e animale, in una sorta di deontologizzazione omologante: «J’ay veu autresfois parmy nous des hommes amenez par mer de lointain pays, desquels par ce que nous n’entendions aucunement le langage, et que leur façon, au demeurant, et leur contenance leurs vestemens estoient du tout esloignez des nostres, qui de nous ne les estimoit et sauvages et brutes? qui n’atribuoit à stupidité et à bestise de les voir muets, ignorans la langue Françoise, ignorans nos baisemains et nos inclinations serpentées, nostre port et nostre maintien, sur lequel, sans faillir, doit prendre son patron la nature humaine? Tout ce qui nous semble estrange, nous le condamnons, et ce que nous n’entendons pas: comme il nous advient au jugement que nous faisons des bestes» (II, 12, 467A).
Lo straniero e l’animale, l’animale e lo straniero (il monstrum per eccellenza, il selvaggio d’America). Come lo straniero deve essere considerato pienamente legittimato nella sua diversità che lo rende testimone della metamorfosi dell’umano (costumi, culture, la stessa etica individuale e collettiva…), così l’animale non viene fissato da Montaigne nel suo scarto ontologico come manifestazione opaca dell’essere, sua degradazione sino al non essere, ma una forma stessa dell’essere nella sua infinita moltiplicazione di forme. E non è un caso che il numero più elevato del lemma (humaine nature) compaia nell'Apologie, capitolo in cui Montaigne elabora le basi filosofiche del proprio eraclitismo, combinato con il materialismo di Lucrezio. «Or les traits de ma peinture ne forvoyent point, quoy qu’ils se changent et diversifient. Le monde n’est qu’une branloire perenne. Toutes choses y branlent sans cesse: la terre, les rochers du Caucase, les pyramides d’Aegypte, et du branle public et du leur. La constance mesme n’est autre chose qu’un branle plus languissant. Je ne puis asseurer mon object. Il va trouble et chancelant, d’une yvresse naturelle. Je le prens en ce point, comme il est, en l’instant que je m’amuse à luy. Je ne peints pas l’estre. Je peints le passage: non un passage d’aage en autre, ou, comme dict le peuple, de sept en sept ans, mais de jour en jour, de minute en minute. Il faut accommoder mon histoire à l’heure» (III, 2, 804-805B).
Dipingere il passaggio, non l’essere. Il passaggio è l’unico essere per noi, è declinazione e vicissitudine di forme. Non esiste alcun essere permanente, nessuna sostanza, che connoti la natura umana. Montaigne nega diritto di cittadinanza al sostanzialismo tradizionale (Cfr. Panichi 2007, ad vocem: «Nature» e «Diversité»): «Estre consiste en mouvement et action», preciserà in De l’Affection des Pères aux Enfans (II, 8, 386C). Per approssimazione e con l’esercizio del dubbio: l’unico modo per poter legittimamente conferire senso al concetto di «natura umana».


Inasinire o inumanire? Se sia più degno che un uomo si inasinisca o che un asino si inumanisca

Se il discorso montaignano si è ricentrato sulla decostruzione della mitologia della gerarchia apparente degli esseri – che il Bordolese prova a smontare a cominciare dalla inferiorità degli animali in rapporto alla natura umana –, la conclusione è la messa in crisi di un insensato antropocentrismo (e del suo corrispettivo spazio-temporale, l’eurocentrismo). La dignità della natura umana non è l’indegnità della bestia, anzi il suo contrario. Circe, la maga, mediatrice tra cielo e terra, Venere degli animali e della metamorfosi, metafora incarnata dell’eros e della vita, ha fatto capire agli uomini trasformati in animali che la condizione della bestia non è inferiore a quella umana. Nell’apologo plutarcheo, il porco di Circe non vuol ridiventare uomo: perché umanizzarsi dopo essersi in-bestialito e aver compreso che la condizione animale non è inferiore o peggiore a quella umana? Con lo stesso spirito l’asino di Bruno nella Cabala del cavallo pegaseo (L’asino cillenico) chiede a Micco se sia più degno che un uomo si inasinisca o che un asino si inumanisca (Bruno 2000).
In De la phisionomie si compie il passo decisivo: la sapienza umana «nostre sapience apreigne des bestes mesmes les plus utiles enseignemens aux plus grandes et necessaires parties de nostre vie: comme il nous faut vivre et mourir, mesnager nos biens, aymer et eslever nos enfans, entretenir justice, singulier tesmoignage de l’humaine maladie» (III, 12, 1049-1050B).
Nel suo cammino di decostruzione Montaigne demolisce anche la presunta superiorità umana in relazione al linguaggio. I muti possiedono e una grammatica dei segni per comunicare altrettanto significante del linguaggio fonico. Il corpo umano è comunque eloquente: mani, testa, sopracciglia, spalle gareggiano in varietà e capacità di modulazioni con la lingua (une variation et multiplication à l’envy de la langue): «Il n’est mouvement qui ne parle et un langage intelligible sans discipline et un langage publique: qui faict, voyant la varieté et usage distingué des autres, que cestuy cy doibt plus tost estre jugé le propre de l’humaine nature. Je laisse à part ce que particulierement la necessité en apprend soudain à ceux qui en ont besoing et les alphabets des doigts et grammaires en gestes, et les sciences qui ne s’exercent et expriment» (II, 12, 454C). Anche gli animali parlano, discorrono e comunicano tra di loro; sono gli uomini, decaduti, a non comprenderli più.
E Dio? Qui il discorso montaignano si mette definitivamente al riparo dall’argomentazione logica del genere prossimo e della differenza specifica, dalla logica deduttiva e dall’analogia; lo scetticismo del Bordolese si mette alla prova anche contro l’antropomorfismo. L’uomo, nella sua smania di rappresentarsi Dio e di provarne l’esistenza, lo ha umanizzato, lo ha reso suo compatriota, ha donato al donatore le sue prerogative in perfezione, ma pur sempre prerogative concepite da una misura umana. L’errore non risiede in questo depotenziamento inconsapevole del «sopra», ma nell’aver rappresentato il «sopra» con attributi che di fatto lo riportavano al «dentro», anche se alla sua sommità, di aver costruito una inconsapevole sommità ultima della stessa gerarchia umana ricomprendente anche la divinità «passata allo staccio», mentre doveva rimanere incomprensibile per sua stessa natura.
In tale capovolgimento prospettico (dopo aver innalzato l’uomo alla sommità della catena, riportare Dio, che ne è al di là, alla misura umana), l’uomo stesso verrà concepito e inteso come immagine del divino in terra e il sovrano, il soggetto politico per eccellenza, rappresentato trascendente e divinizzato, in-diato, con caratteristiche divine, gettando in tal modo le fondamenta per la concezione teologica del potere, la teologia politica. L’errore consiste nel voler misurare Dio con una misura umana, anche se coincidente con l’idea stessa della perfezione (ma la perfezione che cosa può avere di umano?): «ce qui commence à naistre ne parvient jamais jusqu’à la perfection d’estre» (Ibid., 602A).
L’idea stessa di misura è pericolosamente analogica. Dio deve restare inimmaginabile (l’unico modo per immaginarlo è immaginarlo inimmaginabile, preciserà l’Apologie) per la natura umana, anch’essa largamente insondabile nella sua propria misura, acqua che fugge dalle mani, come l’osservatore e l’osservato, il soggetto e l’oggetto, sul presupposto (Du repentir, III, 2) che il mondo sia una altalena perenne, in cui tutto si muove, la terra, le piramidi e le montagne del Caucaso, per l’oscillazione generale e la loro propria, oscillazione nell’oscillazione, movimento nel movimento, la stessa costanza è solo un movimento più lento.
Nell’Apologie l’eraclitismo raggiungerà il suo point d’honneur: «[A] Ainsin il ne se peut establir rien de certain de l’un à l’autre, et le jugeant et le jugé estans en continuelle mutation et branle. Nous n’avons aucune communication à l’estre, par ce que toute humaine nature est tousjours au milieu entre le naistre et le mourir, ne baillant de soy qu’une obscure apparence et ombre, et une incertaine et debile opinion. Et si, de fortune, vous fichez vostre pensée à vouloir prendre son estre, ce sera ne plus ne moins que qui voudroit empoigner l’eau: car tant plus il serrera et pressera ce qui de sa nature coule par tout, tant plus il perdra ce qu’il vouloit tenir et empoigner. Ainsin, estant toutes choses subjectes à passer d’un changement en autre, la raison, y cherchant une reelle subsistance, se trouve deceue, ne pouvant rien apprehender de subsistant et permanant, par ce que tout ou vient en estre et n’est pas encore du tout, ou commence à mourir avant qu’il soit nay» (II, 12, 601). Montaigne ne ricava un essai di histoire des sectes (di storia della filosofia): «Platon disoit que les corps n’avoient jamais existence, ouy bien naissance: [C] estimant qu’Homere eust faict l’ocean pere des Dieus, et Thetis la mere, pour nous montrer que toutes choses sont en fluxion, muance et variation perpetuelle: opinion commune à tous les Philosophes avant son temps, comme il dict, sauf le seul Parmenides, qui refusoit mouvement aux choses, de la force du quel il faict grand cas; [A] Pythagoras, que toute matiere est coulante et labile: les Stoiciens, qu’il n’y a point de temps present, et que ce que nous appellons present, n’est que la jointure et assemblage du futur et du passé; Heraclitus, que jamais homme n’estoit deux fois entré en mesme riviere». L’uomo stesso può divenire autre d’un autre.


Socievole insocievolezza e doppia identità

«Il n’est rien si dissociable et sociable que l’homme: l’un par son vice, l’autre par sa nature» (I, 39, 238C). Il luminoso (e fortunato) ossimoro per la ‘storia degli effetti’ contenuto nel capitolo De la solitude restituisce una sorta di emblema della condition humaine definendone skeletos e anatomia. L’apax «dissociable» coagula e guarda obliquement ad altri capitoli (in particolare, II, 1, 335, 336; II, 12, 526C; II, 16, 619A; III, 9, 964C) in cui l’insocievolezza viene declinata sul piano non solo antropologico, ma morale e politico, come del resto il suo antonimo, la socievolezza, che nella sua fondazione filosofico-etica aristotelica di I, 28 viene rilanciata in contesti critici ed ermeneutici ben definiti e significativi, sino a congiungersi con il concetto di amicizia. Montaigne profila un percorso antropologico lineare tra natura e storia, naturale e artificiale anche se un’altra strada andrà a incrociarsi e arricchirne il cammino.
Se socievolezza (e amicizia) e insocievolezza, infatti, sembrano disegnare lo spazio antropologico dell’umano, i confini del bene e del male, esse trovano le proprie radici profonde nel soggetto e nella sua attitudine al ‘raddoppiamento’, nel suo sapersi comporre e adattare nella contraddizione che lo celebra e avvera. Montaigne sottolinerà in De la gloire: «Mais nous sommes, je ne sçay comment, doubles en nous mesmes, qui faict que ce que nous croyons, nous ne le croyons pas, et ne nous pouvons deffaire de ce que nous condamnons» (II, 16, 619A).
Sul presupposto della scrittura filosofica autobiografica e della celeberrima formula du Du Repentir: «chaque homme porte la forme entiere de l’humaine condition» (III, 2, 805B), almeno altri due capitoli contengono e rilanciano, riassunta quasi in epitome, la consapevolezza del raddoppiamento del soggetto che il bordolese, almeno in un caso (De l’inconstance de nos actions), risolve nel tempo, coniugandolo con la capacità di sguardo e fondando una sorta di ontologia del doppio: « [C] Cette variation et contradiction qui se void en nous, si souple, a faict qu’aucuns nous songent deux ames, d’autres deux puissances qui nous accompaignent et agitent, chacune à sa mode, vers le bien l’une, l’autre vers le mal, une si brusque diversité ne se pouvant bien assortir à un subjet simple. [B] Non seulement le vent des accidens me remue selon son inclination, mais en outre je me remue et trouble moy mesme par l’instabilité de ma posture; et qui y regarde primement, ne se trouve guere deux fois en mesme estat. Je donne à mon ame tantost un visage, tantost un autre, selon le costé où je la couche. Si je parle diversement de moy, c’est que je me regarde diversement. Toutes les contrarietez s’y trouvent selon quelque tour et en quelque façon. Honteux, insolent; [C] chaste, luxurieux; [B] bavard, taciturne; laborieux, delicat; ingenieux, hebeté; chagrin, debonaire; menteur, veritable; [C] sçavant, ignorant, et liberal, et avare, et prodigue, [B] tout cela, je le vois en moy aucunement, selon que je me vire; et quiconque s’estudie bien attentifvement trouve en soy, voire et en son jugement mesme, cette volubilité et discordance. Je n’ay rien à dire de moy, entierement, simplement, et solidement, sans confusion et sans meslange, ny en un mot. Distingo est le plus universel membre de ma Logique» (II, 1, 335-336).
In De la vanité i toni sono analoghi. Pur con una marcata sfumatura etica, l’approdo è di natura epistemologica: «Moy à cette heure et moy tantost sommes bien deux; mais quand meilleur, je n’en puis rien dire. Il feroit beau estre vieil si nous ne marchions que vers l’amendement. C’est un mouvement d’yvroigne titubant, vertigineux, informe, ou des joncs que l’air manie casuellement selon soy. Antiochus avoit vigoureusement escrit en faveur de l’Academie; il print sur ses vieux ans un autre party. Lequel des deux je suyvisse, seroit pas tousjours suivre Antiochus?» (III, 9, 964C).
Con il riferimento al dubbio Montaigne fornisce un fondamento epistemico all’antropologia del doppio: «Protagoras dict qu’il n’y a rien en nature que le doubte» (II, 12, 526C). Ma nonostante la chiusa del passo, in De la gloire il bordolese fa un riferimento preciso alla capacità di autodeterminazione del soggetto («O Dieu, tu me sauveras, si tu veux; tu me perderas, si tu veux: mais si tiendrai je tousjours droit mon timon»: II, 16, 624B), assumendola come una sorta di architrave per uno sguardo necessario sull’uomo en tant qu’il est homme – in una prospettiva adottata a piene mani da Charron nella Sagesse e proveniente, quasi per discontinuità paradigmatica, dall’idea del liber naturae consegnato da Sebond alla prima parte della Theologie naturelle. Lo sguardo antropologico diviene al contempo temporale/atemporale e si acutizza in funzione del presente storico: in un secolo peggiore dell’età del ferro («planté en la plus profonde miniere de ce nouveau metal»: III, 9, 965B), cosa deve aspettarsi l’uomo in quanto uomo, cosa può fare e sperare questo animale versicolore che assomiglia di più al camaleonte che al polipo (II, 12, 469A), patisce il cambiamento passivo e non sa ancora essere attore del cambiamento attivo, come scriveva Plutarco del mondo animale (De sollertia animalium, 28), subendo e non ‘agendo’ la passione?
Il gioco dei paradossi dell’antropologia montaignana incoraggia e alimenta altri percorsi: l’uomo-camaleonte non ha ancora esperito il multiversum pichiano, nonostante che in De la ressemblance des enfans aux peres (II, 37, 782A), immaginando l’uomo che guarda «autour de luy le nombre infiny des choses, plantes, animaux, metaux», Montaigne ammetta tutto il suo imbarazzo per non sapergli indicare da dove poter cominciare il suo experimentum mundi e prefiguri la possibilità che «sa premiere fantasie» si diriga «sur la corn d’un élan», scontandone tutta l’inanità. In virtù di tale prerogativa non potrà mai divenire bestia o angelo.
Configurare nella bestia e nell’angelo i due estremi del bene e del male, significa mal porre la domanda (solo un dio ci può salvare?); e così fissati, non solo divengono i termini di un problema mal posto, ma si compongono in una mera elusione della question de l’homme: «C’est [...] vanité que nous desirons estre autre chose que ce que nous sommes. Le fruict d’un tel desir ne nous touche pas, d’autant qu’il se contredict et s’empesche en soy. Celuy qui desire d’estre fait d’un homme ange, il ne fait rien pour luy, il n’en vaudroit de rien mieux. Car, n’estant plus, qui se resjouyra et resentira de cet amendement pour luy» (Coustume de l’isle de Cea: II, 3, 353-354A). Lucrezio ha insegnato la contemporaneità di pathos e vita: per provare le passioni, comprese infelicità e sofferenza, bisogna esistere nel tempo in cui esse si producono (III, V, 874), anche se humeurs transcendentes spingono gli individui a cercare altre misure: «Ils veulent se mettre hors d’eux et eschapper à l’homme», insiste De l’experience (III, 13, 1115C). La conscience umana, chiosa Du repentir, sarà sempre altra da quella d’un ange ou d’un cheval (III, 2, 806C).
Insieme a innumerevoli esempi tratti per larga parte dal bestiario plutarcheo, il topos del camaleonte e del polipo veicola Montaigne verso una conclusione che non resterà senza conseguenze. La bestia non è misura al di sotto dell’umano come l’angelo non lo è al di sopra; né misurabili né, a loro volta, misuranti, perché l’uomo non li può conoscere: il male non è male e il bene non è bene se non astratto. Dessous e dessus dell’uomo non esistono misure se non illusorie e la miseria hominis, l’uomo stesso senza la sua dignitas, non rappresenta una misura: «Nous ne sommes ny au dessus, ny au dessoubs du reste [...]. Le miserable [l’uomo] n’a garde d’enjamber par effect au delà; il est entravé et engagé, il est assubjecty de pareille obligation que les autres creatures de son ordre, et d’une condition fort moyenne, sans aucune prerogative, præexcellence vraye et essentielle» (II, 12, 459A).
Intorno a tale soggetto/oggetto, caratterizzato dunque dall’insocievole socievolezza e teatro della contraddizione – di cui gli Essais registrano la crisi epistemica e morale –, si addensano interrogativi ineludibili a partire da quello fondatore: il destino o fatum dell’uomo è la guerra o la pace, se «pour neant evite la guerre celuy qui ne peut jouyr de la paix» (Coustume de l’isle de Cea: II, 3, 354A)?; se la guerra interna ed esterna è divenuta il cemento del vivere associato; se la città dei malvagi, in fondo, è ben ‘governata’ e l’accozzaglia dei corpi mostruosi, perché irragionevoli, si auto-compone e funziona meglio di quanto l’arte del buon governo possa fare? Infine, se Poneropoli stessa (prototipo dell’associazione malvagia), da anti-utopia, diventa atopia e ultima ratio di una speranza infranta? Se, in definitiva, la pace non sembra più essere antonimo della guerra e la presuppone come sua stessa ‘qualità’? Una police senza giustizia è una malattia quasi inguaribile, una crudeltà che appartiene al soggetto come il peggiore dei suoi vizi nella erasmiana «guerra interiore».
Anche se il pessimismo montaignano non sembra conoscere remissione o, almeno, risulta sempre vigile: «Les autres forment l’homme; je le recite et en represente un particulier bien mal formé, et lequel, si j’avoy à façonner de nouveau, je ferois vrayement bien autre qu’il n’est. Meshuy c’est fait» (III, 2, 804B).


Legno storto

Unica forma dell’universo, l’uomo nel cuore della compassione avverte «au dedans je ne sçay quelle aigre-douce poincte de volupté maligne à voyr souffrir autruy. Et les enfans le sentent...», precisa De l’utile et de l’honneste (III, 1, 791B). Se la prima parte della frase è con tutta evidenza riconducibile a Lucrezio (II, 1), al topos del naufragio con spettatore, la seconda è la riproposizione del motto agostiniano (Confessioni, I, 7): Imbecillitas membrorum infantilium innocens est, non animum infantium. Non sarà il primo caso in cui Montaigne metterà insieme un pagano e un cristiano, non solo per stigmatizzare atteggiamenti negativi, ma anche per ricomporre un pensiero che guardi a una sorta di nuova figura dello spirito, nell’attesa di un’umanità capace di dubbio e di riconciliazione. Non si richiamerà forse nell’Apologie de Raymond Sebond a une figure nouvelle: un philosophe impremedité et fortuite (II, 12, 546C)?
Nel primo capitolo del terzo libro, non a caso, aveva già enumerato le componenti del cemento passionale dell’io, del legno storto (bois courbe) e delle sue qualitez maladives: ambizione, gelosia, invidia, vendetta, superstizione, disperazione e, appunto, crudeltà... In altri, in particolare nell’Apologie de Raymond Sebond e in De la gloire, non aveva risparmiato alla religione la funzione di «gardecorps» del potere, come si leggeva nel Discours sur la servitude volontaire. Integrando con altre fonti un passo dei Discorsi di Machiavelli sul topos della religione come instrumentum regni, sintetizza: «Et toute police a un dieu à sa teste» (II, 16, 629-630C). Conclusione di una lunga argomentazione in cui stigmatizza la «sottise» e l’uso politico dei miti di fondazione (des origines et commencemens fabuleux) e dei «mysteres surnaturels». Esempio mirabile dell’uso politico della religione (anche nelle guerre civili) e in generale della sua ineludibile funzione, delineata dal fiorentino sulla scorta degli antichi, nel «mettere ordini nuovi ed inusitati» e conservarli. Del resto, Machiavelli non aveva affermato che «dove è religione, facilmente si possono introdurre l’armi e dove sono l’armi e non religione, con difficultà si può introdurre quella»? (Discorsi, I, 11); non testimoniava Livio I, 19 (fonte di Machiavelli) della simulazione di Numa di congressus nocturni con la ninfa Egeria? E Plutarco nelle Vite (Numa XIV e Sertorius XV)? Gli esempi si potrebbero moltiplicare, ma non si può tralasciare il De incertitudine et vanitate scientiarum, XCI (1531 et ss) di Agrippa, da cui è tratta, questa volta à la lettre, la citazione montaignana, tranne l’epilogo (toute police a un dieu à sa teste) e prima di Agrippa, Francesco Giorgio Veneto (Francesco Zorzi), De harmonia mundi, I, 2, 5 (1525).
Mentre natura comanda la ricomposizione sociale, pur nel rispetto della religio dissimilitudinis e della contraddizione, la religione positiva porta l’humanité al di fuori dell’umano e denatura gli uomini, invece di unirli. La polis moderna è ormai un polis senza polis, coacervo di vizi che si legano insieme strutturando le società contemporanee su un assetto più cementato e saldo di quanto ogni discorso sull’arte del buon governo avrebbe potuto fare. È lo sguardo sull’ordine dei fatti di De la vanité, di una police ormai mal formata, esattamente come l’uomo moderno, non certo uscito dalle mani della natura o degli dei, né generato da Pirra (che dopo il diluvio ripopola la terra con le pietre gettate) o Cadmo (cui uomini nascono dai semi dei denti di Drago), ormai divenuto uomo dell’uomo, figlio della socievole insocievolezza.
Il male radicale è la violenza all’interno e all’esterno dell’individuo: violente sono le passioni, violenta la guerra, la pratica giudiziaria (De boyteux risulta memorabile), spesso violenza dei magistrati (II, 12, 567: III, 11) che si vendicano della propria crudeltà sui «poveri diavoli», vittime designate delle formule vuote della «giustizia ingiusta» e della negligenza dei suoi attori (III, 13, 1071). La violenza è anche quella di un partito (III, 10, 1012), del costume e delle leggi (I, 23, 109, 117): ma nelle loro declinazioni tutte si incrociano nella vanità e nella cura della gloria, come testimoniano almeno tre capitoli (I, 41; II, 16; III, 9).
La ragione non universalistica e non mitologica e fallibile pone il discorso sull’altro radicandolo nella certezza della legittimità dell’incertezza che mina alla base tutte le tentazioni antropocentriche, logocentriche ed etnocentriche, ponendo, al tempo stesso, complessità, pluralità di piani e necessità dell’ambivalenza dello scetticismo a salvaguardia dell’incontro con altre culture nel loro registro di partecipazione alla diversità del cosmo e della storia. L’estraneo è nell’io e mette in questione le basi etiche e politiche della sua stessa vincolabilità.
La filosofia stessa fa l’enfant mostrando di non comprendere la complessità della natura umana e della vita, nel momento in cui qualifica quale farouche alliance l’unione del divino e del terrestre, del ragionevole e irragionevole, del severo e dell’indulgente, dell’onesto e del disonesto.
Alla luce di tali considerazioni conclusive, il famoso passo di Montaigne: «Je ne me suis pas attendu d’attacher monstrueusement la queuë d’un philosophe à la teste et au corps d’un homme perdu» (III, 2, 816C) acquisisce un senso pienamente antropologico, dopo aver imparato a disprezzare la falsa saggezza («Nous appellons sagesse…»: Ibid., 817B), che è solo bizzarria degli umori del soggetto e disgusto delle cose presenti, alla quale Montaigne oppone il suo iterato elogio del vivre à propos: «Quand je dance, je dance, quand je dors, je dors» (III, 13, 1107B). In questo caso la pienezza dell’essere è il godimento della vita. Malgrado la nihilité de l’humaine condition.
A questo punto di impone un ritorno all’incipit di I, 42: Montaigne correggeva, in tal modo, il detto di Plutarco (Bruta animalia ratione uti, IX, 992d) secondo il quale tra bestia e bestia non c’è una differenza così grande come da uomo a uomo. Se il Cheronese si riferiva alle qualità intellettuali e morali, Montaigne ricentra il discorso in ambito sociologico per poi rideclinarlo sul piano ontologico. Si loda un cavallo per la sua velocità e sveltezza non per la sua bardatura, un uccello per le sue ali non per i sonagli. L’uomo si valuta tutto avvolto e infagottato: de capsula totae. Nel giudicarlo si considera tutto ciò che è intorno a lui, non ciò che è in lui, comprando così solo un chat en poche: un gatto nel sacco. Ma la base non fa parte della statua.
Per cercare di comprendere la natura umana bisogna considerare l’uomo senza i trampoli, senza ricchezze e potere, in camicia. Per giudicare un uomo bisogna considerare se ha un corpo adatto alle sue funzioni, com’è la sua anima, se è ricca del suo o dell’altrui, che ruolo abbia avuto la fortuna, se è coraggioso e giusto, saggio e padrone di sé, se non teme la povertà e la morte, se sa tenere testa alle passioni, disprezza gli onori, sia rotondo e liscio al punto che nessun oggetto esterno possa rimanervi attaccato e nemmeno la cattiva sorte. Un uomo cinquecento braccia al di sopra dei regni e dei ducati: un impero per se stesso.
Queste sono le differenze da valutare per poter giudicare la natura umana. Invece la cecità del costume ignora le vere qualità. Il discorso montaignano si è ormai riposizionato dal piano sociologico a quello ontologico: «[A] si nous considerons un paisan et un Roy, [C] un noble et un villain, un magistrat et un homme privé, un riche et un pauvre, [A] il se presente soudain à nos yeux un’extreme disparité, qui ne sont differents par maniere de dire qu’en leurs chausses» (I, 42, 260).
Ancora una volta Montaigne non dimenticava Plutarco (Septem sapientium convivium, XI, 154e) condividendone in pieno l’assunto consegnato ad Anacarsi: «[B] A l’advis d’Anacharsis, le plus heureux estat d’une police seroit où, toutes autres choses estant esgales, la precedence se mesureroit à la vertu, et le rebut au vice».
Ma non si può tacere nemmeno l’elogio che il penultimo capitolo degli Essais riserva alla natura umana, tramite la figura di Socrate, nella conclusione di un passo che è il risultato del testo a stampa e di annotazioni manoscritte su quello che diverrà l’Esemplare di Bordeaux: «[C] C’est luy qui ramena du ciel, où elle [la filosofia] perdoit son temps, la sagesse humaine, pour la rendre à l’homme, où est sa plus juste et plus laborieuse besoigne, et plus utile. [B] Voyez le plaider devant ses juges, voyez par qu’elles raisons il esveille son courage aux hazards de la guerre, quels arguments fortifient sa patience contre la calomnie, la tyrannie, la mort et contre la teste de sa femme: il n’y a rien d’emprunté de l’art et des sciences; les plus simples y recognoissent leurs moyens et leur force; il n’est possible d’aller plus arriere et plus bas. Il a faict grand faveur à l’humaine nature de montrer combien elle peut d’elle mesme. Nous sommes chacun plus riche que nous ne pensons; mais on nous dresse à l’emprunt et à la queste: on nous duict à nous servir plus de l’autruy que du nostre. En aucune chose l’homme ne sçait s’arrester au point de son besoing: de volupté, de richesse, de puissance, il en embrasse plus qu’il n’en peut estreindre; son avidité est incapable de moderation. Je trouve qu’en curiosité de sçavoir il en est de mesme: il se taille de la besongne bien plus qu’il n’en peut faire et bien plus qu’il n’en a affaire, [C] estendant l’utilité du sçavoir autant qu’est sa matiere» (III, 12, 1038B).
L’uomo deve divenire socraticamente ciò che è, e condursi secondo sa condition (III, 13, 1114B). Bisogna «mener l’humaine vie conformément à sa naturelle condition» (III, 2, 809B). Non si può onorare la natura umana en se denaturant (III, 5, 879C).


Riferimenti bibliografici

Bruno G. (2000), Cabala del Cavallo pegaseo, in Opere filosofiche, a cura e con un saggio introdutivo di M. Ciliberto, pp. 749-750 (“Asino: Ma messere, sappime dire e resolvimi un poco, qual cosa delle due è più degna: che un uomo inasinisca, o che un asino inumanisca ?”), Mondadori, Milano.
Gontier Th. (1998), De l’homme à l’animal, Vrin, Paris.
Gontier Th. (1999), L’Homme et l’animal. La philosophie antique, PUF, Paris.
Gontier Th. (2011), La Question de l’animal. Les origines du débat moderne, Hermann, Paris.
Montaigne M. de (1998), Essais, éd. par A. Tournon, Imprimerie Nationale, Paris.
Montaigne M. de (1965), Essais, éd. par Villey-Saulnier, PUF, Paris (Quadrige, 2004).
Montaigne M. de (2012), Saggi, trad. it. a cura di A. Tournon e F. Garavini (testo fr. a fronte), Bompiani, Milano.
Panichi N. (2007), Être in Dictionnaire de Michel de Montaigne, Champion, Paris, ad vocem; vd. anche: Ead., Nature e Diversité
Panichi N. (2011), La vendetta di Circe. Montaigne, gli animali e l’«ordre de nature», «Bruniana & Campanelliana», XVII, 1, pp. 117-128.
Plures (2005), Animal et animalité dans la philosophie de la Renaissance et de l’âge classique, Louvain, Peteers.



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