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La filosofia italiana come problema

ADRIANO FABRIS
Articolo pubblicato nella sezione Sulla filosofia italiana

1. Esiste una filosofia italiana?

Si può parlare di filosofia italiana, oggi, da diversi punti di vista. A seconda della prospettiva assunta cambia infatti sia il significato della qualificazione geografica – quella che fa riferimento a una specifica “italianità” dell’indagine filosofica –, sia il modo in cui il filosofare stesso viene inteso attraverso tale dicitura. Vale la pena di menzionare e discutere alcune, almeno, di queste prospettive: anche per far sì che il nostro “oggetto” – la “filosofia italiana”, appunto – venga inserito in una più ampia rete di riferimenti che consenta di comprenderne meglio caratteri e destino.
Prima di far questo, però, è necessario far emergere un presupposto che, in questo discorso, è dato per scontato e chiarire qual è, in merito, la posizione di chi scrive. Parlare di “filosofia italiana” e cercare d’indagarla come tale significa infatti assumere che una “filosofia italiana” intesa propriamente – cioè come uno spazio culturale e di ricerca ben preciso, specificamente ritagliato rispetto ad altre tradizioni filosofiche e localizzato adeguatamente – in effetti esiste. Esiste cioè una filosofia italiana accanto a una filosofia francese, tedesca, spagnola, polacca, e così via. Esiste una filosofia italiana che può essere identificata in un certo modo, che ha caratteristiche ben determinate e che è suscettibile di venir inserita nell’ambito della filosofia europea e mondiale.
Questa è un’idea – ritengo – che non si può non condividere. Ci sono infatti buoni motivi per farla propria. Essi non si fondano tanto su una prospettiva nazionalistica o sull’intenzione di rivendicare una specifica identità per certi tipi di produzione intellettuale: magari come reazione al fatto che proprio tale identità risulta minacciata dalla globalizzazione culturale imperante. Essi sono collegati piuttosto ad alcuni aspetti di creatività e d’innovazione che appartengono alla storia italiana e che non si possono unicamente identificare, come fin troppo spesso accade, con i prodotti di un’“eccellenza eno-gastronomica” o con l’eccezionale patrimonio monumentale e museale del “bel paese”. Si tratta invece di far riferimento a quel bagaglio di idee che è stato elaborato all’interno di una tradizione ben precisa, che hanno offerto nel passato un contributo significativo all’elaborazione del sapere umano in generale e che incidono tuttora nello stile in cui, in Italia e non solo, viene fatta filosofia.
Che cosa intendo con tutto ciò, più precisamente? Mi riferisco per esempio, sotto un profilo storico, a certe forme di teorizzazione giuridica e politica elaborate nel contesto romano; a un particolare modo di riflettere sugli assunti del cristianesimo, e di adattarli a contesti di volta in volta concreti, quale si rileva dalla tarda latinità a tutto il medioevo; alla specifica ripresa dei modelli antichi, anche coniugati con l’idea cristiana della dignità della creatura, che si verifica con la nascita dell’umanesimo; al radicale ripensamento delle forme della politica ad opera di Machiavelli e Guicciardini; all’imporsi di una nuova immagine del mondo nelle opere di Galilei e di Bruno; all’innesto, con Vico, del tema della storia e della sua interpretazione in un contesto culturale per lo più orientato dalla tradizione cartesiana; all’intelligente ripensamento di tematiche filosofico-metafisiche, solo apparentemente dipendenti da ciò che era stato sviluppato in terra tedesca, in autori come Rosmini, Croce, Gentile, Carlini. E altro ancora, naturalmente, potrei qui menzionare.


2. L’“italianità” di una filosofia

Alla nostra prima domanda bisogna allora rispondere affermativamente. C’è una filosofia italiana, che ha giocato e gioca un ruolo specifico e riconoscibile in un panorama filosofico più ampio, e che con esso ha interagito. Ma che cosa significa qui, in maniera più precisa, l’uso dell’aggettivo, quello che fa appunto riferimento all’italianità di determinate pratiche filosofiche? Si tratta solo di una questione di provenienza geografica da parte di determinati pensatori? O ci sono anche altri aspetti a cui guardare? Non esistono forse ulteriori punti di vista – quelli a cui accennavo all’inizio – che consentono di definire meglio il nostro problema?
È chiaro, dal modo in cui mi sto esprimendo, che buona parte di queste domande sono a mio avviso domande retoriche. Sarebbe banale, infatti, definire l’italianità di una determinata forma di riflessione facendo riferimento solo alla nazionalità dei suoi autori. Sarebbe anzi fuorviante, perché la nazione italiana come tale è una nazione giovane, che data all’incirca un secolo e mezzo. Per il fatto che non potevano essere cittadini di uno Stato italiano non dovremmo allora annoverare ad esempio Bruno, Campanella e Vico fra gli esponenti della nostra tradizione filosofica?
D’altra parte anche quest’aggancio fisico a un determinato territorio, il territorio della penisola e delle sue isole, può essere utile al nostro scopo. Può esserlo proprio quando altri criteri si fanno problematici o rischiano di venir meno. Mi riferisco per esempio al criterio della lingua: che è stato rivendicato varie volte nel Novecento come condizione di possibilità per la positiva contestualizzazione e per lo svolgimento originale di determinati pensieri. Nell’ambito di una storia della filosofia italiana, quale ad esempio è stata brevemente delineata alla fine del paragrafo precedente, la lingua di riferimento, anche nel caso di pensatori riconducibili per nascita o residenza all’ambito geografico del nostro paese, non è stato sempre l’italiano, e nemmeno il volgare. In certi momenti storici è stato il latino. In altre epoche – nel Settecento, ad esempio – è stato anche il francese. Oggi è sempre di più l’inglese.
Ciò rappresenta certamente un problema per quelle concezioni che, in vario modo, fanno riferimento all’idea di uno “spirito della lingua” come “spirito del popolo” e spirito di una “nazione”: si tratti di ciò che è stato elaborato, per contesti linguistici differenti e in epoche diverse, da Humboldt (Humboldt 2004) oppure da Heidegger (Heidegger 2012), da Fichte (Fichte 1998) oppure da Noica (Noica 2007). Tali concezioni hanno certamente un loro aspetto di verità. La cultura si esprime attraverso la sua lingua. Una lingua – a dispetto dei progressi di Google translator – risulta incommensurabile rispetto a ogni altra. Di conseguenza certe riflessioni, e soprattutto il determinato stile che le concerne, possono essere pienamente espresse solo in un determinato idioma, tenendo conto cioè dello spessore storico e semantico delle parole che da esso sono veicolate. Un libro di Emanuele Severino potrà forse essere tradotto in tedesco – e in effetti così è avvenuto (Severino 1998) –, ma difficilmente sarà reso in maniera adeguata nella lingua inglese.
E tuttavia quest’idea, che è certamente vera di principio, non corrisponde alla realtà di fatto. In particolare non corrisponde alla realtà che ci troviamo a vivere oggi. Oggi, piuttosto che la declinazione in purezza di una determinata tradizione di pensiero, nelle modalità delle espressioni linguistiche che di essa sono proprie, vige infatti una commistione, una mescolanza, una sovrapposizione di idiomi differenti. Oggi viviamo in una situazione di effettivo plurilinguismo filosofico: quando poi non c’è invece il sopravvento di una lingua sulle altre – l’inglese – come lingua egemone.
Nella nostra epoca infatti la maggior parte dei pensatori – almeno quelli attivi a livello internazionale – si esprimono più o meno bene in varie lingue. O, quanto meno, si sforzano di farlo. E ascoltano i loro colleghi parlare nella loro lingua. All’inglese, in quanto lingua veicolare, si può far riferimento quando non ci s’intende, dal momento che essa garantisce oggi, per il mondo occidentale e non solo, una base comune di comprensibilità. Fin qui niente di male. Il problema sorge, come dicevo, nel momento in cui tale lingua pretende di garantire anche per la filosofia un’espressione pienamente adeguata in ogni contesto.


3. Tre aspetti della filosofia italiana

Se dunque la filosofia italiana, che può essere ricostruita in quanto tale e di cui dunque si può affermare l’esistenza, non rimanda quale suo criterio di riconoscimento principale ed esclusivo né a una localizzazione geografica dei propri autori, né a un contesto linguistico unitario di riferimento, allora a quale punto di vista dobbiamo riferirci per individuarla e definirla? Una prospettiva da cui guardare al nostro tema potrebbe essere quella che procede per esclusione: quella cioè che permette di considerare la filosofia italiana del passato e del presente nel quadro della filosofia europea e mondiale. La condizione per cui ciò può avvenire, tuttavia, è che vi siano stati nel passato e vi siano anche oggi autori riconducibili, geograficamente e linguisticamente, al contesto italiano, e insieme attivamente presenti sulla scena filosofica mondiale. Si tratta di filosofi, però, che devono esserlo in maniera tale da attestare la loro appartenenza a una specifica tradizione. Sotto questo punto di vista, tanto per spiegarmi, Slavoj ?i?ek non può essere anzitutto considerato un filosofo sloveno, dal momento che è l’espressione, più o meno adatta a tutti i palati, di certe tendenze della cultura globale. E certo oggi non mancano esponenti di questa spinta verso una sorta di “mcdonaldizzazione” della filosofia.
Nel passato vi sono stati pensatori che, al contrario, hanno fatto da ponte fra la cultura nazionale e il contesto internazionale. Alcuni li ho elencati in precedenza. E anche oggi – pur nella permanenza di quel senso d’inferiorità e di esterofilia che contraddistingue la nostra cultura a differenza di altre (per esempio quella francese) e che fa sì che in molti casi si traducono in italiano certi autori solo perché stranieri – vi sono comunque numerosi filosofi italiani le cui opere sono disponibili in altre lingue e che sono fatti oggetto, all’estero, d’interesse e di studio. Si è parlato anzi, recentemente, di una “Italian Theory”, in riferimento alla traduzione americana di un libro di Roberto Esposito (Esposito 2010; per la traduzione cfr. Esposito 2012). Ma questo è solo un esempio di autori italiani tradotti all’estero, e che a volte all’estero magari godono di una diffusione maggiore che in Italia. Non li menziono, qui, per evitare di dimenticarne qualcuno.
Insomma: proprio a partire dal confronto con le dinamiche filosofiche internazionali, a partire cioè dal modo in cui la filosofia italiana si propone nella sua specificità sulla scena globale, è possibile mettere in luce alcuni aspetti importanti che caratterizzano la nostra tradizione di pensiero. Si tratta certo, in queste pagine, di limitarsi a una semplice enunciazione, visto che non ho spazio per approfondire tali aspetti e per giustificarli adeguatamente. Ne menziono comunque tre: quello relativo alla concretezza dell’approccio, quello riguardante l’inevitabile confronto con una determinata tradizione religiosa e quello infine concernente lo specifico modo – individuale, non collettivo – secondo cui viene fatta ricerca.
In primo luogo va sottolineato che, se altri ambiti del pensiero europeo e mondiale risultano propriamente inclini a un’articolazione di tipo più astratto o procedurale, la riflessione sviluppatasi nel nostro paese ha in generale un carattere più concreto e applicativo. Essa muove da questioni particolari – siano esse di carattere sociale, politico, religioso, scientifico – e ne cerca una soluzione a un livello più astratto: senza scordarsi però, di solito, di ritornare sul terreno concreto da cui la riflessione ha preso le mosse. La filosofia italiana, in altre parole, ha una propensione al radicamento. Come diceva Vittorio Sainati, una filosofia così concepita risulta appunto una “filosofia di”: non già una filosofia e basta (cfr. Sainati 2000).
Un secondo aspetto che può essere qui richiamato concerne il contesto culturale con cui tale filosofia in Italia si è sempre trovata a fare i conti. Si tratta di un contesto caratterizzato dalla presenza forte della Chiesa cattolica. Essa, in alcuni momenti storici, ha svolto anche una funzione di supplenza del potere politico e ha sovente offerto una prospettiva culturale con la quale i filosofi italiani hanno comunque dovuto interagire: sia contrapponendovisi, sia integrandovisi, sia tentando di trasformarla. Non si potrebbe dunque comprendere la nostra tradizione, anche filosofica, senza far riferimento a questa presenza. Ed essa risulta incisiva ancora oggi, proprio nel quadro di una radicale metamorfosi dei processi di secolarizzazione.
Un terzo e ultimo aspetto – fra i molti che potrei elencare: ma mi limito a quelli che ritengo maggiormente significativi – è dato dallo strano equilibrio che in ambito italiano si è stabilito tra individualità della ricerca e sviluppo collettivo dei risultati raggiunti. In Italia è difficile trovare filosofi che lavorano insieme, in gruppi di ricerca ben organizzati. E raramente, nella storia della filosofia italiana, vi è la possibilità d’identificare vere e proprie scuole, che caratterizzano, magari fino a egemonizzarlo, un determinato periodo. La storia della filosofia italiana, invece, è fatta soprattutto di grandi individualità. Ma poche fra esse di solito sono contornate da discepoli che ripetono o, in qualche caso, sviluppano il verbo del maestro. Questo perché, potremmo dire con una metafora, la filosofia italiana sembra più una questione artigianale che un’impresa di tipo industriale. Riguarda in altre parole ciò che s’impara in bottega, e che si ripropone in maniera sempre nuova e creativa, ma che non è in grado di essere riprodotto in serie.


4. Ha senso parlare ancora di una “filosofia italiana”?

I tre aspetti che a mio avviso identificano alcune specificità di ciò che, nonostante tutto, può essere chiamato “filosofia italiana” sono dunque, in sintesi, quelli che fanno riferimento alla costante applicabilità del pensiero, a una determinata concezione della laicità della filosofia, a un certo modo d’intendere lo sviluppo di una ricerca. Ma ha senso rivendicare oggi, nel quadro di una globalizzazione culturale sempre più spinta, riferimenti di questo tipo? Non dovremmo parlare invece di filosofia tout court, senza aggettivi e confini? In altre parole: l’universalità che il discorso filosofico ricerca e di cui i suoi concetti sono espressione non è forse pienamente espressa dal nostro mondo globalizzato?
La mia risposta a queste domande è un no deciso. Proprio perché, come da tempo è ormai chiaro, le forme di globalizzazione di cui sperimentiamo gli effetti, anche a livello culturale, finiscono spesso per imporre solamente determinati modelli culturali, rivelano un esercizio di potere che si esplica con la persuasione o con la violenza, comportano un appiattimento generale di ciò che, ciò nonostante, viene chiamato ancora “pensiero”. Il motivo di tutto questo, a ben vedere, è proprio una trasformazione del concetto di “universalità” a cui ho fatto riferimento.
Che cosa voglio dire? L’universale non affatto è ciò che assorbe in sé il particolare, cancellandone la specificità. E neppure è qualcosa di fisso e stabilito una volta per tutte – alla maniera delle idee platoniche –, come unità di misura per giudicare la validità o meno di certe esperienze concrete. Certo: in molti casi, nella storia del pensiero, la relazione fra particolare e universale è stata intesa proprio in questo modo. Ma allora si è determinata una sorta di eterogenesi dei fini. Vale a dire, proprio quella concezione filosofica dell’universalità che era stata elaborata (da Platone) per esorcizzare l’esercizio di un potere che imponeva un punto di vista determinato con gli strumenti della retorica e della violenza (provocando esiti ingiusti come la morte di Socrate), veniva a imporsi a sua volta come qualcosa di parziale, come un punto di vista fra tanti: proprio perché con questi punti di vista si poneva in concorrenza, allo scopo di eliminarli. Ne è risultata una lotta fra posizioni differenti che ha ridotto a semplice espressione del mondo occidentale, cioè a qualcosa di particolare, la stessa nozione di “universalità” che l’Occidente ha elaborato. E quando poi tale nozione si è imposta, essa ha comportato la marginalizzazione o addirittura l’annullamento di ogni altra idea: con la conseguenza – come vediamo nel nostro mondo globalizzato – di alimentare per reazione nuove violenze.
È diverso invece il modo in cui l’universalità filosofica dev’essere configurata. Si tratta del frutto di una progressiva riduzione della particolarità delle varie posizioni, nella misura in cui esse si rivelano conflittuali fra loro. È l’accoglimento e la valorizzazione, all’interno di un comune contesto comunicativo, degli apporti che da ciascun elemento particolare possono provenire. In breve: è in gioco qui un universale che si fa, non già che s’impone una volta per tutte nella sua fissità definitoria e normativa.
In altra sede ho parlato a questo proposito di “universalizzabilità”, anche in relazione al compito che deve assumersi la filosofia oggi; e anche in collegamento con la tradizione della filosofia italiana (Fabris 2012). È chiaro infatti, da quanto fin qui ho detto, che il rapporto tra le varie tradizioni filosofiche non può essere adeguatamente pensato nella forma imperialistica – con riferimento cioè a un unico modello di pensiero, a un’unica mentalità, a un’unica lingua – che spesso abbiamo visto e vediamo all’opera. Un universale è tale, ed è vivo, solo se sorge dal legame, dall’interazione e dalla comunanza di prospettive differenti: anche magari e proprio espresse in lingue diverse. In ciò, fra l’altro, potrebbe consistere il valore aggiunto di un’Europa non più semplicemente uniformata dall’unità di misura quantitativa della moneta unica, ma capace di fruire davvero degli apporti delle numerose tradizioni che ne hanno fatto la storia.
In questo quadro, tenendo conto degli aspetti che la caratterizzano, la filosofia italiana può giocare oggi un ruolo importante. Lo può fare per la sua vocazione applicativa, che la rende attenta agli apporti che provengono dai singoli versanti del sapere. Lo può fare per la sua specifica creatività. Lo può fare per la sua capacità d’instaurare relazioni con mondi differenti e di riflettere su tali relazioni.
Di una filosofia della relazione abbiamo infatti quanto mai bisogno. È questo lo sfondo che consente di elaborare e salvaguardare un’idea di universalità che sia nel contempo davvero filosofica e tuttavia tale da non produrre le conseguenze distruttive di cui ho parlato. È questo il tema chiave, a mio avviso, di una filosofia che sia davvero al servizio del futuro. E la tradizione filosofica italiana può farci assumere la prospettiva giusta per svilupparla.


Riferimenti bibliografici

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