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Editoriale

Editoriale a cura di ROBERTO GATTI
Sulla filosofia italiana

Con la lettera che riportiamo qui di seguito, senza quasi apportare modifiche, abbiamo chiesto qualche mese fa ad alcuni esponenti della filosofia italiana un parere sull’attuale condizione in cui quest’ultima oggi versa.


Ci sono molti buoni motivi per interrogarsi sullo stato della filosofia italiana oggi. C’è chi la critica per mancanza di originalità e per l’eccessiva dipendenza dagli autori e dai dibattiti stranieri. E non sono pochi quelli che denunciano il distacco tra filosofia e realtà storica, distacco che si esprime molte volte in un’astrattezza tale da rendere minimo il contributo degli studiosi di filosofia agli avvenimenti che stanno segnando la realtà del nostro come degli altri paesi in questa complessa fase di trasformazione. Non mancano quanti sottolineano la progressiva perdita di contatto con la nostra tradizione filosofica e la conseguente dispersione di un patrimonio di idee che è stato soffocato dal successo delle “mode” correnti. Alcuni segnalano con malumore il fenomeno consistente nell’eccessiva disinvoltura con cui un cospicuo numero di filosofi si prestano ad esibirsi in spazi, come i festivals e i salotti televisivi, che, mentre da un lato mostrano di essere adatti a conquistare un pubblico numeroso e spesso entusiasta, dall’altro tendono ad abbassare il livello del dibattito e a piegarlo alle esigenze della spettacolarità a buon mercato.
Insomma, sembra che stiamo vivendo il singolare paradosso consistente nella circostanza per cui, mentre l’interesse per la filosofia pare aumentare nell’opinione pubblica -fino a far parlare alcuni commentatori di una “scoperta” di essa in ceti vari e vasti della società-, la prestazione dei filosofi di professione non sembra essere sempre all’altezza del loro ruolo. Non sono pochi coloro che li accusano di essere scarsamente originali, ripetitivi, poco in grado di incidere sul dibattito internazionale, troppo coinvolti nelle logiche “accademiche”. Certo non è mancato, nel secondo dopoguerra, il confronto tra le diverse posizioni che hanno fatto il loro ingresso nel nostro panorama culturale provenendo dall’estero: si pensi al neopositivismo, alla filosofia analitica, al razionalismo critico popperiano, al neo-aristotelismo, al neo-kantismo, al personalismo, alla variegata famiglia dei seguaci di Nietzsche e di Heidegger, alla psicanalisi post-freudiana, alla biopolitica, tanto per fare alcuni esempi. Ma è legittimo chiedersi: quanto di tutto questo è passato via senza lasciare tracce profonde e quanto invece è penetrato sino a cambiare il volto della nostra tradizione filosofica? E che ne è di questa tradizione, cioè, per esempio, dell’idealismo, dello spiritualismo, del personalismo? E che ne è, anche, della presenza della filosofia non nei festivals, ma nella scuola e nell’università, dopo le riforme che hanno interessato l’una e l’altra e in attesa di quelle che ancora sarebbero auspicabili?


In questo numero si possono leggere le risposte a queste e ad altre domande che gli autori hanno creduto bene di porre sul tappeto. Ma non mancano certo prese di posizione che riguardano le possibili risposte. Ne emerge un quadro in cui le une e le altre offrono uno spaccato significativo della situazione attuale in cui versa una forma di sapere che contraddistingue profondamente la tradizione culturale del nostro paese e, con esso, di quell’area dai contorni sempre più confusi che definiamo “Occidente”.
Non doveva esserci, in questo fascicolo, una chiave interpretativa già confezionata o un criterio di lettura precostituito. È stata, questa, una precisa scelta iniziale. L’obiettivo era, piuttosto, di fornire un materiale più ricco possibile per una riflessione a molte voci e, poi, d proseguire a interrogarci sul tema che i diversi articoli aiutano a focalizzare da vari punti di vista. Infatti, non vorremmo chiudere qui. Qui abbiamo iniziato, ma ci proponiamo di andare avanti coinvolgendo altri interlocutori e implementando il confronto.
In questo numero s’intrecciano non solo interpretazioni differenti riguardo al cosa è e al cosa dovrebbe essere (o non essere) la filosofia italiana, ma anche suggerimenti diversi relativi al modo stesso di accostarsi al problema, insomma al metodo con cui affrontarlo. E non è certo un aspetto secondario. Si può, infatti, privilegiare un approccio biografico che coniughi esperienza personale e contesto nazionale e/o internazionale; oppure si può privilegiare un approccio tematico o mirato alle correnti e ai singoli autori. In una stagione che appare segnata da una positiva autoriflessione critica della filosofia italiana, ognuna di queste modalità di accostarsi al problema va tenuta presente.
Inoltre, emerge uno spaccato delle diverse articolazioni interne che contraddistinguono il dibattito filosofico nel nostro Paese: dalla filosofia teoretica alla filosofia morale alla filosofia politica alla filosofia del diritto alla filosofia sociale. Alcuni articoli pongono sul tappeto la questione, sempre più pressante, del rapporto tra la filosofia e le altre aree della conoscenza, in primis la scienza nelle sue differenti espressioni. Non è certo difficile notare che il dialogo, quando c’è stato, ha assunto un tono non sempre mite, per dir così. Ma sovente è mancato; e gli effetti si sentono.
Ci pare si possa dire che, comunque, il quadro generale è stato ed è tutt’altro che monocromatico e il paesaggio che ci consegna non è per nulla statico. Alcuni rimproverano agli esponenti delle varie “filosofie” di non aver raggiunto e neppure perseguito l’originalità e di aver il più delle volte mutuato temi, argomenti, prospettive, dal di fuori, peccando di esterofilia. Vero o non vero che sia (non sta a noi, almeno in questa introduzione, pronunciarci su questo), risulta però difficile negare la vitalità che caratterizza il panorama generale del secondo dopoguerra.
Certo, quest’accentuata sensibilità alle sollecitazioni esterne è talvolta andata a scapito della cura per lo sviluppo della nostra tradizione. Va detto peraltro che ci sono non pochi sintomi di un positivo recupero. Non si tratta della solita querelle su Croce-Gentile-Gramsci, ma di qualcosa di ben più sostanzioso e ampio, cioè di un filo che è da ritessere partendo quanto meno, come si è giustamente osservato, dall’Umanesimo e dal Rinascimento. Ciò si può dire non solo nel senso dell’attenzione e dell’approfondimento storiografico (questo c’è stato e non è neppure necessario citare i nomi degli studiosi che l’hanno caratterizzato), ma anche e soprattutto dal punto di vista teoretico. Va messo a frutto quanto, dalla nostra articolata e ricca storia del pensiero filosofico, ci può venire ai fini del posizionamento nell’attuale dibattito internazionale e dello sforzo di decifrare la realtà che ci troviamo di fronte in questo non poco tormentato esordio di millennio.
Non c’è molto altro da dire. Lasciamo volentieri che i diversi autori parlino da soli. Da aggiungere, per chiudere, rimane forse solamente da suggerire, a margine, che con questo numero della rivista intendiamo inserirci in una discussione ormai in corso e continuare, seguendola, a offrire il nostro contributo.



Roberto Gatti


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