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Dissonanze, Accordi e Pace. Piccole Persone, Grande Politica

MARIA KARAPETYAN
Articolo pubblicato nella sezione “Capire i conflitti, praticare la pace. L’esperienza di ‘Rondine’: il Nagorno Karabakh”

La quotidianità spesso viene considerata come uno stato che deve essere stravolto o allietato. A Rondine Cittadella della Pace avviene il contrario. La quotidianità viene raffinata e mantenuta, quasi protetta, con energia e attenzione perché le persone che vivono a Rondine portano caratteri e culture cosi variopinti che il senso comune non si può negoziare velocemente e entrare in un ritmo mondano, banale, ripetitivo. Il senso comune si può solamente creare e ricreare da zero ogni giorno. Vivere e studiare a Rondine, costruire questo senso comune ogni giorno è una fatica enorme, ma porta una soddisfazione grande!
La diversità degli studenti di Rondine – veniamo dai Balcani, dal Medioriente, dal Caucaso, dal Subcontinente indiano, dall’Africa subsahariana, dall’America – è in contrasto forte con l’armonia del posto dove noi viviamo. Rondine è un borgo medievale di sintonia, i suoi abitanti sono uno studentato avvenieristico di dissonanze. La relazione tra il posto e gli abitanti è di mimesi – mettere le dissonanze in accordo.
“Dissonanze in accordo”: può sembrare un bell’ossimoro per nominare la quotidianità di Rondine. Forse la parola accordo sta meglio accanto alla parola assonanze, o armonie, o pace? Un accordo di pace, quanta sintonia c’è in questa espressione e quanta fallacia per come il concetto viene applicato.
Nelle teorie e pratiche della risoluzione dei conflitti vediamo una certa linea logica per risolvere un conflitto: il cessate il fuoco, le negoziazioni diplomatiche, un trattato di pace e solamente dopo viene la desiderata fase della riconciliazione. Ma quanta possibilità c’è che questa linea logica funzioni? Quanta possibilità c’è che un trattato di pace sia durevole, sostenibile? Nella mia umile opinione, poca.
Con un cessate il fuoco, i politici e i diplomatici si impegnano nei processi di pace sulla scena internazionale con i princìpi, gli incontri, le negoziazioni e spesso tutto questo succede dietro delle porte chiuse. Ma cessare il fuoco significa spesso anche cessare le parole tra le società. Smettiamo di sparare e smettiamo anche di parlare.
Le società rimangono fuori dal discorso ufficiale e non sono impegnate in un loro discorso informale, mantenendo in tal modo le loro posizioni iniziali di nemici o, peggio, sviluppando narrative di odio, animosità sostenute dai media, dal sistema educativo e vanno verso maggiori dissonanze e polarizzazione. Nei rari casi in cui i processi ufficiali diplomatici producono un trattato di pace, questo trattato viene calato dall’alto sulle società che non possono digerire le nuove condizioni, com’è stato alla fine della prima guerra mondiale. Uno status quo di prolungato silenzio, un divieto di dialogo, un abituarsi a “non-guerra ma non-pace”: tutto questo non è il terreno favorevole per un trattato oppure un accordo, non importa quanta giustizia e valori condivisi siano stati messi alla sua base.
Forse da questo si capisce che io non credo nei trattati che vengono conclusi senza coinvolgere i popoli e senza un consenso dal basso. Dobbiamo rovesciare le cose. Le persone devono vedere con trasparenza cos’è in corso nel processo di negoziazione. Il distacco delle società dal processo ufficiale viene eliminato. La riconciliazione ricomincia già prima di arrivare ad un accordo di pace.
Emerge così la complementarietà dei due processi, dall’alto e dal basso. È la diplomazia informale popolare per la quale è usato il termine “Track 2 Diplomacy”. Come i politici, o forse in maniera maggiore, persino i membri delle società hanno bisogno di riunirsi per parlare del conflitto direttamente, per mettere le proprie dissonanze in accordo! Poi, in un secondo momento, arriverà anche la speranza che i processi formali e informali portino insieme alla risoluzione del conflitto.
Per fare questo le persone non dovrebbero sentirsi solo piccoli attori quando si tratta di grande politica. La pace non è una fantasia: è fantasia immaginare che la superiorità militare porti a una vittoria, la quale, invece, è uguale a una sconfitta quando si misura la devastazione della guerra e la trappola di quel cerchio vizioso. C’è una virtù nella speranza per la pace, ma la speranza è molto più che un buon desiderio; la speranza radicata nel cuore delle persone li spinge ad avere un impatto sul mondo – dentro e fuori.
Solamente le persone conoscono le loro realtà vissute e possiedono proprie percezioni sul conflitto che possono essere radicalmente diverse le une dalle altre, così come dalle percezioni e intenzioni degli intermediari. Un vero processo di pace coinvolge tutti – quelli che combattono, quelli che sono scappati, quelli che sono rimasti, quelli che credono nella pace, ma vengono “silenziati” dalla propaganda e anche quelli che non credono nella pace perché hanno perso la speranza. Il trattato di pace non viene così solo scritto, ma viene costruito insieme! Solamente coinvolgendo tutti si possono mettere le dissonanze in accordo e costruire un consenso, o per meglio dire, costruire un senso.



Maria Karapetyan

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