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Il tempo e la storia nell’epoca del frammento

MARCO BRUNI
Articolo pubblicato nella sezione Tempo, storia e politica

Sulla scia di Sant’Agostino e delle riflessioni sul tempo di Aristotele e Heidegger, Reinhart Koselleck ha mostrato come l’esperienza e l’aspettativa siano quelle categorie fondamentali senza le quali ogni cosa verrebbe travolta dall’instabile relativismo dello storicismo assoluto, quelle categorie, che ci permettono, allora, di esperire non solo il tempo soggettivo della nostra coscienza e quello oggettivo della misurazione scientifica, ma anche quello intersoggettivo dell’indagine e della narrazione storiche (cfr. Koselleck 2007, pp. 179-322). Agostino, del resto, a differenza degli abitatori della postmodernità, aveva perfettamente compreso come l’esperienza del tempo fosse possibile solo nella misura in cui la coscienza si distendesse nelle tre estasi del passato, del presente e del futuro, ovvero ricordando il passato (esperienza), concentrandosi sul presente e attendendo il futuro (attesa), per cui la temporalità si costituirebbe come un presente-passato, un presente-presente e un presente-futuro (cfr. Agostino 1999, pp. 537-591). Laddove, insomma, si escludessero il passato e il futuro, verrebbe precluso l’orizzonte stesso del presente, che a sua volta può accadere solo assentandosi nel non più del passato e sporgendosi nel non ancora del futuro. Poiché, però, il passato non è più, il futuro non è ancora e il presente non è mai, in quanto continuo scivolare nel prima e nel poi, il tempo mostra la sua peculiare natura aporetica, che, come sostiene Massimo Donà (cfr. Donà 2010), lungi da ogni apparente contraddittorietà, si pone invece come la pienezza stessa della vita, che non manca di nulla, perché, radicandosi nel passato, permette il progetto futuro nella consapevolezza del presente che si distende. In questo senso, la stessa aporeticità della temporalità diventa qualcosa di fecondo, oltre che sul piano esistenziale, anche su quello dell’analisi storica, mostrando come il tempo non sia mai qualcosa di banalmente rettilineo, ma sempre un che di stratificato su piani intrecciati di esperienze e aspettative, che, richiamandosi le une alle altre e le une sulle altre incidendo in base al loro peso semantico, determinano la peculiare concezione del «tempo storico», ovvero la comprensione di una certa «epoca».
Dove prevale lo «spazio dell’esperienza» avremo una concezione protologica della temporalità, dove prevale, invece, l’«orizzonte dell’aspettativa» una futurologica della stessa, ed è per questo motivo che due grandi concezioni del tempo hanno determinato l’immaginario occidentale: la visione ciclica, mitica e pagana e la visione lineare, ebraica e cristiana. Già Karl Löwith, tra l’altro tra i principali maestri di Koselleck, nella sua opera forse più conosciuta, tradotta in italiano con il titolo Significato e fine della storia. I presupposti teologici della filosofia della storia (Löwith 2004), aveva reso canonica questa distinzione tra opposte esperienze del tempo, mostrando, inoltre, come l’escatologia di matrice biblica si sarebbe secolarizzata in epoca moderna nelle filosofie della storia, si identifichino esse con l’utopia, il progresso o la rivoluzione. Per Löwith, allora, i presupposti della filosofia della storia sono in realtà dei presupposti teologici, tanto che tra teologia della storia e filosofia della storia si pone un nesso di secolarizzazione, ovvero di trasposizione a livello mondano di ciò che era rivolto originariamente a livello ultramondano, di trasposizione dell’escatologia di matrice ebraica e cristiana sul piano dell’immanenza storica. Con le parole di Löwith: «la moderna filosofia della storia trae origine dalla fede biblica in un compimento futuro e finisce con la secolarizzazione del suo modello escatologico» (Löwith 2004, p. 22).
Se la filosofia della storia è, dunque, l’interpretazione delle vicende umane, secondo la quale esse sarebbero dirette dall’Uomo verso un fine ultimo terreno – il paradiso in terra –, la teologia della storia è, specularmente, l’interpretazione delle stesse, secondo la quale esse sarebbero dirette da Dio verso un fine ultimo celeste – il paradiso in cielo –, dove entrambe sono caratterizzate, proprio in virtù del rapporto genetico della seconda rispetto alla prima, da una concezione lineare del tempo, che, estranea al mondo mitico nonché a quello greco-romano, verrebbe inaugurata dalla peculiare esperienza temporale propria del popolo ebraico, esperienza che permarrebbe nel cristianesimo, permeando di sé l’intera storia occidentale dopo la caduta dell’Impero romano. In questo senso, l’esperienza biblica della temporalità, basata sulla speranza e l’attesa, sarebbe agli antipodi della medesima esperienza greco-romana, dove lo sperare non è che un fuoco fatuo, spento inevitabilmente dai ricorrenti cicli naturali della vita, delle stagioni e degli astri.
Se la concezione del tempo cristiana, che, pur nel comune orizzonte futuristico, si distingue da quella ebraica per l’attesa della seconda parusia di Cristo, quando gli ebrei attendono, invece, ancora la prima venuta del messia, è stata canonizzata una volta per tutte da Agostino nel De Civitate Dei, il passaggio dalla teologia della storia cristiana alla filosofia della storia moderna si verifica con la pubblicazione da parte di Voltaire dell’Essai sur les moeurs et l’esprit des nations del 1756, che, anticipato in parte da Gioacchino da Fiore e da Gian Battista Vico, tentò di sostituire la fede nella provvidenza divina con quella nel progresso dell’umanità. Il processo di secolarizzazione trova, quindi, in Voltaire la sua prima tappa fondamentale, dove la secolarizzazione è la stessa morte di Dio, ovvero il farsi mondano di Dio nell’attesa futura della perfetta città terrena. Voltaire, infatti, a cui risale peraltro l’espressione philosophie de l’histoire, ha effettuato il tentativo di sostituire la provvidenza divina con la ricerca indefinita di un futuro migliore, dando vita a quell’ideologia del progresso, che sarà poi fatta propria da Turgot, Condorcet, Proudhon, Comte e dallo stesso Marx. L’idea di progresso sostituisce quella di provvidenza e, dall’attesa del regno ultraterreno di Dio, si passa al progetto dell’uomo di costruire in terra il regno di Dio senza Dio: la speranza da ultraterrena si fa terrena, ma l’orizzonte futuristico, inaugurato dall’escatologia ebraica e cristiana, ne rimane alla base. In fin dei conti, è il procursus di Agostino verso il futuro e trascendente regno di Dio, canonizzazione filosofica della teologia della storia biblica, da cui hanno origine le moderne filosofie della storia. Ma la centralità dell’attesa pellegrina di Agostino, che fa, dunque, assumere al tempo una direzione lineare, non scalfisce affatto la ciclicità della natura e delle cose umane – del saeculum –, essendo qualcosa di solamente interiore, per cui Koselleck e Löwith, lungi dall’essersi divisi sull’analisi della storia occidentale, hanno focalizzato l’attenzione rispettivamente sul farsi esteriorità dell’attesa con la nascita del progresso nell’«epoca-sella», e sull’originarsi del tempo lineare in ambito ebraico e cristiano, a partire dalla fede nel fine ultimo della storia. Secondo Koselleck, infatti, «anche il concetto di progresso, verificabile attraverso l’accelerazione delle scoperte e delle invenzioni» resta «intriso delle antiche aspettative cristiane», per cui si può «parlare di mondanizzazione delle finalità cristiane» (Koselleck 1989, p. 29), ovvero di secolarizzazione dell’eschaton sovrastorico di Dio nell’eschaton storico dell’Uomo. In questo senso, non solo la secolarizzazione «rimane un processo incontrovertibile, documentato da Karl Löwith» (Koselleck 1989, p. 33), ma, inoltre, secondo lo storico tedesco, è proprio tra il 1750 e il 1850, ovvero tra Voltaire e il positivismo, che si manifesterebbe quel fenomeno materiale e oggettivo dell’accelerazione del ritmo della vita umana – i cui momenti salienti sono la Rivoluzione industriale e la Rivoluzione francese – a cui corrispondono, sul piano simbolico, quelle filosofie della storia, che a loro volta intervengono nel favorirne la dinamica effettiva.
Ma le filosofie della storia non sono caratterizzate solo da evidenti risultati anticristiani (dal progresso alla rivoluzione), pur a partire da presupposti teologici, ma anche e soprattutto dall’impossibilità della loro fondazione razionale, dato che il conferimento di un senso ultimo alle umane vicende è attuabile solo sul piano teologico, «poiché – scrive Löwith – la filosofia della storia da Agostino fino a Bossuet non rappresenta una teoria scientifica della storia “reale”, bensì una dottrina dogmatica della storia sulla base della rivelazione e della fede» (Löwith 2004, p. 21). Esito ultimo della secolarizzazione dell’escatologia nella filosofia della storia, ovvero dell’impossibilità sul piano della ragione di prevedere un fine ultimo, è, infatti, lo storicismo, dove per storicismo si deve intendere la tesi secondo cui tutto è storia, tutto è sviluppo storico, tutto è storicamente determinato. Se la storia è lineare, ma un suo fine ultimo non è prevedibile, allora rimane solamente il mero fluire delle cose, il loro continuo determinarsi e superarsi storicamente. Ed è questo il risultato a cui giunsero, dopo la dissoluzione del sistema di Hegel, gli autori della sinistra hegeliana, Burckhardt, Troeltsch, Meinecke, Spengler, Dilthey, Heidegger e, in Italia, Croce, risultato che prende, appunto, il nome di storicismo, che, seppure noi oggi più prosaicamente chiamiamo relativismo, si manifesta in maniera a tal punto onnicomprensiva da rivelare la sua essenza tirannica, che tutto nega tranne se stessa, facendosi tutt’uno con il nichilismo profetizzato da Nietzsche.
Quello storicismo, a cui lo stesso Koselleck – e prima di lui Löwith (cfr. Löwith 1967) – si è voluto contrappore tramite le categorie di spazio di esperienza e orizzonte di aspettativa, e di cui però avrebbe sottovalutato il punto di rottura con la filosofia della storia da cui pur proviene, impedendosi, così, come ha opportunamente rilevato Diego Fusaro, di tematizzare adeguatamente il mutamento di «tempo storico», verificatosi con l’esaurirsi delle cronosofie della modernità, dove la cosiddetta «crisi del marxismo» (l’ultima filosofia della storia) è ben precedente alla caduta dell’Unione Sovietica, ovvero «[della] la transizione dall’epoca del “futuro passato” a quella che potremmo qualificare come epoca dell’“eterno presente”, coincidente con il Postmoderno, razionalizzazione disincantata della rinuncia al futuro». Del resto, il futuro «ha cessato di essere l’orizzonte condiviso progettualmente e il luogo delle proiezioni dei sogni di emancipazioni di progresso: il nostro è il tempo del “presentismo” assoluto, o, come ha sostenuto Hartog, del “presente onnipresente”» (Fusaro 2012, p. 315). Infatti, Fusaro, ponendo François Hartog (cfr. Hartog 2007) oltre Koselleck, definisce la nostra come l’epoca dell’«accelerazione senza futuro e della fretta nichilistica», quell’epoca che, pur avendo smesso «di credere nel futuro e nell’esigenza di accelerarne l’avvento, non ha per questo cessato di affrettarsi senza tregua, dando vita ad una versione del tutto autoreferenziale della fretta: una versione nichilistica, appunto, perché svuotata dai progetti e dalle promesse di emancipazione universale e di colonizzazione dell’avvenire di cui l’avevano gravata i moderni». In questo senso, se «la modernità, nelle sue premesse e nelle sue promesse, si era configurata come un ambizioso tentativo di perseguire futuri diversi e migliori, con l’imperativo di accelerare il tragitto che avrebbe dovuto condurre ad essi, il nostro tempo ha smarrito questa “passione per il futuro”, senza però congedarsi dalla fretta, ridotta così a scopo del tutto irrelato, sciolto dal riferimento a ogni valore e a ogni progettualità trasformativa», per cui «il motto dell’uomo contemporaneo – mi affretto, dunque sono – sembra quindi accompagnarsi a una assoluta mancanza di consapevolezza dei fini e delle destinazioni verso cui accelerare il processo di trascendimento del presente» (Fusaro 2010, p. 28).
Come la modernità ha consumato lo spazio di esperienza (Tradizione – Dio) in nome del futuro, così la postmodernità annichilisce l’orizzonte di aspettativa (Utopia – Dio secolarizzato) in nome del presente, in modo tale che l’esperienza del tempo, privata della memoria e dell’attesa, si va appiattendo su un eterno adesso in continua accelerazione, nel turbine della fretta senza meta, che si diffonde in tutti gli interstizi della vita quotidiana, generando confusione, ansia, precarietà, crisi di identità e perdita dei legami, in quel dissolvimento generalizzato, che la metaforica della liquidità e l’espressione «disagio della postmodernità» ben riassumono (cfr. Bauman 2002a e 2002b).
Zygmunt Bauman, a cui appunto si devono tali espressioni, accompagnato nell’analisi dell’eclissi del futuro nell’eterno presente da Hartog, Michel Benasayag e Gérard Schmidt (cfr. Benasayag e Schmidt 2004) e Marc Augé (cfr. Augé 2009), ha avuto, però, il merito di individuare la figura peculiare del tempo, che eminentemente ne contraddistingue l’esperienza nella contemporaneità, sostenendo che nella «società dei consumi della modernità liquida il tempo non è né ciclico né lineare, come normalmente era nelle altre società della storia moderna e premoderna», bensì «puntillistico, ossia frammentato in una moltitudine di particelle separate, ciascuna ridotta ad un punto che sempre di più si avvicina all’idealizzazione geometrica dell’assenza di dimensione» (Bauman 2009, p. 56). Corollario temporale della modernità liquida o postmodernità è il tempo puntillistico, ovvero il tempo dominato dalla «tirannia del momento» (cfr. Eriksen 2003), da quel punto che è il momento, che, come sapeva Agostino, «non è mai», e per ciò stesso intangibile, se irrelato con il passato e il futuro. L’isolamento del presente, inghiottendo il passato e il futuro, riduce la memoria ad oblio e l’attesa a minaccia, plasmando così, come sottolinea Andrea Tagliapietra, anche la cultura di massa (cfr. Tagliapietra 2010), nella fiera tardocapitalistica dell’effimero, del nuovo e dello sballo, dove il tentativo di afferrare l’inafferrabile, aumenta sempre di più l’insaziabile vuoto.
L’accelerazione senza futuro della postmodernità consiste, dunque, nella continua consumazione dell’esperienza del tempo, ovvero nella contrazione delle tre dimensioni temporali nel punto, dove il punto – come già insegnava Euclide – è l’assenza delle parti, è il nulla, è la distruzione in atto, esito ultimo del nichilismo e della sua volontà di annientamento. La postmodernità si pone, allora, come quella ripetizione del nulla, dove lo spessore minimo della percezione è in vista solo della sua più rapida frammentazione e dissoluzione, alla quale, a livello spaziale, corrisponde la consumazione progressiva delle risorse del pianeta ad opera della crescita infinita del tardo capitalismo.
La postmodernità, lungi dall’essere un tradimento della modernità, si presenta come suo perfetto compimento, come modernità pura, ovvero depurata da quel futuro, verso cui di continuo rimandava il fine della sua più intima volontà. Come il risultato della filosofia della storia è lo storicismo, di cui il relativismo è sinonimo, così l’esito dell’accelerazione moderna è l’accelerazione senza futuro: la secolarizzazione finisce per compiere se stessa. La modernità ha sperato di realizzare il paradiso in terra, la postmodernità ci sta riuscendo. Che cos’è, infatti, il paradiso in terra, se non il calare l’infinito nel finito? E che cos’è la realizzazione dell’infinito, se non la definitiva abolizione del finito? E che cos’è l’abolizione del finito, in un pianeta finito, popolato da esseri finiti, se non la volontà stessa di annichilimento? Del resto, il paradiso è la terra senza il male, ma in terra eliminare il male significa eliminare anche il bene, ovvero eliminare “tutto”. Il nichilismo, pertanto, coincide con quella stessa volontà di eliminare il male in terra, che si converte inevitabilmente nell’annichilimento della finitezza del mondo, perché nel mondo i contrari sono indissolubilmente intrecciati. L’idea della modernità e della tarda modernità come nuova gnosi, formulata da Hans Jonas ed Eric Voegelin (cfr. Jonas 1991; Voegelin 1999) e poi approfondita da Augusto Del Noce ed Emanuele Samek Lodovici (cfr. Del Noce 1979; Samek Lodovici 1991), appare così tutt’altro che peregrina, se per gnosi si intende la rivelazione della malvagità della vita e, dunque, la volontà di portarla a dissoluzione. Per questa ragione, secondo Voegelin, «il totalitarismo, inteso come dominazione esistenziale di attivisti gnostici, è la forma conclusiva alla quale approda ogni civiltà votata al culto del progresso» (Voegelin 1999, p. 167), nel senso che la modernità si contraddistingue nella sua fase iniziale come un continuo rimandare la definitiva eliminazione del male – la progressività della scienza e della tecnica e l’attesa rivoluzionaria (progressiva o reazionaria che sia) – e laddove, invece, essa si realizza, perché l’accelerazione del processo conduce i tempi a “maturazione” – i regimi totalitari –, non fa che distruggere a tutti i livelli di esistenza, per poi travolgersi a sua volta in questa azione distruttiva, come è avvenuto non casualmente per il nazismo nel 1945 e per il comunismo nel 1989.
Infatti, perché si distrugge? Perché la vita è male. Perché la vita è male? Perché il male non dovrebbe esserci. Secondo Salvatore Natoli, infatti: «il cristianesimo ha alterato l’anima pagana. Nel momento in cui il sogno di un mondo senza dolore è apparso, non ci si adatta più a questo dolore anche se si crede che un mondo senza dolore non esisterà mai. La coscienza è stata visitata da un sogno che non si cancella più, e anche se lo crede inverosimile tuttavia vuole che ci sia» (Natoli 1995, p. 38). Oggi, perduta la trascendenza, divina o utopica che sia, l’ulteriorità (eschaton), a cui pur si continua ad aspirare, non può che presentificarsi, come già nelle esperienze totalitarie del secolo scorso, ponendosi così come quel “nulla”, quell’“altro” dal mondo, che appare come l’unica via di salvezza da questa terra desolata. La trascendenza coincide ormai con l’annichilimento. In tutte le sfere dell’esistenza umana, questo processo di dissoluzione è pericolosamente in atto, da quello simbolico, dove il relativismo porta a consunzione ogni possibile verità, a quello produttivo, dove l’accelerazione della crescita e del consumo sta esaurendo a livelli vertiginosi la natura ambientale, a quello pratico, dove la liquefazione dei legami e dell’identità personale preclude qualsiasi possibilità di azione significativa, dal non pensarci della fretta, al disimpegno dell’incapacità relazionale, all’evasione dello sballo, vera e propria mistica dell’Occidente contemporaneo. In questo senso, dopo l’eclisse di Dio e delle ideologie novecentesche, solo se saremo in grado di cancellare il sogno di un mondo senza dolore proprio della secolarizzazione, che, ogni qual volta si realizza, si rivolge nell’incubo di un mondo senza gioia, preludio della sua dissoluzione finale, ricordando come gli opposti si implichino gli uni con gli altri tanto a livello esistenziale (bene e male) quanto a livello temporale (presente, passato, futuro), potremo apprezzare di nuovo la terra, lontani dai falsi elogi dell’edonismo e del libertinismo contemporanei, nella speranza che le potenze del capitalismo e della tecnica, evocate dall’uomo nell’epoca dell’accelerazione, non abbiano ancora preso il sopravvento sulla possibilità del loro umano controllo, nella forma della «fatalità del progresso» (cfr. Löwith 1985, pp. 143-170) come «tendenza fondamentale del nostro tempo» (cfr. Severino 1988).


Riferimenti bibliografici

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Bauman Z. (2002b), Il disagio del postmodernità, Bruno Mondadori, Milano.
Bauman Z. (2009), Vite di corsa. Come salvarsi dalla tirannia dell’effimero, Laterza, Roma-Bari.
Benasayag M. – Schmidt G. (2004), L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, Milano.
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Tagliapietra A. (2010), Icone della fine. Immagini apocalittiche, filmografie, miti, il Mulino, Bologna.
Voegelin E. (1999), La nuova scienza politica, Borla, Milano.



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