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'Carpe diem': i tempi felici e infelici della vita

MARIANNA ESPOSITO
Articolo pubblicato nella sezione I tempi della quotidianità

1. I tempi infelici della crisi

Il 48° Rapporto Censis sulla situazione sociale italiana nel 2014 offre uno spunto interessante di riflessione - non solo sociologica, ma filosofica e politica - perché mette a fuoco con una certa dose di chiarezza il tempo inedito di crisi in cui viviamo. Il primo dato rilevante che emerge dalle considerazioni generali del Rapporto riguarda non a caso gli effetti spazio-temporali prodotti dalla crisi sistemica che investe da ormai sette anni l’Italia, divenuta una realtà frammentata in cui «interessi e comportamenti individuali e collettivi si aggregano in mondi non dialoganti. Non comunicando in verticale, restano mondi che vivono in se stessi e di se stessi. L'attuale realtà italiana si può definire come una “società delle sette giare”, cioè contenitori caratterizzati da una ricca potenza interna, mondi in cui le dinamiche più significative avvengono all'interno del loro parallelo sobollire, ma senza processi esterni di scambio e di dialettica. Le sette giare sono: i poteri sovranazionali, la politica nazionale, le sedi istituzionali, le minoranze vitali, la gente del quotidiano, il sommerso, il mondo della comunicazione» (Censis 2014, p. 3). Ecco l’inquietante ritratto sintetizzato dal Censis che ci introduce così a una riflessione non poco problematica sull’esperienza attuale del tempo in epoca di crisi globale.
Assumendo come punto di partenza l’affermazione posta da Freud in apertura alla Psicologia delle masse e analisi dell’io, per cui «la psicologia individuale è anche, fin dall’inizio, psicologia sociale» (Freud 1971, p. 65), riteniamo che il processo di frammentazione sociale appena descritto comporti una mutazione antropologica del soggetto, nella percezione che ha di se stesso e del tempo in cui è situato. Il punto del problema sta proprio qui. La crisi strutturale - economica, politica, culturale - che attraversa non solo l’Italia ma l’Europa intera, si è tradotta anzitutto in una crisi del tempo - in un «processo di detemporalizzazione», come scrive Myriam Revault d’Allonnes (Revault d’Allonnes 2014, p. 11) – che segna in concreto per ogni individuo l’impossibilità di progettare un avvenire, di immaginare un orizzonte, di credere nel futuro. Paura, incertezza, smarrimento, solitudine, immobilismo, mancanza di raccordo tra le diverse dinamiche individuali e sociali. Questo è l’esito paradossale della «crisi senza fine» (Revault d’Allonnes 2014, pp.101 e ss.) che oggi attraversiamo. Da un lato, il processo di globalizzazione ha intensificato quella che Hartmut Rosa ha definito la logica moderna dell’accelerazione (Rosa 2010; Tomba 2014, pp. 73 – 81), cioè l’incremento di velocità - dei trasporti, delle comunicazioni, dei mutamenti sociali, dei ritmi di vita – che riduce le distanze tra persone e cose e contrae lo spazio per produrre più azioni utili nel minor tempo possibile. Dall’altro lato, la crisi finanziaria esplosa nel 2008 ha fatto sì che a questa accelerazione progressiva del tempo corrispondesse un crollo di storicità, una perdita di orientamento verso il futuro, in seguito al venir meno della fede collettiva nel progresso e nell’aumento di benessere.
Da ciò deriva la frammentazione sociale a cui prima abbiamo accennato: l’isolamento dei mondi chiusi in se stessi descritto dal Censis attraverso il ritratto della società italiana divisa in giare, cioè in contenitori descritti come potenzialmente ricchi ma isolati, non interagenti tra loro perché funzionanti secondo logiche diverse, in base a tempi eterogenei, in un processo di desincronizzazione (Revault D’Allonnes 2014, p. 116), o anche potremmo dire con Daniel Innerarity, in un «regime di eterocronie» (Innerarity 2008), causato proprio dall'assenza di un orizzonte di senso comune. «La società perde dunque il carattere di un progetto da metter in atto politicamente: sembra che abbia esaurito le proprie energie utopiche e le sue risorse di senso» (Rosa 2010, p. 334).
Viviamo così il paradosso di un tempo accelerato e immobile (Revault d’Allonnes 2014, p. 114) in cui non accade nulla e non si dà progettualità politica proprio per la mancanza di un tempo condiviso nell'era globale della comunicazione informatica. Infatti ˗ continua il Censis ˗ non c’è «mobilità verticale, sia essa perseguita singolarmente, sia essa espressa in aggregazioni intermedie (sindacali, professionali, sociali); e non c’è neppure mobilità orizzontale, perché la vita viene gestita incastrandosi in luoghi relativamente stabili» (Censis 2014, p. 6). Laddove la parola greca krisis designa la metafora utilizzata in campo biomedico per indicare il momento decisivo del giudizio e quindi della svolta rispetto alla manifestazione sintomatica di una patologia (Bazzicalupo 2010, p. 17), la crisi attuale è il sintomo di un rimosso, di un immaginario spettralizzato (Bazzicalupo 2011, p. 17) che inchioda le nostre vite in un orizzonte indecidibile in cui è sospesa ogni forma di aspettativa. Per questo, il presente segna uno scarto epocale non solo dall’ordine moderno della politica e dal suo progetto autopoietico della storia, basato sulla fede nel progresso, sull’astrazione dal passato e sull’accelerazione come spinta autonoma al cambiamento in ordine a crescenti aspettative. Ma segna un rovesciamento di logica anche rispetto all’immaginario degli ultimi trent’anni che ha mobilitato desideri, progetti di vita e consenso sociale facendo leva sull’idea del ‘capitale umano’: il soggetto economico che si fa imprenditore di se stesso (Foucault 2004) assumendo su di sé i rischi e i costi utili alla massimizzazione del profitto e alla produzione della soddisfazione, cioè del godimento oggettuale immediato (Marazzi 2008, p. 161).
Per capire le ragioni profonde del passaggio dal regime neoliberale del soggetto imprenditore al soggetto indebitato, e per andare alle origini della crisi sistemica in cui siamo coinvolti, occorre risalire alle trasformazioni che ne hanno segnato lo sviluppo a partire dalla svolta post-fordista avvenuta alla fine degli anni Settanta (Marazzi 1999), con il passaggio dal lavoro industriale al lavoro cognitivo e l'avvento della governamentalità neoliberale come nuova forma di razionalità politica (Bazzicalupo 2013, pp. 395-413). Intendo puntare lo sguardo anzitutto su quest’ultimo aspetto: parlo del carattere politico - celato, ma intensamente operativo - di questa razionalità di governo che, ispirandosi alla teorie economiche marginaliste e neo-marginaliste (Buchanan 1989), ha deciso un salto di paradigma nella regolazione del rapporto tra capitale e lavoro e nella produzione di soggettivazioni, cioè nel modo di vivere di donne e di uomini. Dal governo economico esercitato in funzione delle politiche sociali per il benessere della popolazione si è passati, infatti, all’azione di governo esercitata dallo Stato in funzione degli interessi di mercato (Foucault 2004, pp. 51-52), cioè in funzione della concorrenza per la penetrazione di una sempre maggiore libertà d’impresa in ogni sfera della vita.
È quanto prescrive la finanziarizzazione imposta dalla svolta post-fordista: che la vita sia messa al lavoro in ogni suo singolo aspetto – fisico, cognitivo, relazionale, affettivo – e sia valorizzata non più in ragione del salario come prezzo del capitale variabile, ma come “reddito derivante dal rendimento del capitale umano investito” (Marazzi 2008, p. 162). Questa trasformazione bioeconomica del capitalismo contemporaneo (Bazzicalupo 2006; Fumagalli, Mezzadra 2009) - in cui salta la distinzione fra tempo di lavoro e tempo di vita – implica l’attuazione di alcuni passaggi organizzativi, giuridici, istituzionali: la delocalizzazione dell’impresa e la de-contrattualizzazione del lavoro. I contratti collettivi diventano individuali e il lavoratore diviene un soggetto autonomo, isolato, portatore di irriducibili interessi (Marazzi 2008, p. 161), immediatamente concorrenti con quelli dell’altro coinvolto nello stesso ambito produttivo.
È qui che emerge il carattere politico della razionalità neoliberale – negato dalle teorie economiche neoclassiche, ma produttivo di effetti estremamente concreti, come evidenzia in proposito Laura Bazzicalupo. Ed è qui che si precisa l’aspetto più significativo della questione ai fini della nostra analisi. Parlo dell’effetto antropologico prodotto dalla citata trasformazione economica e sociale che la crisi ha radicalizzato nei suoi esiti più sacrificali (Esposito 2014, pp. 207-217). Il fatto di governare le vite in funzione di «una strutturale logica economica (indipendentemente dai campi nei quali viene applicata) che è, come vedremo, compatibile con altre logiche e inclusiva di forme molto eterogenee di intervento» (Bazzicalupo 2013, p. 395) viene annunciata difatti dalla teoria neoclassica come una scelta logica, formale, indipendente dal contesto in cui di volta in volta si attua (Foucault 2004, p. 11). Ma in realtà è la scelta più concreta e interventista che il neoliberalismo potesse perseguire come progetto politico di governo delle vite (Brown 2005). La capacità di aggregare i lavoratori attraverso la concorrenza – nella separazione e diversificazione delle rispettive competenze – deriva da un’azione di governo che assicura l’unità e la coesistenza in vista di una strategia imprenditoriale e non di una progettualità comune (Bazzicalupo 2010, pp. 369-381). Cambia lo scenario descritto dalla politica moderna, fondata sulla mediazione e sulla rappresentanza. A fronte di un «incremento del tasso di ingovernabilità» (Chignola 2014, p. 114), lo scopo politico del progetto neoliberale è di de-sovranizzare lo Stato per creare sempre nuove condizioni di equilibrio in ordine alla finanziarizzazione del capitale e all’esercizio della governance. Il neoliberalismo produce perciò un governo delle diseguaglianze (Lazzarato 2013), neutralizzando ogni forma di mediazione – giuridica, partitica, sindacale - per cooptare direttamente all’interno della società il consenso dei soggetti in ordine al loro potenziamento strategico per l’efficienza e il consumo. Infatti, rileva Christian Marazzi: «La svolta liberista pone un nuovo problema, il problema di individuare nella società civile, prima ancora che nella rappresentanza, quegli stessi elementi che storicamente hanno permesso di assicurare l’unità di un tutto intrinsecamente eterogeneo» (Marazzi 2008, p.160). L’unità di questo tutto intrinsecamente eterogeneo ostacola il progetto, la cooperazione, la lotta comune. E qui arriviamo al cuore del problema, cioè al disagio del soggetto (Borrelli, De Carolis, Napolitano, Recalcati 2013) attraversato da questo processo di individualizzazione nell’orizzonte contemporaneo della crisi.


2. Il tempo della felicità ritrovata

Sandra è un’operaia: lavora in una fabbrica di pannelli solari ed è stata appena licenziata. Due giorni e una notte è il tempo che ha disposizione per convincere i suoi colleghi a rinunciare in una seconda votazione al bonus di mille euro che il padrone della fabbrica ha accordato in cambio del voto favorevole al suo licenziamento. Questo l’incipit del recente film Deux jours, une nuit (Belgio, Francia, Italia, 2014) di Jean-Pierre e Luc Dardenne: un nitido affresco sul presente da cui possiamo trarre alcuni spunti utili alla nostra riflessione sui tempi felici e infelici della vita.
Il primo elemento narrativo che colpisce potentemente lo sguardo è la dimensione di solitudine e di paura in cui vivono i salariati di questa fabbrica. Per niente uniti in un fronte comune contro il licenziamento della collega, già provata da un periodo di isolamento causato dalla depressione. Piuttosto, separati l’uno dall’altro - l’uno contro l’altro - a causa del ricatto imposto da Dumont di scegliere tra i mille euro e il posto di lavoro della donna che forse, proprio per il suo trascorso di sofferenza psichica, è giudicata come ormai inadatta al lavoro. Nella prima votazione, quattordici si esprimono a favore del bonus, due a favore di Sandra. È la logica economica della razionalità neoliberale: generalizza «l’impresa come modello di soggettivazione» (Dardot, Laval 2013) e trasforma la relazione in uno «scambio equivalenziale» (Bazzicalupo 2012, p. 39) mediato dal danaro per la massimizzazione dell’utile e per la soddisfazione di desideri orientati da preferenze, cioè da scelte soggettive, mutevoli, indipendenti dal valore del lavoro e dalla cooperazione di classe. Questo scambio monetario astratto, generalizzato dal regime di impresa in ogni ambito della vita, sfalda in concreto la possibilità di una relazione solidale gratuita e impedisce il prodursi di un’azione politica perché libera il soggetto da quell’obbligo comunitario a cui è vincolato per sua stessa costituzione ontologica. Lo emancipa dal munus (Esposito 1998), il debito inestinguibile verso l’altro che impone un vincolo al di là di qualsiasi conveniente contrattazione monetaria – come per i colleghi di Sandra è conveniente accettare mille euro utili a saldare due rate d’affitto o il prestito rateizzato per la nuova caldaia.
Questo processo di sfaldamento dei legami e di potenziamento dell’io, indotto dai meccanismi produttivi del neoliberismo, affranca il soggetto dalla dipendenza dall’altro per legarlo all’oggetto come via alla felicità edonistica e al godimento immediato (Lipovetsky 2007). È ciò a cui Jacques Lacan fa riferimento quando, a partire dalla riflessione di Marx sul processo di reificazione delle merci, teorizza il «discorso del capitalista» (Lacan 2001) basato su un’economia pulsionale illimitata e sulla «fede nei confronti dell’oggetto di godimento posto come ciò che è in grado di risolvere o di rimediare al dolore di esistere» (Recalcati 2012,p. 13).
Eppure, come già si è accennato, la crisi buca con violenza questo immaginario narcisistico di godimento, rompe l’illusione della relazione salvifica del soggetto con l’oggetto e pone la necessità di una relazione nuova tra soggetto e soggetto. Chiede di guardarsi negli occhi, di parlarsi. Così Sandra, fragile, sofferente, ma incoraggiata dal marito e da un’amica collega a combattere per se stessa, si mette in cammino verso i colleghi per provare a convincerli di votare in suo favore. Li va a cercare, uno per uno, va a bussare alla loro porta. Da alcuni subisce l’umiliazione del rifiuto, da parte di chi aderisce totalmente al registro aziendale dell’impresa e non afferra il livello di sproporzione esistente tra la richiesta dignitosa di mantenere il posto di lavoro e la possibilità di guadagnare dei soldi in più per l’acquisto di merci. Da altri, invece, ottiene un riconoscimento umano inaspettato, commosso, grato per ciò che quell’incontro mobilita: la possibilità concreta di aiutare qualcuno, attivando un gesto di solidarietà che in realtà avrebbe dovuto arrivare prima, in modo spontaneo, incondizionato, verso una collega più vulnerabile e in difficoltà che quando ha potuto – ricorda il collega interpellato - lo ha coperto e salvato dalle difficoltà.
Ma ciò che conta ai fini della nostra analisi e che emerge dal film attraverso una narrazione mai scontata di incontri, scontri, rifiuti, è l’epilogo a cui perviene. Perché riguarda da vicino non solo il nostro tempo di crisi – la detemporalizzazione in cui siamo ingabbiati, senza futuro, senza progetti, in un’immobilità stagnante di desideri e solitudini. Ma riguarda anche la possibilità di riscatto a cui possiamo consegnarci, spezzando la linearità di tempi che spingono all’isolamento e condannano l’infelicità, cioè alla mancata realizzazione di se stessi, del proprio “daimon”, come indica in greco la nozione “eudaimonia”.
Alla fine Sandra otterrà otto voto contro e otto a suo favore. E quando il datore di lavoro proporrà comunque di riassumerla, dopo due mesi di cassa integrazione, non rinnovando il contratto a un altro collega che ha votato in suo favore, allora deciderà di andarsene e di ricominciare da un’altra parte. Ma ora ha un’altra consapevolezza, una nuova serenità, una nuova forza dentro di sé.
Questa storia lascia intravedere la possibilità concreta di essere felici recuperando un tempo comune di azione. Se la nostra infelicità, oggi, viene anzitutto dalla percezione del disagio di essere ingabbiati nei tempi immobili e accelerati della crisi, allora la nostra felicità passa attraverso il recupero di una temporalità comune, fatta di gesti gratuiti in grado di sospendere le ripetizioni, le reificazioni e gli automatismi in cui siamo a nostra insaputa incastrati. Non a caso, uscendo dalla fabbrica, Sandra chiamerà suo marito dicendogli: «Ci siamo battuti bene. Sono felice».


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