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Francesco, la profezia della misericordia

LUIGI ALICI
Articolo pubblicato nella sezione “Il cognome di Dio è ognuno di noi”. La Chiesa di Papa Francesco.

1. Da Ratzinger a Bergoglio

«Tingono di porpora le pergamene, e le fanno scrivere a caratteri d’oro; rivestono i codici di gemme, e intanto Cristo muore nudo davanti alla loro porta»: così scriveva san Girolamo a Giulia Eustochio, figlia della nobildonna romana Paola, denunciando con durezza lo scandalo delle prime bibbie miniate che nella Roma del IV secolo si cominciavano a produrre per i ricchi convertiti al cristianesimo (S. Girolamo, Ep. XXII,32,1). Non è una forzatura eccessiva, forse, collegare queste parole ruvide e provocatorie di san Girolamo a quelle, sicuramente poco diplomatiche e non meno provocatorie, pronunciate dal cardinale di Buenos Aires, Jorge Maria Bergoglio, nelle congregazioni generali prima del conclave: «Le parole di Gesù, “Ecco: sto alla porta e busso” (Ap 3,20), possono essere interpretate come un bussare da dentro, da parte di un Messia tenuto prigioniero da una Chiesa autoreferenziale».
In un contesto di ordinaria transizione da un papato all’altro, sarebbe stato certamente difficile immaginare un intervento cosi poco politically correct; ma è ancor più sorprendente che il suo autore, dopo quelle parole, sia stato eletto papa, in modo rapido e senza incontrare troppe resistenze. Di quell’intervento, tuttavia, si è venuti a conoscenza solo qualche giorno dopo l’elezione di Francesco, grazie al card. Jaime Lucas Ortega y Alamino, arcivescovo de L'Avana, che ha avuto il testo personalmente dal papa. Il suo esordio pubblico, se si vuole, può riassumersi in quel semplice, semplicissimo eppure inimmaginabile “buona sera” con cui il cardinale Bergoglio, appena eletto successore di Pietro, ha salutato dalla Loggia delle benedizioni della basilica di San Pietro il popolo raccolto in piazza, nel tardo pomeriggio del 13 maggio 2013. Un gesto che serviva a instaurare un contatto, non a banalizzare un evento. Quel primo saluto, infatti, si è poi tradotto addirittura in un inchino dinanzi al popolo per recitare insieme una preghiera.
Da allora, il mondo intero ha capito quello che per un manipolo anacronistico di nostalgici di una cristianità compatta (forse quasi mai esistita) continua ad apparire letteralmente inconcepibile: usando le medesime note musicali sul medesimo spartito, è possibile suonare un’altra musica. La straordinarietà dell’elezione di Bergoglio appare ancor più evidente se si pensa che nel conclave precedente c’era stata già una sua candidatura, alla quale era stata preferita quella del teologo Joseph Ratzinger, mentre ora essa ottiene un grande consenso, per di più in un collegio cardinalizio modificato, rispetto al precedente, dalle nuove nomine di papa Ratzinger. L’evento chiave, tuttavia, che consente di contestualizzare l’elezione di papa Francesco è rappresentato dalle dimissioni di Benedetto, che cadono – nell’anno della fede e nella memoria del Concilio – in un momento di grave difficoltà della Chiesa, assediata – ad intra e ad extra – da scandali e scandalismo, aggravati dalla sensazione che i più diretti collaboratori del papa non riuscissero ad offrirgli quella collaborazione leale e competente di cui egli aveva bisogno.
Quando la distanza storica avrà sgomberato il campo da pregiudizi, consentendo una ricostruzione più serena e obiettiva dei fatti, si potrà comprendere appieno l’altezza del magistero teologico di papa Benedetto e il paradosso che l’ombra di un troppo debole contrasto allo scandalo della pedofilia sia caduta alla fine proprio su colui che invece aveva invocato tolleranza zero, sin da quando era Prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede. Nessuno però, già adesso, può valutare la sua rinuncia al pontificato come un gesto di debolezza; si è trattato, al contrario, di un atto di grande coraggio, un coraggio ancor più grande se si pensa che un gesto di forte discontinuità con la tradizione è stato compiuto proprio dal papa più attento alla continuità della tradizione!
Il passaggio da Benedetto a Francesco si presta indubbiamente a una molteplicità di considerazioni: di ordine storico, pastorale, teologico e persino culturale. L’ultima cosa che però si dovrebbe fare, in questo caso, è fermarsi al piano più superficiale, cedendo alla tentazione di un’astratta personalizzazione e riducendo tutto a un confronto – sostenuto da opposte tifoserie – fra due diversi stili di pontificato, che alla fine diventano due diversi profili antropologici. È importante distinguere sempre fra la figura del papa, identificata dalla sua biografia e dalla sua spiritualità, in cui convergono carattere, personalità, formazione, storia personale, e il suo pontificato, qualificato da una trama complessa di contingenze storiche, di eventi ecclesiali e di atti di magistero. Non a caso, la beatificazione o canonizzazione di un papa riguarda sempre le virtù eroiche della sua persona, e solo in minima parte i suoi atti di governo.
Nel caso di papa Francesco, però, manca quel minimo di distanza storica che consente di tenere distinti i due piani. Ad oggi possiamo intravedere la linea di un pontificato che potrà dare i suoi frutti in un futuro forse non immediato, soprattutto a partire da scelte che scaturiscono proprio dalla sua biografia spirituale più profonda e che dobbiamo arrischiarci ad assumere come chiave interpretativa dei concreti atti di magistero in cui essi s’incarnano. Certamente non ci aiutano in quest’approccio, che esige un minimo di sintonia e forse di vera e propria empatia spirituale, le semplificazioni riduttive – a volte quasi caricaturali – che da fronti opposti sono state date della personalità di Bergoglio.
Paradossalmente, in quest’atteggiamento convergono, pur nella massima distanza, il laicismo più aggressivo insieme alle forme di tradizionalismo cattolico più chiuso e nostalgico: nel primo caso, chi crede in una chiesa insuperabilmente retriva e oscurantista assume atteggiamenti ancora più ostili nei confronti di pontefici come Francesco, meno facilmente riconducibili a quello stereotipo, accusandoli di dissimulare l’anima dogmatica del cristianesimo dietro una postura falsamente accattivante e demagogica; nel secondo caso, gli strati di cattolicesimo più “identitario” e tradizionalista, che non accettano di distinguere tra cristianesimo e cristianità, considerano ogni gesto di discontinuità come un attacco mortale al depositum fidei.
In quest’ultimo caso, quanto più i mugugni si trasformano in forme sempre più esplicite di critica e contestazione, tanto più si viene a creare una situazione che ha dell’incredibile: i difensori di una Chiesa gerarchica e “verticale”, che non hanno mai accettato pienamente l’ecclesiologia di comunione emersa dal concilio e che rifiutano fieramente ogni critica contro la gerarchia della Chiesa cattolica, si trovano a giudicare la Chiesa stessa proprio in nome di un giudizio umano troppo umano (il proprio)! In entrambi i casi, paradossalmente, laicisti e tradizionalisti sono d’accordo nell’escludere in modo categorico che il papato possa conoscere la benché minima trasformazione interna, anche di ordine semplicemente pastorale.
Tra i due estremi c’è poi una vasta “terra di mezzo”, in cui si confondono in modo camaleontico superficialità e trasformismo, dove l’esaltazione effimera per quello che viene considerato semplicisticamente un simpatico folclore argentino si mescola con un antico carrierismo opportunistico, che induce a riposizionarsi rapidamente nella topografia ecclesiale, cambiando slogan e citazioni.


2. Azione e contemplazione

Rispetto a questi approcci semplificati e fuorvianti, un tentativo di interpretare il magistero di papa Francesco, che possa avvicinarci alla radice profonda della sua storia personale, può essere forse guidato dalla ricerca di una sorta di “profezia della misericordia”, in cui il primato della contemplazione e l’invito ad “abitare le periferie” trovano un loro punto di sintesi. È certamente riduttivo confondere la misericordia con il buonismo, inteso come un’alternativa emozionale alla giustizia, così come scambiare la povertà con il pauperismo, che è ne una banalizzazione materialistica. L‘equivoco non è nuovo, e per vincerlo occorre scavare in profondità nel mistero dell’amore cristiano con la radicalità dello spirito contemplativo e la libertà interiore della profezia cristiana, restituita alla sua radice autenticamente evangelica.
Credo che l’anima più profonda dell’appello di Francesco alla misericordia prenda forma nella profondità contemplativa della sua spiritualità, che risalta dalla sobrietà del suo stile di vita e ancor più dalla scansione metodica del tempo dedicato alla preghiera. Papa Francesco è un uomo costantemente immerso nella preghiera, “confidente in sé e in Dio”, come ha scritto il biografo Paul Valley. Una preghiera, si potrebbe aggiungere, che vive di una continua circolarità di azione e contemplazione. La prima intervista di papa Bergoglio a Eugenio Scalfari (“Repubblica”, 1 ottobre 2013) contiene una confidenza preziosa proprio intorno al valore dell’esperienza mistica: dopo aver dichiarato che i mistici «sono stati fondamentali» per la Chiesa, poiché «una religione senza mistici è una filosofia», il papa simpaticamente rimanda al direttore una sua domanda circa la natura mistica della propria vocazione («A lei che cosa le sembra?»), dichiarandosi in parte d’accordo («Probabilmente ha ragione»). L’avverbio non è trascurabile.
Aggiunge subito dopo, però: «Adoro i mistici… Il mistico riesce a spogliarsi del fare, dei fatti, degli obiettivi e perfino della pastoralità missionaria e s’innalza fino a raggiungere la comunione con le Beatitudini. Brevi momenti che però riempiono l’intera vita». Alla domanda, a questo punto inevitabile di Scalfari («A lei è mai capitato?»), papa Francesco risponde con un «Raramente» (altro avverbio non trascurabile), aggiungendo che uno di questi momenti ha coinciso con la sua elezione.
Le parole con cui viene descritta quella esperienza meritano di essere lette con attenzione, senza dimenticare, anche in questo caso, una prevedibile tendenza a ridimensionare più che a sovrastimare: «Prima dell’accettazione chiesi di potermi ritirare per qualche minuto nella stanza accanto a quella con il balcone sulla piazza. La mia testa era completamente vuota e una grande ansia mi aveva invaso. Per farla passare e rilassarmi chiusi gli occhi e scomparve ogni pensiero, anche quello di rifiutarmi ad accettare la carica come del resto la procedura liturgica consente. Chiusi gli occhi e non ebbi più alcuna ansia o emotività. Ad un certo punto una grande luce mi invase, durò un attimo ma a me sembrò lunghissimo. Poi la luce si dissipò io m’alzai di scatto e mi diressi nella stanza dove mi attendevano i cardinali e il tavolo su cui era l’atto di accettazione. Lo firmai, il cardinal Camerlengo lo controfirmò e poi sul balcone ci fu l’“Habemus Papam”».
Il rapporto tra l’intensità – quasi atemporale – del momento contemplativo e la rapidità dell’azione successiva («mi alzai di scatto») può offrirci, a mio avviso, una chiave di lettura importante di questo pontificato, che si va costituendo proprio come un “pontificato della soglia”, in cui contemplazione e azione entrano in circolo in modo nuovo e proprio per questo dirompente.
Può essere importante, a tale scopo, rileggere soprattutto alcune affermazioni tratte dall’esortazione apostolica Evangelii Gaudium, sull'annuncio della fede nel mondo attuale, promulgata il 24 novembre 2013, giorno di chiusura dell'anno della fede, in cui sono autorevolmente riassunti e rilanciati i punti qualificanti del Sinodo del 2012. Dopo l’enciclica Lumen fidei, che rappresenta in un certo senso un passaggio di testimone da Benedetto XVI a Francesco, Evangelii Gaudium è molto di più che un'enciclica: un testo straordinariamente ampio e organico, che ha il carattere di un vero e proprio manifesto programmatico del suo pontificato.
L’intensità vibrante di molte immagini, insolite e a volte al limite della provocazione, quali emergono non solo dai numerosi interventi a braccio, ma anche da testi più meditati e autorevoli, è testimoniata in modo evidente anche in Evangelii Gaudium, dove l’appello alla preghiera scaturisce dall’avvertimento della forza seducente del mistero di Dio: «abbiamo bisogno di soffermarci in preghiera per chiedere a Lui che torni ad affascinarci» (EG, 264). Per questo la preghiera d’intercessione non può mai essere disgiunta dalla contemplazione: «Così scopriamo che intercedere non ci separa dalla vera contemplazione, perché la contemplazione che lascia fuori gli altri è un inganno» (EG, 281). L’intercessione, infatti, «è come “lievito” nel seno della Trinità. È un addentrarci nel Padre e scoprire nuove dimensioni che illuminano le situazioni concrete e le cambiano» (EG, 283).
Se è vero che l’essenza della mistica, oltre la fatica dell’ascesi, si coglie nel mistero di una comunione profonda con Dio – «come un “lievito” nel seno della Trinità» –, l’effetto benefico di questa comunione si manifesta nella capacità di entrare coraggiosamente anche dentro il mistero profondo dell’umano, per andare incontro senza paura alle sue innumerevoli ferite e fragilità. Siamo agli antipodi di ogni forma di spiritualismo evasivo e disincarnato: lo spirito autenticamente contemplativo non è mai una fuga dinanzi alle urgenze del mondo. La fuga dal mondo per il contemplativo è sempre una tentazione, mai un obiettivo. Papa Francesco ne esplicita le ragioni teologiche: «A volte sentiamo la tentazione di essere cristiani mantenendo una prudente distanza dalle piaghe del Signore. Ma Gesù vuole che tocchiamo la miseria umana, che tocchiamo la carne sofferente degli altri» (EG, 270). Nello stesso tempo, è vero anche il reciproco: «Ogni volta che ci incontriamo con un essere umano nell’amore, ci mettiamo nella condizione di scoprire qualcosa di nuovo riguardo a Dio» (272).
In questa prospettiva, il rimando alla radicalità del messaggio evangelico, la restituzione della Chiesa a una purificata comunione nell’essenziale e l’appello accorato a preferire le “periferie esistenziali” ai salotti buoni trovano proprio nella misericordia una sorta di catalizzatore di ordine teologico, pastorale e culturale insieme. Il messaggio fondamentale è quello di una Chiesa «in uscita», «con le porte aperte» (EG, 39); oltre ogni «mondanità asfissiante» (EG, 97), essa deve «avanzare nel cammino di una conversione pastorale e missionaria, che non può lasciare le cose come stanno» (EG, 25). L’appello a una radicale trasformazione missionaria della Chiesa non ha nulla di moralistico e non cade in uno spiritualismo disincarnato: la tonalità fondamentale è mistica più che etica («è urgente recuperare uno spirito contemplativo», EG, 265); l’appello predilige l’ottativo all’imperativo; la gioia della gratitudine oscura la semantica volontaristica del dovere.
Non si deve dimenticare, peraltro, il motto scelto da Bergoglio dopo la sua ordinazione episcopale: “Miserando atque eligendo”. L’espressione, di Beda il venerabile, colloca l’elezione divina sotto il segno di un atto di suprema misericordia. Secondo quest’affermazione, il cristiano non può rivendicare nessuno statuto privilegiato al di fuori di tale elezione: perciò, sulla via in cui misericordia e miseria s’incontrano, l’abbraccio del Padre misericordioso con il figlio pentito non può essere ostacolato da un figlio maggiore preoccupato solo dei propri privilegi, che detta dall’alto le condizioni di tale incontro come un arcigno “doganiere della fede”.


3. La profezia della misericordia

Il primato della misericordia – come ci hanno ricordato alcune figure straordinarie di mistiche del Novecento, da santa Faustina Kowalska alla beata madre Speranza di Gesù – nasce dalla capacità di tenere insieme, quasi in un difficilissimo abbraccio spirituale, un doppio eccesso: da un lato, l’eccesso gratuito dell’amore divino («La salvezza che Dio ci offre è opera della sua misericordia»: EG, 112); dall’altro, l’eccesso della miseria umana, dinanzi alla quale la Chiesa non può voltarsi dall’altra parte e continuare a “rivestire i codici di gemme”, secondo le parole di san Girolamo. Ne discende una scelta di campo inequivocabile: «Preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze» (EG, 49).
Nessuna novità: semplicemente un ritorno alla migliore tradizione cristiana. Non a caso, papa Francesco ricava da san Tommaso il riconoscimento della misericordia come la più grande di tutte le virtù (EG, 37) e insieme l’affermazione (che pure sembra turbare tanto i custodi di un tradizionalismo di corte vedute) secondo cui «i precetti dati da Cristo e dagli Apostoli al popolo di Dio “sono pochissimi”» (EG, 43).
Il senso dell’opzione per i poveri è prima di tutto «una categoria teologica» che radicalizza il compito della missione evangelizzatrice della Chiesa, liberandolo da incrostazioni storiche e riportandolo all’essenziale: «Una pastorale in chiave missionaria non è ossessionata dalla trasmissione disarticolata di una moltitudine di dottrine che si tenta di imporre a forza di insistere» (EG, 35); non si può restare fedeli a una formulazione senza trasmettere la sostanza (EG, 41). Non solo empatia, dunque, né demagogia pauperistica, ma una nuova forma Ecclesiae, che dev’essere purificata da ogni appesantimento improprio. La rigenerazione della fede cristiana comincia sempre dal togliere piombo dalle ali della Chiesa, liberandola coraggiosamente da sacralizzazioni indebite, paludamenti anacronistici, sintesi storiche dettate più da un soffocante manierismo precettistico che da un affidamento lieto e coraggioso alla profezia del Vangelo. Per questo, dinanzi a troppi «cristiani da salotto», Francesco chiede allo Spirito che «ci dia anche la grazia di dar fastidio alle cose che sono troppo tranquille nella Chiesa; la grazia di andare avanti verso le periferie esistenziali» (Omelia a Santa Marta, 16 maggio 2013).
Nello stesso tempo, però, la misericordia cui si richiama papa Bergoglio non ha nulla a che vedere con una forma indolore di “assistenzialismo compassionevole”, come unica alternativa a ogni deriva marxista, secondo lo schema semplificato dei conservatori nordamericani, o peggio verso atteggiamenti ultraradicali e addirittura leninisti (“The Economist”, 20 giugno 2014)! La denuncia della spregiudicata finanziarizzazione dell’economia lo conferma in modo inequivocabile. Il giudizio sulla «cultura dello scarto» (EG, 53) e sulla «globalizzazione dell'indifferenza» (EG, 54) è netto e le conseguenze esplicite: in negativo («Il sistema sociale ed economico è ingiusto alla radice»: EG, 59) e in positivo («La terra è la nostra casa comune e tutti siamo fratelli»: EG, 183). Per questo, la scelta di «una Chiesa povera per i poveri» (EG, 198), esige la capacità di pronunciarsi sulle cause della povertà, a cominciare da un'affermazione di fondo: la «funzione sociale della proprietà e la destinazione universale dei beni» sono «realtà anteriori alla proprietà privata» (EG, 189) e oggi «non possiamo più confidare nelle forze cieche e nella mano invisibile del mercato» (EG, 204). Senza proporre un «populismo irresponsabile», papa Francesco afferma che «l'economia non può più ricorrere a rimedi che sono un nuovo veleno, come quando si pretende di aumentare la redditività riducendo il mercato del lavoro e creando in tal modo nuovi esclusi» (EG, 204).
La vera misericordia, dunque, non è solo retroguardia assistenzialistica, ma anche avanguardia profetica e lungimiranza progettuale. Si possono ricordare, a questo proposito, le parole del vescovo Tonino Bello, che invocava, accanto al “samaritano dell’ora giusta” e a quello dell’“ora dopo”, anche il “samaritano dell’ora prima”: infatti, «se il samaritano fosse giunto un’ora prima sulla strada, forse l’aggressione non sarebbe stata consumata». È questo il terreno elettivo in cui la misericordia deve manifestare tutta la sua rivoluzionaria forza progettuale: «la “misericordia”, cioè la “compassione del cuore”, nel politico deve diventare anche “compassione del cervello”. E allora è necessario che egli ami prevedendo i bisogni futuri, pronosticando le urgenze di domani, intuendo i venti in arrivo, giocando d’anticipo sulle emergenze collettive, utilizzando il tempo, che ordinariamente spreca nel riparare i danni, a trovare il sistema per prevenirli» (Bello 2005, p 19).
Bisogna partire da questo radicamento contemplativo per cogliere l’incontro tra miseria e misericordia e avvicinarci alla matrice generativa dei gesti di grande libertà profetica di papa Francesco; a cominciare dalla scelta di risiedere a Santa Marta, in cui Massimo Franco – forse con un eccesso di enfasi – vede il gesto esemplare e riassuntivo di tutto il suo magistero: «Dopo la desacralizzazione del pontificato dovuta alla rinuncia di Benedetto XVI, ora il successore desacralizzava i luoghi che ne erano stati muti spettatori. Per questo rifiutava l’abitazione che per un secolo almeno era stata il cuore più segreto e impenetrabile del potere vaticano» (Franco 2014, p. 23).
Fra questi gesti, oltre le forme più disparate di contatto diretto con la gente, anche attraverso il telefono, occupano un posto rilevante certamente i suoi viaggi. Ha scritto Alberto Melloni: «Le sue visite sono come puntini, unendo i quali appare un disegno» (Melloni 2014, p. 34). Un disegno in cui la miseria provoca la misericordia: Lampedusa, Cagliari, Assisi, Cassano all’Jonio, Campobasso, Caserta in Italia; Rio de Janeiro, Terra Santa, Corea all’estero. Come dimenticare, poi, lo straordinario evento di preghiera per la pace, realizzato l’8 giugno 2014 (domenica di Pentecoste!), in Vaticano, tra il Patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo, il presidente dello Stato d'Israele Shimon Peres e il Presidente della Palestina Abu Mazen. La cronaca ha subito gelato le speranze di quell’ulivo piantato insieme in Vaticano; una recrudescenza che forse potrebbe essere letta in una luce diversa se si lascerà germinare questa generosa e intelligente seminagione di pace.
Piero Schiavazzi, che commenta lucidamente i viaggi del papa, ha sottolineato in particolare la portata storica della visita in Asia, arrivando a descrivere papa Francesco “sulle orme di Leone Magno”, come “forza di interposizione”, dopo 1500 anni, di fronte alle barbarie (Schiavazzi 2014). Dopo la delirante esplosione di violenza degli jihaidisti in Iraq, la delusione di qualche “laico devoto”, che si aspettava la benedizione papale su un bel bombardamento “in nome dei cristiani” è una conferma ulteriore della inadeguatezza di categorie culturale ormai anacronistiche e datate dinanzi alla novità di papa Francesco. Qualche vessillo identitario dovrà essere finalmente ammainato: la profezia della misericordia usa anche le bandiere per farne delle bende; senza stancarsi di evocare, accanto al “samaritano dell’ora dopo”, anche la lungimiranza preveniente del “samaritano dell’ora prima”.


Riferimenti bibliografici

Bello A. (2005), Mistica arte. Lettere sulla politica, La meridiana, Molfetta.
Francesco (2013), Esortazione Apostolica Evangelii Gaudium, 24 novembre 2013.
Franco M. (2014), Il Vaticano secondo Francesco, Mondadori, Milano.
Melloni A. (2014), Papa Francesco andrà a Redipuglia. La pace come risorsa europa, “Il corriere della sera”, 2 settembre 2014.
Schiavazzi P. (2014), Francesco sulle orme di Leone Magno, “Huffigton Post”, 19 agosto 2014.



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