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La fine di un mondo? La scuola nelle crisi delle sovranità

GIUSEPPE TOGNON
Articolo pubblicato nella sezione: Il "vissuto" della crisi - Testimonianze.

È difficile individuare la direzione dei cambiamenti che sono intervenuti nelle società contemporanee sull’onda di una serie di crisi che paiono non finire mai. Si tratta forse ancora di quell’unica grande crisi culturale che ha segnato il trapasso dall’Ottocento delle grandi sintesi sociali al Novecento delle soggettività complesse o invece di una sua forma inedita? La domanda è rilevante per analizzare le trasformazioni dei mondi della scuola, che sono sovrabbondanti rispetto i confini geopolitici delle nazioni e delle aree economiche e che sono cresciuti in tutte le latitudini e in tutte le società. L’espressione «mondo della scuola» vuole indicare l’eccedenza antropologica che nella società globalizzata il problema della cultura dell’istruzione ha ormai assunto nei riguardi di qualsiasi forma scolastica e di qualsiasi regime politico.
L’ignoranza non è più di casa in nessun sistema politico, eppure i sistemi scolastici arrancano dietro una domanda di qualità e di efficienza a cui non sanno dare risposte soddisfacenti. La mia tesi è che la crisi dei numerosi mondi della scuola sia il risultato di un’importante novità: la fine di antiche forme culturali di sovranità, in primis quella statuale e giuridica, che nella loro caduta trascinano in basso le proprie membra, in particolare le Scuole, che di tutte le grandi organizzazioni sociali sono quelle che più hanno prosperato grazie all’autorità degli Stati e alla pervasività del diritto pubblico. Fino a circa un secolo fa, anche i meccanismi di dura selezione sociale erano rappresentativi di una teoria politica che li presupponeva, per cui la frequenza di determinate scuole e l’appartenenza a determinati ceti era da un lato espressione di una visione del mondo che legittimava uno Stato, ma dall’altro anche il luogo dello scambio possibile tra cultura ed emancipazione sociale che portava ad esaltare la sovranità della forma moderna di ogni Stato. Siccome lo Stato si esprime principalmente con le leggi e siccome però le leggi sono il prodotto delle stesse forze politiche che lo Stato è chiamato a regolare, è evidente che con la crisi della sovranità degli Stati ha preso il sopravvento una rule of law - fondata sui precedenti e sulle circostanze - che sta soffocando la necessità di pensare a forme diverse, innovative, di mondi della scuola, con la progressiva fuoriuscita dell’istruzione dalla sfera delle statualità.
L’istituzione scolastica ha rappresentato per almeno due secoli il primo pilastro «di una integrazione verticale fondata su tre obbligazioni: scolastica, militare, fiscale. L’educazione alla cittadinanza era allora appannaggio di una educazione nazionale» (Ferry - De Proost 2003, p. 9). Le Muse delle origini della cultura greca o i miti di ogni civiltà raccontano di esperienze conoscitive tipicamente umane - religione, musica, teatro, poesia, scultura - che non contemplavano di diventare materie scolastiche, perché erano tipiche dell’uomo e non di una città. Nel corso dei secoli le Muse sono scomparse a vantaggio dei sovrani e degli Stati che hanno imposto una prospettiva giuridica della cittadinanza e una prospettiva economicistica del sapere. La luce neoilluministica che avvolge il mondo contemporaneo non ha più origine dall’etica del sapere aude e in un progetto di liberazione dal pregiudizio, ma dalla matrice romantica del desiderio di potenza, dalla routine del sapere. La sempre maggiore decadenza della scrittura, che per millenni è stata il simbolo del potere e la forma perfetta della sovranità sul tempo e sullo spazio, ne è un sintomo evidente.
Mentre il mercato, sia pure faticosamente, si è adattato al venir meno della società delle Nazioni, gli attori che si muovono nel mondo della scuola - insegnanti, studenti, famiglie - sono disorientati e restano attaccati a comportamenti riflessi, poco propositivi, o a forme di dedizione di alto valore simbolico ma di scarsa rilevanza sistemica. Si muovono le informazioni e le merci, ma la scuola non seleziona e non muove più le idee: le persone studiano e apprendono voracemente e disordinatamente, ma non elaborano o non maturano convinzioni sociali e forti visioni del mondo nelle quali la cultura della formazione sia al vertice della piramide sociale. Le scuole nazionali sono le prime vittime della cultura della crisi della forma statuale di sovranità: sono tramontate senza che sia apparsa sulla scena una nuova teoria del sapere che possa proporsi come fattore decisivo del governo del mondo. La scuola sta vivendo il passaggio a forme inedite di educazione transnazionale in maniera schizofrenica: gli studenti e i docenti sono stati globalizzati all’interno di un generale ripiegamento dei loro diritti e del prestigio sociale dell’istruzione (con l’eccezione delle sedi per la costruzione delle élites, costosissime), mentre i sistemi scolastici universalistici vivono come appendici di sovranità statuali o nazionali in disarmo, esposte ai venti e all’influenza di tutte le crisi, incapaci - per dimensione o per mancanza di potere contrattuale - di difendersi dagli attacchi esterni e dalla corrosione interna.
Se è evidente la necessità di superare soluzioni fondate sulla semplice buona volontà dei protagonisti per affrontare invece questioni strutturali, come la trasformazione del modello tradizionale di scuola, è tuttavia opportuno chiedersi verso quale meta andare. Il problema politico dell’istruzione per il futuro è quello della affermazione di un cosmopolitismo strutturato dove l’autorità degli stati e delle leggi si trasformi in un dato culturale, rilevante e tuttavia subordinato ad una forma di cittadinanza dell’intelligenza che superi il dato dell’origine, della lingua, dell’appartenenza ad una comunità. In una prospettiva cosmopolita la Scuola (così come tutte le altre forme di convivenza finalizzata) è forse l’unica esperienza, condivisa da tutti i popoli, capace di porsi al livello del genere umano e dunque di superare la logica della solidarietà/identità (in sé è un paradosso) che priva sterminate masse di esseri umani di ogni reale chance di ricostruire su basi nuove lo spazio pubblico entro il quale partecipare alla costruzione di un nuovo ordine politico. Lo studente russo, come quello argentino o indiano o statunitense, avrà mai il diritto di considerare la sua formazione come il tributo che ogni comunità, ogni stato, deve pagare alla società umana prima che al proprio interesse nazionale? E coloro che non dispongono ancora dell’accesso alla libertà e alla partecipazione politica da chi potrebbero essere tutelati ai fini della realizzazione dei loro diritti umani? Sono questioni delicate e complesse ma non inedite, che vengono riproposte nel XXI secolo così come in altre forme sono state affrontate nell’età antica o alle origini dell’epoca moderna.
Analizzare le ragioni che dovrebbero spingere una società ad istruire in modo adeguato ed efficace tutti i propri membri, è oggi più difficile di un tempo, soprattutto perché all’adozione pressoché universale dell’obbligo scolastico e formativo si è accompagnata la tendenza a scaricare sul mondo della scuola compiti che prima erano assolti al di fuori di essa, nel concerto di varie istituzioni. L’istruzione è certamente funzione delle risorse economiche che si vogliono investire per lo scopo, ma il numero di fattori che concorrono alla progettazione o alla ristrutturazione dei sistemi d’istruzione è progressivamente aumentato insieme alla consapevolezza delle innumerevoli potenzialità della tecnica, della mente e della socializzazione (Cipolla 2007). Negli anni Sessanta se ne indicavano sette, mentre studi recenti ne individuano almeno il doppio: accanto alle strutture familiari e sociali, ai sistemi politici e religiosi, alla stratificazione sociale, alle risorse economiche, alle trasformazioni industriali, oggi troviamo anche la riqualificazione del lavoro e l’occupabilità, la gestione dei fenomeni migratori, le questioni di genere, le questioni psicobiologiche, il prolungarsi della durata di vita, l’innovazione tecnologica, la trasformazione dell’idea di benessere… L’aumento di motivazioni a favore delle riforme dell’istruzione non ha tuttavia portato a risultati soddisfacenti, anche perché questi dipendono comunque dall’immagine sintetica del soggetto a cui si riferiscono e cioè dal prestigio della scuola e dalla legittimazione di cui gode l’autorità che ne è il committente.
Il mercato economico, ad esempio, benché sia più potente dell’autorità degli Stati, non ha ancora raggiunto la loro forza e non può contare sulla stessa autorità morale: per queste ragioni anche il liberalismo ha rinunciato ormai da tempo a sostenere la libertà formativa e scolastica contro lo Stato. I sistemi scolastici di massa sono per altro l’esempio dell’inefficienza del mercato: l’istruzione è generalmente un bene pubblico gestito di fatto da stati monopolisti ed entrambe queste caratteristiche sono considerate dalla teoria economica contrarie alla possibilità di una perfezione di mercato. Non è stato e non sarebbe un problema insormontabile, se solo si disponesse ancora di argomenti condivisi per sostenere la validità di scelte costituenti che hanno plasmato la democrazia nelle Nazioni e che hanno accompagnato la costruzione di forme evolute di welfare scolastico. Non è più così anche se purtroppo l’opinione pubblica e i decisori si ostinano a credere che sia possibile applicare alla scuola nuovi criteri di efficienza senza rimettere in discussione il diritto pubblico e la natura del rapporto tra gli Stati e il diritti di istruzione. La legge e l’organizzazione della società rimangono il cuore di ogni questione di giustizia e, come sostengono in molti, tra cui M. Sandel nel suo fortunato Justice (2009), anche del problema della libertà che è alla base dell’antropologia pedagogica liberale.
Anche chi vuole impostare il ragionamento a partire da assiomi di carattere antropologico e religioso, sostenendo il valore assoluto della persona umana, non sembra avere argomenti sufficienti per contrastare la convinzione che solo gli Stati sono in grado - per dimensioni e per potenza - di trattare la questione dell’istruzione come questione pubblica. Il confronto nei diversi Stati tra i sostenitori della scuola statale e i sostenitori della scuola non solo statale è ancora tutto interno al riconoscimento dell’autorità dello Stato. Da un lato, pretendendo l’universalità e scambiando la mobilità delle merci e delle persone con la natura della democrazia, l’ideologia sociale dominante distrugge le identità fondate su equilibri materiali e culturali di lungo periodo; da un altro lato, soffocando la speranza di fare della democrazia politica la nuova frontiera per un’identità cosmopolita, riproduce oligarchie e minoranze di blocco al posto di comunità espansive.
L’ostinazione con cui si continua a sostenere una lettura della scolarizzazione all’interno delle teorie del capitale umano o del capitale sociale - tutte parziali - è sintomo dell’inaridirsi di una cultura dell’istruzione a fondamento antropologico e politico che ha sostenuto l’imponente processo di alfabetizzazione e di secolarizzazione del sapere in età moderna. A partire dal Quattrocento l’istruzione ha assunto il compito di sostenere lo sviluppo di nuove sovranità fondate sul sapere nel passaggio da una sovranità di stampo teocratico a sovranità di stampo antropologico e critico. Gli Stati nazionali, che sono stati certamente protagonisti di questa secolarizzazione, sono stati più l’effetto che la causa di grandi cambiamenti culturali e sociali sorti a partire da questioni culturali di fondo che poco avevano a che fare con gli ordinamenti del diritto pubblico. Sono stati il frutto di iniziative sociali orientate dalla religione, dall’economia e dalle scienze, che hanno trovato nell’industria del sapere un campo di azione all’interno del quale costruire una coerenza - per quanto fragile - tra cultura del sapere e cultura del potere.
La causa principale di questo nostro attuale smarrimento culturale nel disegnare il riformismo possibile per la scuola del futuro è stata proprio il venir meno di tutte le teorie del potere fondate sul valore di fini immutabili, a vantaggio del potere di valori che, intercambiabili, sono il frutto di decisioni collettive. Come scrive P. Rosanvallon (2009, 242) «la nuova utopia della trasparenza diventa il motore stesso del disincanto (rispetto alla politica) che essa tendeva a scongiurare». L’ossessione della crisi determina le condizioni per un’insicurezza radicale delle società più ricche che vivono dissipando beni comuni - tempo, spazio, salute, relazioni, conoscenze e legami - nella speranza di poterli sostituire con beni artificiali effimeri o surrogatori.
Accanirsi senza idee sul malfunzionamento degli apparati scolastici ha di conseguenza scarsi effetti: va ripensato il modello storico del rapporto tra diritti dei singoli e diritti della collettività e di quale collettività, se comunitaria, nazionale, locale, elettiva, professionale... Fino a pochi decenni fa per definire il quadro di riferimento potevano bastare il confine degli stati e le differenze di classe perché tutto ruotava intorno al rapporto tra le forme di democrazia e il modello di capitalismo. Oggi sono in crisi entrambi. Il problema più interessante da studiare non è più quello delle ragioni tradizionali della disuguaglianza sociale (origine, contesto, forza contrattuale dei singoli e dei gruppi) bensì quello del confronto tra «permanent-versus-transitory nature of rising inequality», cioè della riproducibilità su piani diversi e secondo logiche non lineari di forme articolate di disuguaglianza.
Un caso esemplare è quello del merito o della sua forma ideologica che è la meritocrazia. Il merito è un’idea ambigua: da un lato giustifica e legittima le ineguaglianze, dall’altro misura il valore della volontà dei singoli di elevarsi socialmente, di competere. L’idea che il merito sia funzionale al superamento delle disuguaglianze è falsa perché anzi tende a rifiutare e a delegittimare le esternalità che possono concorrere all’insuccesso - il caso, le circostanze non favorevoli, le differenze d’intelligenza, le situazioni di contesto ecc. Ciò ha particolare importanza nel mondo della scuola: la meritocrazia scolastica non è vissuta dagli studenti e dagli insegnanti come un modello positivo di riequilibrio delle ingiustizie sociali di origine e anzi conduce a effetti contradditori: mentre porta a mettere radicalmente in discussione il valore dei diplomi (essi sono 1) non veritieri; 2) non coerenti con il mercato del lavoro e la professionalità richiesta; 3) una volta per tutta la vita e quindi obsoleti), pretende di contrapporre ad essi il riconoscimento legale di altri meriti. Tuttavia le indagini mostrano che non c’è ancora una maggioranza in grado di rimettere in discussione il valore legale dei diplomi o - dove esso non esiste - il valore di una selezione troppo precoce o astrattamente costruita su test ormai inefficaci. In conclusione: il modello delle gerarchie sociali come prefigurazione delle gerarchie scolastiche (la riproduzione sociale di Bourdieu e Passeron, per non citare che due sociologi molto noti) non è più riconosciuto valido né da chi sostiene la meritocrazia né da chi lo utilizza per intervenire a spezzarle. Thomas Nagel (1993) si è chiesto se è moralmente ammissibile che qualcuno venga avvantaggiato nell’esercizio del potere per qualcosa che gli è stato concesso dalla natura. Ma vale anche il reciproco, e cioè chiedersi se è giusto compensare quello che la natura non ha concesso a tutti. Come a dire - scrive S. Zamagni (2000), che distingue tra meritocrazia e meritorietà - «che non è giusto che una grande competenza scientifica o un’elevata produttività siano in grado di avanzare un’automatica legittimazione di pretese politiche di potere».
D’altra parte non esiste un diritto internazionale scolastico, se non come espressione remota dei diritti fondamentali dell’uomo. Non è concepibile l’uso della forza o l’ingerenza umanitaria a favore di enormi masse di bambini che vengono alfabetizzati male e poco; non è all’orizzonte una agenzia internazionale per l’istruzione a cui affidare il compito di adattare modelli di alfabetizzazione elaborati sua scala planetaria alle singole situazioni regionali; non è ancora nemmeno lontanamente concepibile che i paesi dell’Unione europea rinuncino alla propria sovranità scolastica e pedagogica. Nei suoi principi ispiratori, l’architettura scolastica dei paesi occidentali - ad esempio i paesi OCSE - è molto simile, mentre differisce enormemente - fino a rasentare la babele - nei sui sviluppi regolatori, perché il diritto scolastico è stato permeato dal diritto pubblico e in particolare dal diritto amministrativo dei singoli paesi, che hanno conosciuto vicende storiche molto complesse. In definitiva, la concezione che sovraintende ai sistemi scolastici nazionali è ancora quella formatasi nell’Ottocento per cui la scuola era o doveva diventare un ufficio dello Stato, una sua articolazione funzionale. Noi sappiamo che non può più essere così (in Italia la consapevolezza maturò alla fine degli anni Ottanta, ad esempio nella importante Conferenza nazionale della Scuola che si tenne sotto l’egida del Ministero nel 1990), ma non riusciamo a declinare i principi contenuti nella Costituzione in forme di governo della scuola che siano coerenti con nuovi assetti dell’organizzazione del mondo. Da questo punto di vista l’approccio federalista appena tentato anche in Italia si è rivelato un fallimento e sarebbe comunque insufficiente.
È evidente che i mondi della scuola per rinascere hanno bisogno di utopie e di punti fermi da cui prendere le mosse per il riconoscimento di una cittadinanza di intelligenza che compete ad ogni essere umano. Come aveva tentato di dire, con spirito profetico, Ernesto Balducci nell’ultima sua conferenza prima della morte (1992): «Emerge, in chi rifletta sulla condizione dell’umanità, così com’è oggi, un principio che i nostri padri non potevano prendere in considerazione, un principio biologico. Noi dobbiamo ricordarci di essere membri dell’unica indivisibile specie umana, il resto va messo tra parentesi, non è rilevante. Quindi l’etica del futuro è un’etica planetaria in quanto assume come principio risolutivo di tutti i problemi il bene comune, non dell’Italia, dell’Europa, ma del genere umano come tale. […] In un tempo del genere la scuola non ha perso affatto il suo compito. Se si limita a essere un supporto del sistema vigente è meglio che finisca. […] Ma se la scuola è creazione di questa nuova coscienza, se è il luogo istituzionale in cui questa coscienza insieme la creiamo, senza subalternità a nessuna ideologia, ma con fedeltà all’impulso costitutivo della nostra dignità umana, allora, la scuola ritrova in pieno la sua dignità e la sua funzione» (Balducci 2000, p. 15).
Anche la pedagogia deve fare la propria parte, perché anch’essa è figlia della rule of law che ha generato lo spazio pubblico degli Stati. Ogni bambino è dovunque educato a convivere con gli altri, ma raramente gli si insegna che la convivenza non è semplicemente una tecnica per sopravvivere o per affermarsi, ma è la forma dinamica di un’appartenenza universale dell’uomo all’umanità. Non mancano teorie e analisi (ad esempio di I. Berlin) che spingono verso forme non eversive di superamento del tradizionale giurisdizionalismo. Ma a fronte di uno sforzo poderoso di ridefinizione dei paradigmi dell’istruzione, l’approccio più comune per fissare le finalità dell’apprendimento anziché tentare una sintesi valoriale più alta è ancora quello di frammentare ciascuna finalità in parti sempre più specifiche. Questo approccio analitico è anche figlio della pedagogia e della teoria sociale contemporanee, ma non riesce più a render ragione dell’espansione delle conoscenze e della volubilità emotiva della società della comunicazione. Martha Nussbaum ha fatto di questo tema, cioè del confronto tra una pedagogia umanistica di visione globale e una pedagogia antiumanistica di funzione (le definizioni sono mie) un cavallo di battaglia per promuovere una nuova cultura dei diritti dell’uomo. Il futuro non può essere affrontato utilizzando esclusivamente competenze individualistiche o competenze competitive decise non dai soggetti ma da necessità che appaiono tali ma sono invece il risultato di orientamenti imposti e di forze dominanti. C’è bisogno di stendere nella società una rete di alfabetizzazione primaria fondata sulla capacità di creare – anche tra il passato e il presente − relazioni sentite e rappresentazioni appassionanti del mondo. Le società scolastiche odierne rischiano invece di restare un fenomeno grandioso di organizzazione che opera in massa e per la massa ma − come diceva uno dei maggiori teorici delle crisi della società capitalistica, Schumpeter – senza la massa, cioè pretendendo di coinvolgere sempre meno gli individui in compiti di responsabilità.
Per creare interdipendenza positiva di apprendimento servono oggi più di prima le competenze sociali (Comoglio, 1998) tipiche di ogni buon cittadino - serve la teoria greca della democrazia? - che sono a fondamento della convivenza fondata sulle leggi: saper comunicare, saper gestire i conflitti, saper riconoscere ed attribuire l’autorità, saper risolvere i problemi, saper prendere decisioni, saper raccontare il vissuto. Emerge dunque la necessità di un approccio dal basso che accompagni le ansie da cambiamento e faccia crescere una consapevolezza nuova almeno all’interno del ceto professionale insegnante. I modelli formativi tradizionali devono progressivamente evolvere verso processi di acquisizione di conoscenze che favoriscano l’emergere di un sapere comune che contenga elementi di senso che possono essere diffusi capillarmente e scambiati di qua e di là delle frontiere. È certamente un problema di pedagogia culturale o comparata e di economia della conoscenza, ma è anche un problema di teoria dell’umanità su cui appoggiare le basi giuridiche del dovere di ogni essere umano ad istruirsi in nome della dignità dell’umanità che è in lui. Non più soltanto del diritto del singolo ad essere istruito per adeguarsi all’umanità che è fuori di lui.


Bibliografia

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