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Editoriale - Ripartire dalla crisi. Quale transizione per l’Italia?

ROBERTO GATTI
Editoriale

La storia del secolo scorso ci insegna come e quanto i periodi di grave crisi economica e finanziaria finiscano quasi sempre per ridurre o annullare la tenuta delle istituzioni democratiche. Gli esempi sono così tanti che è inutile rammentarli: il destino della repubblica di Weimar rimane, per molti versi, quello più indicativo. Eppure questo tragico rapporto non deve essere inteso come segnato da un determinismo che non lascia spazio ad alternative. Ogni crisi, infatti, costituisce un passaggio entro il quale si può attivamente inserire la libera attività dei soggetti che in essa si trovano coinvolti. «Crisi» viene dal greco «krinein», tra i cui significati c’è quello di «discernere», «giudicare» e, quindi, scegliere. Ogni crisi è - nel suo significato più profondo e radicale - il momento in cui il negativo che la caratterizza provoca il soggetto (individuale o collettivo che sia) a ripensare ciò che è stato fatto e a porsi nella prospettiva del cambiamento. Se una concezione economicistica della società spinge a considerare la crisi in termini univocamente sistemici e funzionalistici, una concezione meno riduttiva, invece, la vede come una transizione lungo la quale la libertà umana è messa alla prova per individuare i motivi di quanto è accaduto e i modi per creare una situazione nuova. Il «discernere», cui il termine «crisi» rimanda, vuol dire esattamente questo: ricercare, lavorare, trovare le vie d’uscita. Ma significa anche imparare dal passato per non ripeterne gli errori. La crisi può anche, almeno momentaneamente, paralizzare; ma poi deve innescare la volontà di uscirne.
In verità, è proprio questa natura della crisi come luogo possibile di una prassi riformatrice in cui si esprime la libertà umana che, nella stretta attuale, molti sembrano non vedere. Non è difficile accorgersene; basta solo osservare i fatti. Da parte di chi ha avuto nell’ultimo governo responsabilità di guida del paese, l’aspetto economico-finanziario ha dominato su tutto. Certamente nessuno potrebbe negare l’impatto dei fattori finanziari e, più in generale, economici su questa crisi. E però, guardare solo a questo, isolare tale aspetto, è enormemente riduttivo. Dietro i dati nudi e crudi che ci vengono propinati quotidianamente sta, infatti, un modello di società; sta anzi, più in generale ancora, un modello di civiltà, oggi basato sul consumismo a oltranza, sulla logica onnipervasiva del mercato, sull’enfasi del profitto, sulla retorica del successo misurato nei termini della vittoria nella corsa al benessere (con tutto il carico, poi, di ostentazione narcisistica che viene esibita da chi il successo alla fine l’ha ottenuto, come fossimo in un teatro nel quale i primi attori mostrano al pubblico e alle comparse plaudenti il loro valore, interamente calibrato in beni materiali e/o nell’esibizione di sé attraverso i simboli della rappresentazione sociale). Viviamo in una società che isola e massifica nello stesso tempo, nella quale ognuno pensa per sé; e il medium che mantiene unito il tutto è l’interesse, la cui particolarità consiste nel fatto che, mentre apparentemente unisce, in realtà divide, in quanto ci tiene insieme nell’opposizione, nella concorrenza, nella lotta per l’avere e per l’apparire.
Ora, senza proseguire in questo resoconto (che dovrebbe essere evidente per chiunque voglia appena osservare le cose), proviamo a venire al punto. E il punto è che a essere oggettivamente esaurito è questo modello di civiltà, del quale il dato economico e finanziario è certo un aspetto, ma non sicuramente l’unico e neppure quello dominante. Ciò verso cui la crisi ci spinge o, meglio, ci dovrebbe spingere è il ripensamento di tale modello. Dovrebbe attivare, cioè, un’autoriflessione critica che investa tutti i fondamenti della società in cui siamo vissuti per decenni, sicuri che niente sarebbe mai cambiato. È come se ci fossimo talmente abituati a un certo train de vie da non vederne non solo i punti deboli che prima o poi ne avrebbero causato il crollo, ma da non capirne la povertà, in termini morali, culturali e spirituali. Stava diventando tragicamente normale passare i week end nei grandi centri commerciali, in queste nuove cattedrali di un mondo senza fede; consumare ore nello shopping, non tanto per comperare oggetti utili, ma semplicemente per... comperare e, così, ingannare il tempo; o imbambolarsi davanti agli spettacoli sempre più banali delle televisioni che ci rimandavano le immagini amplificate di quel mondo fittizio nel quale avremmo voluto continuare a dimorare all’infinito, dimenticando il mondo vero, dove continuano a esserci la povertà, l’emarginazione, la sofferenza, la disoccupazione: realtà che s’impongono con la loro cruda evidenza, ma che i più preferiscono rimuovere.
Il fatto è che la crisi ci ha fatto capire (dovrebbe averci fatto capire) che questo stato di cose non può più proseguire. Già riconoscere questo sarebbe importante. Ma, se ci si ferma qui, rimane fuori la cosa più importante. L’elemento cruciale è, infatti, non che è impossibile andare avanti in questo modo (innanzitutto perché mancano ormai le risorse per farlo), ma che è bene che sia così. Detto in altri termini: dalla crisi affiora sempre più evidente il dovere di mutare strada, di pensare un altro modo di vivere per il futuro. Quello che è mancato, nella conduzione politica dell’emergenza così come nell’illustrazione che ne hanno fornito la maggior parte dei mass media, è stata la consapevolezza che proprio qui - cioè nel fatto che cambiare modello di vita è diventato un imperativo - sta la fertilità della crisi. Se quest’ultima continua a essere presentata e affrontata unicamente nell’ottica del sacrificio, della rinuncia, della resa, se continua insomma a essere considerata in una logica depressiva, non solo si rischia il venire meno della tenuta del paese sui tempi medi e lunghi, ma non si arriva a governare veramente la crisi in vista del suo superamento effettivo. E superamento effettivo non dice, assolutamente (chi può pensare sul serio così?) della possibilità di tornare a come stavamo prima. Impone, invece, il dovere di inventare, letteralmente, un modello alternativo. Se s’intende governare politicamente la crisi e non fronteggiarla prevalentemente in senso tecnico (insomma se non stiamo tirando la carretta solo per far quadrare i conti del bilancio statale), allora questo passo, questo sforzo di riflettere su inediti assetti sociali, questo intento di creare legami sociali meno poveri, diventa l’essenziale movimento da imprimere all’azione del nuovo governo. Se dalla classe politica o, almeno, da una parte di essa (quella da cui sarebbe forse possibile attendersi un surplus di coscienza critica), venisse questa indicazione, allora si aprirebbe la possibilità che anche i cittadini guardassero al momento che stiamo vivendo in modo molto diverso. Potrebbero, infatti, cominciare a sentirsi parte di un progetto di ricostruzione nel quale la posta in gioco è la qualità della loro esistenza nel prossimo futuro. Vorremmo poter pensare - come a cosa fattibile, in cui investire energie e non parole - a una vita non obbediente alla logica acquisitiva del mercato, ma alla capacità di apprendere ad apprezzare i beni veri che abbiamo intorno ma che non vediamo più. Molte di queste cose sono semplici: la natura, da restituire per quanto possibile alla sua bellezza; la cultura, non più confusa con i rotocalchi e i talk show televisivi; la presenza dell’altro, non più sentito come concorrente nella corsa al successo, ma come compagno di strada in un percorso di emancipazione al quale ognuno è chiamato a partecipare.
Così, la crisi potrebbe diventare un’occasione per civilizzare il paese: siamo destinati a perdere alcune cose cui ci eravamo passivamente abituati, ma ne possiamo guadagnare altre, che in gran parte dobbiamo imparare a scoprire (o a riscoprire). Allora anche i sacrifici potrebbero iniziare ad avere un senso, in quanto parti di un programma di ricostruzione civile dell’Italia (e dell’Europa). L’attraversamento del deserto avrebbe una mèta. E - cosa forse più importante di tutte - questo lungo passaggio diventerebbe qualcosa di proprio dei cittadini, non qualcosa d’imposto dall’alto, che, com’è stato detto al tempo del governo Monti, non avrebbe neppure bisogno del loro consenso. E invece di consenso c’è necessità, non solo per la mera circostanza che viviamo, fino a prova contraria, ancora in un regime democratico, ma soprattutto perché a essere in ballo siamo noi, uomini e donne di questo paese, che hanno tutto il diritto di dire la loro sul modello di convivenza verso il quale dovremo andare.
Si dirà che questa è retorica. Rispondo: per nulla, anzi è il contrario. Si tratta, infatti, di capire che l’oggetto del discorso fatto sin qui riguarda da vicino la sorte della democrazia. Come organizzare la partecipazione a un processo di ricostruzione che sarà lungo, complesso, talvolta anche doloroso? Direi che lo si può fare rimettendo sul tavolo della politica il tema dell’attivazione di spazi della democrazia là dove non ci sono mai stati o sono stati progressivamente cancellati o sopravvivono solo come parvenze. Non è stata una qualche elaborazione teorica a tavolino, ma la dura forza delle cose a mostrarci che i sistemi democratici attuali sono caratterizzati da un paradosso, tanto evidente quanto ignorato o sottovalutato: la maggior parte dei luoghi della nostra società non sono organizzati democraticamente, cioè secondo prassi e regole che garantiscano la partecipazione di chi in quei luoghi opera. Gli esempi si sprecano: l’amministrazione pubblica, la scuola, l’università, l’impresa, sono solo alcuni. È in ognuno di essi che andrebbe iniziato un lavoro finalizzato a rimettere in piedi procedure di deliberazione che restituiscano responsabilità decisionale a uomini e donne che potrebbero così sperimentare un ampliamento dei loro diritti di cittadinanza. Lo sviluppo di processi deliberativi è una delle chiavi per avviare in senso costruttivo l’attuale passaggio che stiamo vivendo. La scelta, direbbe Gramsci, è tra una «rivoluzione passiva» delle forze dominanti (far finta di cambiare perché nulla cambi), da un lato, e, dall’altro, lo sforzo, per opera dei ceti e delle forze sociali che la crisi ha più colpito e fatto arretrare dal punto di vista del loro peso civile e politico (penso, per esempio, i sindacati), di recuperare e implementare la loro capacità di essere soggetti attivi del cambiamento. Altrimenti quella che prima avevo definito «transizione» rischia di diventare solo lo scorrimento di un tapis roulant che gira a vuoto fino a esaurimento della corrente (cioè, fuor di metafora, delle non infinite risorse naturali e umane che da decenni stiamo non utilizzando, ma sprecando e sacrificando).
Oggi il diritto di cittadinanza è confinato all’esercizio del voto e, in occasioni eccezionali (non sempre scelte felicemente, come abbiamo visto più volte), alla tecnica referendaria. Eppure la nostra Costituzione indica prospettive molto più ampie. Ricordo solo il comma 2 dell’art 3: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». «Effettiva partecipazione» non è una ridondanza enfatica, ma l’espressione di un’idea di democrazia che, specie da qualche decennio a questa parte, quasi tutte le forze politiche e culturali hanno archiviato, preferendo imboccare la strada delle riforme tendenti a migliorare la resa del sistema in termini di efficienza e stabilità dell’esecutivo. Si è ritenuto, anche da parte delle componenti più vigili e attente del quadro politico, che il fronte su cui attestarsi fosse quello dell’efficienza decisionale e non quello dell’incremento della responsabilità politica diffusa in tutti i livelli possibili della società. Anche quando quest’ultimo tema è emerso, si è trattato di riferimenti del tutto privi di incidenza politica autentica. Così, due obiettivi che avrebbero potuto e dovuto essere perseguiti insieme sono stati separati: l’uno ha occupato tutta l’agenda politica, l’altro è rimasto nelle pieghe di una memoria corta e di una comprensione limitata del dettato costituzionale. E i due obiettivi sono: 1) uno Stato efficiente, cioè capace di decidere, 2) sulla base di un processo di deliberazione posto in atto dalle forze vive della società. Il fatto è, purtroppo, che non esiste, a tutt’oggi, un programma politico che punti, con la necessaria lucidità e convinzione (e con l’indispensabile concretezza), su questo nesso. Molti, nel dibattito culturale, hanno finito per scindere due momenti essenziali della democrazia: decisione e partecipazione. E hanno finito col diffondere l’idea che i due obiettivi si possano ottenere, ma non insieme: o capacità di decisione o partecipazione diffusa, perché (si dice) la partecipazione rallenta i processi decisionali. Così, per chi non desideri vivere in una democrazia tendenzialmente autoritaria sembra inevitabile rassegnarsi a una democrazia assemblear-populista. L’unico risultato reale è che così si è destinato il paese a vivere una democrazia a metà, dimenticando che il significato della democrazia è la sintesi del partecipare e del decidere, è nel decidere attraverso la partecipazione più larga possibile. Si è enfatizzata la riforma del sistema, ma omettendo le potenzialità dei mondi vitali che, in quest’assenza d’iniziativa politica, rischiano di girare a vuoto su se stessi, con tutte le conseguenze negative che ne nascono, tra cui le derive irrazionalistiche, i drammi personali, le tentazioni di ricorrere alla violenza.
È del tutto plausibile immaginare, a mio avviso, che la riattivazione democratica che consenta di partecipare all’«organizzazione politica, economica e sociale del Paese» possa essere, oggi, il cardine intorno al quale far ruotare quella ricostituzione del tessuto civile di cui ho parlato poco sopra. In questo senso, progressiva uscita dalla crisi e crescita del livello democratico della società italiana andrebbero insieme e il prezzo da pagare in termini economici e di benessere sarebbe controbilanciato dall’incremento della responsabilità decisionale di chi quel prezzo lo paga spesso in maniera più pesante. E certamente l’equità delle decisioni sarebbe garantita molto meglio se a co-decidere fosse il maggior numero possibile di cittadini, attivati politicamente nei luoghi in cui svolgono il loro lavoro e messi in condizione di interloquire con il parlamento (da restituire al suo ruolo effettivo) e il governo. È il tempo, ormai, di pensare che l’opinione pubblica può e deve divenire soggetto, articolato e pluralistico, di decisione politica. A ciò possono certamente servire anche i nuovi mezzi di comunicazione politica che la rete mette a disposizione, oggi troppo spesso utilizzati secondo la logica di un neo-anarchismo telematico (il Movimento 5 Stelle insegna). Ma serve, prima di tutto, un cambiamento di coscienza che riguardi il senso stesso della democrazia. Da dove cominciare a promuoverlo? Credo che si debba iniziare dalla scuola, in ogni suo ordine e grado. La scuola deve essere ripensata come spazio insostituibile di alfabetizzazione politica e civile dei giovani, che oggi sono in gran parte degli (involontari) analfabeti della politica; condizione da cui deriva anche la caduta evidente del loro potenziale di contestazione e di critica dell’esistente. Le riforme istituzionali non possono essere divise dallo sforzo (enormemente più impegnativo) di costituire, quasi ex-novo, una coscienza civile democratica che possa evitare l’effetto di trascinamento di parole d’ordine apparentemente democratiche, ma dietro cui si nasconde un disegno che democratico non è. Ai due opposti dello schieramento politico, Grillo e Berlusconi capitalizzano entrambi su questa fragilità del senso comune democratico di una parte che è decisamente (e pericolosamente) troppo grande dei cittadini.
Chiudo con il richiamo a un uomo di cultura e della politica che aveva, essendo un buon storico, visto da molto lontano che questi sarebbero stati i problemi su cui confrontarsi per ottenere una crescita effettiva del tasso di democraticità del nostro paese. Siamo andati in tutt’altra direzione. E ne stiamo pagando le conseguenze. Forse non è tardi per invertire la rotta.
«Si tratta in definitiva di acquisire tutti gli elementi che permettano alle forze impegnate nel ‘cambiamento’ politico e sociale di dare risposte adeguate alle sfide del superamento degli equilibri tradizionali fra concentrazione del potere politico nello Stato ed auto-organizzazione della società e delle sue forze dominanti. Si tratta di organizzare la battaglia per la riduzione del dominio dell’uomo sull’uomo, procedendo a un’analisi realistica di quanto resta e quanto è ineliminabile della politicità verticale per l’organizzazione razionale, programmata e partecipata della ‘transizione’. Si tratta di collegare la politicità orizzontale [...] alla sanzione del passaggio delle masse [...] da ‘oggetto’ a ‘soggetto’ della ricostruzione dal basso di una vita individuale e collettiva [...] finalizzata al dispiegamento di tutte le dimensioni della persona umana» (R. Ruffilli, Gli ultimi sviluppi del dibattito sullo Stato nell’età contemporanea, in AA.VV., Crisi dello Stato e storiografia contemporanea, a cura di R. Ruffilli, Il Mulino, Bologna 1979, p.189).
Come diceva Hannah Arendt, il futuro qualche volta ci sta alle spalle. E sarebbe bene, con molta umiltà, girarsi indietro e ripensarlo.



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