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Una start-up chiamata Paese

MASSIMILIANO COLOMBI
Articolo pubblicato nella sezione: Il “vissuto” della crisi - Analisi

Da «game-over» a «re-start»: un passaggio possibile

«Game-over»: così si conclude una classica sfida ai videogiochi. Per molte donne e uomini del nostro tempo «game-over» caratterizza invece la vita reale che, soprattutto in questa «grande contrazione», non assomiglia per nulla ad un gioco.
Per un periodo molto prolungato abbiamo faticato ad accettare di essere finiti in una crisi inedita, per molti aspetti diversa dalle altre di cui avevamo esperienza: dai confini temporali ignoti, dall’intensità variabile, dalla pervasività e dalla velocità inaudite. Molti decisori politici hanno tentato fino alla fine di negare la situazione e altri hanno tentato di spiegare la crisi internazionale attraverso le inadeguatezze del Presidente del consiglio di turno. La scelta di virare verso un «governo tecnico», se da un lato è stato l’indicatore più evidente circa la gravità della crisi, dall’altro è stato l’elemento simbolico che ha accomunato il Paese nella percezione di essere sotto assedio. Ci siamo svegliati in un Paese sotto assedio in cui però il nemico non è mai stato perfettamente identificato: l’Europa che ci chiede di «fare i compiti a casa»; i mercati che attraverso lo spread orientano contemporaneamente l’economia e la politica; le inefficienze e le dis-economie interne; le modalità barocche della dinamica politica e dei processi della rappresentanza. La stessa lunga, tortuosa e faticosa via che ci ha portato al governo Letta sembra testimoniare come il Paese stia vivendo una condizione di difficile ri-partenza, caratterizzata dalla frammentata rappresentanza degli interessi e da una ridotta capacità di individuare proposte di ricomposizione delle tante e profonde fratture che segnano il volto dell’Italia di questo tempo.
Ancora oggi in molti consessi è aperta la discussione se sia meglio parlare di «crisi» o di «trasformazione», di «grande contrazione» (Magatti 2012) o di «decennio perduto» (Dell'Aringa - Treu 2012), di «cambiamento» o di «rivoluzione» degli equilibri geo-politici.
In maniera ancor più imbarazzante e per certi versi paradossale la discussione rimane aperta per misurare la distanza dal baratro e per comprendere la direzione di marcia del Paese, ovvero se ci stiamo avvicinando o allontanando dal precipizio. Un giorno ci svegliamo tirando un sospiro di sollievo per aver evitato il default e torniamo a letto con l’angoscia di non avere le risorse per rispettare il patto che il Governo ha fatto con gli esodati. Al mattino siamo contenti per le valutazioni che vengono da Bruxelles e alla sera ci rattristiamo per le stime OCSE che rivedono al ribasso la crescita della nostra economia.
Di fronte a questa situazione si sente l' esigenza vitale di una discussione basata sull’evidenza pubblica, ovvero di un confronto basato su alcuni dati che possano costituire una piattaforma comune a cui ancorare analisi e proposte.
La sensazione diffusa di «game-over» è legata a tre grandi questioni che pongono una forte ipoteca sulle possibilità di futuro: la mancanza di lavoro, la concentrazione della ricchezza e l’aumento delle disuguaglianze.
In questa prospettiva appare significativa la posizione espressa da Mario Draghi (Draghi 2013), Presidente della BCE, quando ha lanciato nuovamente l’allarme, poiché se «è indubbio che una crescita duratura sia condizione essenziale per ridurre la disoccupazione, in particolare quella giovanile», dobbiamo essere consapevoli di come «in alcuni Paesi questa ha raggiunto livelli che incrinano la fiducia in dignitose prospettive di vita e che rischiano di innescare forme di protesta estreme e distruttive». Inoltre occorre avere una chiara consapevolezza di come in Europa da quasi «vent'anni è in atto una tendenza alla concentrazione dei redditi delle famiglie che penalizza i più deboli» (Draghi 2013; si vedano anche Campiglio 2011 e Regiroli 2011). In questa condizione, «le riforme strutturali assumono un significato più ampio di quello di mero strumento di crescita», in quanto possono consentire «una più equa partecipazione ai frutti della ricchezza nazionale» (Draghi 2013) e creare le condizioni per un rafforzamento della coesione sociale indispensabile per il successo economico.
Eppure sappiamo che da soli i dati non bastano: occorre costruire significati condivisi. Infatti gli stessi problemi chiedono una costruzione sociale per giungere ad alcuni approdi in grado di orientare l’azione e le scelte. Abbiamo un tremendo bisogno di bilanciare il «game-over» attraverso il riallestimento di condizioni individuali e sociali in grado di fare spazio ad una chance di «re-start».
Infatti, in diversi contesti sociali e professionali si avverte il bisogno di una visione prospettica, che possa sostenere la formulazione di alcune ipotesi sostenibili per uscire sia da una visione estetica, per cui si continua a descrivere la crisi senza mettere in campo alternative credibili, sia da una visione ideologica, che si pone alla ricerca di una ricetta last minute e low cost in grado di fornire una soluzione magica.


Esistenze in oscillazione

In questo tempo che in molti casi si presenta con i caratteri della ruvidezza e dell’inospitalità, l’ascolto di storie di donne e di uomini che cercano di comporre una biografia sostenibile consente di rintracciare un significativo movimento di oscillazione.
Una prima oscillazione è tra centro e margine: si vive con un’aspettativa forte che «il mondo sia intorno a me» e contemporaneamente si fa un’esperienza reale che sembra caratterizzata dall’invisibilità e dal mancato riconoscimento:

vorrei che il mondo fosse intorno a me come nella pubblicità di Banca Mediolanum e invece nella maggior parte delle volte nessuno mi vede, sembro invisibile… in particolare nella ricerca del lavoro sembra che nessuno veda quanto ti sei preparato, quanta fatica hai fatto… (Ancona, focus giovani, 2011)

Si incontra un’esperienza dei margini che caratterizza molte biografie dei giovani, in molti casi costretti ai bordi del campo da molto tempo e ben prima della lunga crisi.
Ai bordi del campo si fa esperienza di un’occupazione instabile, intermittente, che non satura più il tempo della vita adulta; si entra e si esce dal campo a ripetizione e non sempre per scelta; in molti casi non si capisce chi decida i cambi; spesso non sono immediatamente comprensibili le regole e le strategie di gioco. Non sempre è possibile scegliere il ruolo; a volte pur di giocare ci si adatta a tutto; qualcuno rischia di finire costantemente in tribuna; altri giocano solo e ripetutamente le amichevoli; altri ancora passano da un allenamento all’altro.
In molti casi siamo di fronte a un ispessimento dei bordi, che alla lunga produce una polarizzazione: da un lato percorsi professionali con ampie prospettive e caratterizzati dalla possibilità di arricchire il proprio bagaglio di conoscenze e competenze; dall’altro un rimbalzo da una esecutività all’altra, da una dipendenza all’altra, con uno scarso corredo di tutele e diritti.
Si configurano mondi dalla permeabilità ancora incerta, e comunque cangiante: da una parte il lavoro standard, dall’altra quello atipico, dall’altra ancora quello sommerso. Il lavoro stesso da fattore di inclusione finisce per essere un’esperienza che distingue, separa, differenzia, divide, allontana, fino a configurare storie personali in competizione e conflitto. Inesorabilmente il lavoro slitta nella sfera delle opportunità individuali, come vicenda personale e prevalentemente solitaria.
Le biografie ai bordi del campo si presentano allora, per parte almeno dei soggetti, come «biografie dell’abbandono»: da un lato siamo di fronte «ad itinerari lasciati a sé e costruiti nella durezza della sorte individuale e solitaria», dall’altro diventano «percorsi che tagliano il più possibile rapporti di dipendenza, cooperazione, socialità» (Lizzola 2000).
Una seconda oscillazione fa riferimento ai due poli tutto e niente: sembra che a prevalere sia una logica del «fare il colpo», della slot machine: punto tutto e spero che la vincita mi consenta di sistemare tutta la mia vita. Emerge una logica alternativa al progetto, alla costruzione lenta e faticosa; si fa strada un pensiero per cui «se non hai tutto, non hai niente»:

non paga più l’onestà, la preparazione, l’impegno… se non c’è lavoro sei fuori e senza lavoro vai in crisi tu, la tua famiglia, i tuoi progetti; speri nel colpo, una botta grossa e se ti va bene ti sistemi per sempre… (Fermo, focus crisi, 2013)

pensando ai miei figli, non so se vale la pena studiare, prepararsi e finire con uno stipendio da fame… alla fine conviene tentare la fortuna… capire dove tira il vento…dove sta il pacco che consente di non avere più pensieri… (Macerata, focus operatori sociali, 2013)

L’attesa spasmodica del colpo risolutivo, o comunque di una qualche soluzione magica alle fatiche dell’esistenza, genera rabbia e rancore quando l’attesa è così prolungata da metterne in dubbio la stessa esistenza. Nello stesso tempo la ricerca di una soluzione tutta al singolare progressivamente spinge a ritrarre lo sguardo su di sé e ad interpretare uno spartito senza collegamenti con altre storie di donne e uomini.
Come già in altre occasioni è avvenuto, alla fine emerge

la collera di una generazione – non più solo quella dei giovani – che per la prima volta dal dopoguerra non conosce l’ascesa sociale, ma conosce una discesa. È la collera di chi vede spezzarsi uno dopo l’altro i fili che dovrebbero tener stretta la società: il filo che lega una generazione alla successiva, il filo che lega la persona al sindacato chiamato a rappresentarla, il filo che dovrebbe annodare le aspirazioni di tutti coloro che dell’agire economico sono protagonisti: lavoratori che producono, cittadini che consumano il prodotto e azionisti delle imprese produttive. Tutti questi fili sono oggi rotti, siamo davanti ad una rete che si sbrindella e non tiene più (Spinelli 2006).

Una logica «start-up» per una nuova «intrapresa sociale»

Occorre dunque ripartire da una domanda di solito rimossa: come mai, dopo un lungo periodo di crescita, i paesi occidentali si ritrovano indebitati, invecchiati, disuguali e depressi?
La visione proposta da Mauro Magatti in La grande contrazione ci consente di comprendere che «la crisi segna la fine del tecno-nichilismo» e che «per quanto faticosa, difficile e rischiosa, la crisi tuttavia è anche un’opportunità».
In questo senso la «grande contrazione» evoca non solo una situazione di restringimento, di riduzione, di limitazione e di ridimensionamento dei nostri stili di vita, ma anche una condizione di travaglio collegata al partorire, al generare, al dare nuovo inizio e nuove possibilità al nostro vivere insieme. Ancora una volta, è necessaria un’assunzione di responsabilità individuale e collettiva, di fronte alla necessità di affrontare una transizione verso un modello di sviluppo e un pensiero innovativo in cui la crescita proceda non più ritmata dall’espansione quantitativa, tipica dell’ultimo trentennio (1980-2008), ma sulla base di una eccedenza qualitativa che fa leva sulla ricchezza umana e spirituale che un mondo di persone libere può sprigionare. Se il capitalismo tecno-nichilista si è potuto sviluppare e ha mostrato i sui limiti in relazione ad una idea di «libertà immaginaria» che si è manifestata insostenibile in quanto «libertà illimitata», sganciata dalla realtà, oggi siamo di fronte ad una domanda cruciale: che cos’è la crescita nelle società avanzate e attraverso quali modalità è possibile (ri)generarla?
Un primo ancoraggio sta nel passaggio da una «libertà immaginaria» ad una «libertà generativa»: una libertà che riammette responsabilmente la realtà, che riconosce la propria natura intimamente relazionale e, quindi, intersoggettivamente consapevole.
Un secondo ancoraggio fa riferimento ad una rinnovata visione di crescita: una crescita che sia sociale, culturale e istituzionale, oltre che economica; una crescita che valorizzi dimensioni diverse dell’esistenza umana, considerandole in correlazione, e che sia capace di produrre valore.
Ma proprio intorno al valore si concentrano le necessità di produrre pensiero nuovo, per ri-pensare non solo una nuova teoria, ma anche una nuova prassi, capaci l'una e l'altra di cogliere e valorizzare le diverse dimensioni del valore:
- la dimensione relazionale, in quanto il valore può essere solo condiviso, prodotto insieme;
- la dimensione del senso, in quanto il valore non è comprimibile né nella sfera economica, né in quella finanziaria.


Una rinnovata visione del valore richiama la necessità di ritornare a pensare una necessaria alleanza, come ristabilimento di legami e di condivisione di significati, tra apparati politico-istituzionali e soggettività sociali (imprese, associazioni, terzo settore, famiglie), e anche tra singoli cittadini: legami che diventino espressione della libertà generativa. All’orizzonte si profila una «economia della contribuzione» caratterizzata dalla produzione di beni ad alto contenuto relazionale, contestuale e cognitivo, da nuove forme di sussidiarietà, da un welfare più socializzante, da una impresa capace di allestire condizioni di responsabilità che stimolino la cittadinanza attiva.
Abbiamo di fronte una sfida impegnativa: imparare a vivere in un’«età senza casa» in cui «prevalgono l’incertezza e l’ansia, il cammino e la ricerca, il disorientamento e il rancore, il pluralismo e gli arcipelaghi di senso». Il passaggio da un’«età della casa» ad un’«età senza casa» ci costringe a vivere «la consumazione d’un tempo (ed anche dei sogni e dei modi del suo cambiamento) e il senso dell’aperto, il legame ad una promessa». Viviamo un tempo di «esodo» dove «emergono anche rancori e risentimenti, chiusure e separazioni, ma si evidenzia la resistenza delle fedi e delle speranze, delle fedeltà e delle cure reciproche, anche tra le generazioni. Cure finalmente riscoperte, come la necessità di legarci gli uni agli altri in carovana» (Lizzola 2013).
Un esodo che nello stesso tempo è già «intrapresa sociale» e ci consente di sperimentare una logica «start-up». In un tempo «senza casa» siamo tutti «apprendisti» e viviamo il nostro apprendistato alla «bottega dell’esperienza». In questo senso la prima sfida è tornare ad apprendere dall’esperienza, in termini personali e comunitari. In molti casi assistiamo ad una lunga e impegnativa sequenza di fatti che non aiutano a configurare una competenza. Tutto ciò vale anche per le nostre comunità che sembrano aver smarrito le capacità di allestimento di luoghi comunitari che consentano la narrazione di storie e la costruzione di senso e significati condivisi. Molti giovani «in attesa di lavoro» raccontano la difficoltà di maturare una competenza a partire dalle mille esperienze di lavoretti con cui si sono già confrontati, dalle centinaia di colloqui di lavoro di cui hanno sperimentato l’attesa e a volte il carico di delusione, dalle diverse esperienze di volontariato che qualificano il tempo libero.
La logica start-up richiede anche un pensiero nuovo in grado sia di combinare in modo inedito vincoli e risorse, sia di vedere con occhi nuovi alcuni vincoli. Siamo di fronte ad un esercizio molto difficile, soprattutto se fatto in solitudine e senza reti. In questa prospettiva un passo importante è lo sviluppo di infrastrutture sociali che rendano possibile la connessione tra sensibilità, speranze, idee, realizzazioni e fatiche. Le connessioni telematiche allora si configurano come potente strumento rispetto ad un’idea di connessione e di scambio che riconosce e valorizza la dimensione umanizzante del legame sociale. Senza dubbio è presente una moltitudine di ambivalenze che chiedono di essere viste e discusse, ma possiamo correre il rischio della sperimentazione e della scoperta.
Nel tempo dell’esodo siamo tutti apprendisti anche per la necessità di ridare un senso condiviso al temporaneo. In qualche modo siamo chiamati ad attribuire valore al viaggio così come siamo abituati ad attribuirlo alla meta:

Sempre devi avere in mente Itaca –
raggiungerla sia il pensiero costante.
Soprattutto, non affrettare il viaggio;
fa che duri a lungo, per anni, e che da vecchio
metta piede sull'isola, tu, ricco
dei tesori accumulati per strada
senza aspettarti ricchezze da Itaca.
Itaca ti ha dato il bel viaggio,
senza di lei mai ti saresti messo
sulla strada: che cos'altro ti aspetti?

(Kavafis 1961)

Il valore del viaggio aiuta ad entrare in una logica dinamica e relazionale, consente la ridefinizione del proprio posizionamento, facilitando il passaggio da destinatari di pacchetti di futuro già confezionati a imprenditori, da valutatori a promotori di condizioni di possibilità per avviare una start-up chiamata Paese.


Bibliografia

Brena S., Lizzola I., Scotti R. (2013), Un sindacato che cambia. Una ricerca-azione nel settore dell’edilizia, Fondazione Giulio Pastore, Franco Angeli, Milano.
Campiglio L. (2011), Prosegue la crisi, cresce la disuguaglianza, in «Vita e Pensiero», n. 5, pp. 45-52.
Dell’Aringa C., Treu T. (a cura di, 2012), Il decennio perduto, Monografie Arel, Roma.
Draghi M. (2013), Lectio magistralis, in occasione della cerimonia di conferimento della laurea honoris causa in Scienze politiche presso l’Università LUISS Guido Carli di Roma, 6 maggio 2013.
Kavafis K. (1961), Itaca, in Id., Poesie, Mondadori, Milano.
Lizzola I. (2012), Incerti legami. Orizzonti di convivenza tra donne e uomini vulnerabili, La Scuola, Brescia.
Lizzola I. (2000), Liberi, precari, incerti; giovani al lavoro tra progetto ed evanescenza, in «Conquiste del lavoro», maggio 2000.
Magatti M. (2012), La grande contrazione. I fallimenti della libertà e le vie del suo riscatto, Feltrinelli, Milano.
Regiroli E. (2011), «Chi vince piglia tutto». Le radici politiche della disuguaglianza economica negli Usa e in Italia, in «Aggiornamenti Sociali», n.11, (62), pp. 665-674.


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