Esistono diversi libri che affrontano il fenomeno della «nuova mobilità» o della «nuova emigrazione» italiana. Ed è interessante notare come la maggior parte degli studi disponibili abbia problemi di metodo, oltre che di lessico e di definizione – soprattutto numerica – del fenomeno. C’è chi per la recente ondata di migrazioni, che coinvolge giovani, spesso laureati e sempre più spesso provenienti dalle zone più ricche del paese, propone di utilizzare i concetti di «transnazionalismo» o addirittura di «diaspora» (Luconi 2011; Corti 2009; Gabaccia 2000). Sono concetti interessanti, perché pongono l’accento sulle caratteristiche che differenziano i «nuovi migranti» dai loro predecessori, quelli che, per intenderci, nel secolo scorso partivano in nave con la famosa "valigia di cartone". Oggi chi se ne va dall’Italia lo fa in un volo low-cost, con una borsa per il computer portatile a tracolla, uno zaino pieno di amarezza – e anche di rancore – nei confronti del paese d’origine e tante speranze per un futuro di soddisfazione personale, oltre che professionale, oltre confine.
Parlo di soddisfazione anche personale perché, a differenza di ciò che accadeva un tempo e di ciò che accade in altri paesi attraversati dalla crisi economica (come la Grecia o la Spagna, per rimanere in Europa), gli italiani, per quanto ho avuto modo di verificare, negli ultimi anni sono partiti soprattutto per scelta, o per amore – poco importa che si tratti di amore verso una persona straniera, spesso conosciuta in vacanza o durante gli studi all'estero, che si è, comprensibilmente, negata a raggiungere l'altro componente della coppia in suolo italiano, o di amor proprio, per le aspirazioni e la dignità tanto spesso calpestate. La scelta cosciente e quasi rabbiosa di espatriare differenzia i nuovi migranti italiani rispetto a quelli di altre nazionalità da due punti di vista. In primo luogo, perché la decisione di inseguire la realizzazione personale e professionale altrove è quasi sempre la ragione dell'espatrio: potrebbero anche rimanere in Italia, non è la fame in senso stretto a spingerli ad andarsene, come avveniva invece per i migranti del secolo scorso o per quelli provenienti da paesi meno sviluppati. In secondo luogo, questa scelta è la ragione per cui non tornano quasi mai sui propri passi. A differenza di molti altri coetanei europei, gli italiani sono liberi di scegliere di andare, ma non sono liberi di scegliere di rimpatriare. E questo avviene perché spessissimo quello che l'estero offre loro è molto più allettante a livello professionale, culturale, politico e sociale di quel che offre il panorama italiano odierno. Pur di vivere in una città cosmopolita e moderna come Londra, Berlino, Amsterdam o Parigi, si è disposti anche a mettere da parte gli studi o la laurea e rimboccarsi le maniche per sbarcare il lunario con lavoretti di ogni tipo. E, una volta costruito un percorso professionale, ritornando perderebbero tutto. Le competenze acquisite altrove, la professionalità maturata, anche nei lavori più qualificati, in Italia non contano e non vengono riconosciute, se non molto raramente; il divario salariale, quasi sempre, è ingente e il costo della vita spesso superiore in rapporto al reddito.
Riproduco, quasi a caso, alcuni stralci di articoli ricchi di dati provenienti da diverse fonti (Istat, Fondazione Migrantes, Confindustria, Ance...) che vengono costantemente raccolti da Sergio Nava, un collega particolarmente appassionato che mantiene in vita un blog, un centro studi e una seguitissima trasmissione radiofonica proprio su questo argomento:
la «fuga dei cervelli» ha cambiato pelle, a partire dalla seconda metà degli anni 2000. Ad espatriare sono sempre più i giovani, laureati, del Centro-Nord. [...] Tra le mete di espatrio, si confermano prevalenti le destinazioni europee e nordamericane: Germania, Gran Bretagna, Svizzera, Francia, Spagna e Stati Uniti. [...] Circa 60.000 espatri ufficiali ogni anno. I non ufficiali si aggirano intorno ai 120.000. [...] La comunità dei 20-40enni rappresenta una fetta importante sul totale degli espatriati dall’Italia, che nel 2011 ammontava – ufficialmente – a 60.635 unità: le classi più giovani e produttive rappresentano infatti il 45,54% del totale. Circa uno su quattro (il 26,47%) ha tra i 30 e i 40 anni (Nava 2009).
Guardando le statistiche verrebbe da mettersi le mani tra i capelli e urlare all’«emergenza nazionale». Dalla stessa fonte di cui sopra apprendiamo infatti che secondo i dati Istat, l’investimento in capitale umano che l’Italia perde per l’espatrio dei laureati ammonta attualmente a 851 milioni e 760.000 dollari. Secondo i dati di Confimpreseitalia, il costo della fuga ammonterebbe addirittura a 5 miliardi e 915 milioni di dollari. E secondo l’Istituto Italiano per la Competitività (ICom), i nostri migliori cervelli all’estero hanno portato con sé, negli ultimi vent’anni, circa 4 miliardi di euro in brevetti registrati oltre le Alpi.
Eppure, non sono tutte brutte notizie quelle che ci arrivano dall’estero. Io stessa vivo a Barcellona da più di sette anni, un posto non così originale quando lo raggiunsi (tra il 2002 e il 2010 la popolazione italiana residente nella capitale catalana è aumentata al ritmo di un 34% annuo circa) e nemmeno più così attraente ora che la crisi economica si è abbattuta con forza sulla periferia europea. Da qui ho iniziato a raccogliere centinaia di storie di persone che ad un certo punto della loro vita (nella maggior parte dei casi appena dopo la laurea), stufe di compromessi, speranze tradite, malaffare, corruzione e chi ne ha più ne metta, hanno fatto la valigia e hanno detto «Arrivederci Italia!». Ho scritto un libro sull’argomento (Cucchiarato 2010), lanciato un blog e dato vita a un sondaggio sul sito del quotidiano La Repubblica che in pochi giorni ha raccolto più di 25.000 testimonianze di italiani all’estero. Quello che ho scoperto è che i nuovi migranti si concentrano soprattutto nei paesi dell’Unione Europea, una constatazione confermata dai dati dell’Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero (un registro che, come vedremo in seguito, è diventato purtroppo obsoleto), che nel 2012 contano 18.347 giovani italiani che hanno trasferito la propria residenza in altri paesi del continente. Domina la classifica degli espatri dei 20-40enni la Germania con 3.549 nuovi iscritti, seguita dalla Gran Bretagna con 3.366 e dalla Svizzera con 3.118. Tiene, nonostante la crisi, la Spagna, quinta tra le destinazioni europee, dopo la Francia. E, poi, ho scoperto che questi espatriati sono quasi tutti particolarmente orgogliosi della scelta fatta. Chi si rattrista, di solito, è chi rimane: i genitori, la famiglia in generale, gli amici. Ma non tutto è perduto, giacché sono profondamente convinta del fatto che un’esperienza all’estero, di studio o di lavoro, sia utile e formativa per chiunque, in modo particolare per gli italiani e per l’Italia, vista la sua idiosincrasia. Dal capitolo conclusivo di Vivo altrove:
all’estero nasce, o si scopre, un’identità complessa, aperta, che ha molto meno a che fare con un’italianità in fondo mai veramente definita e molto più a che fare con un nuovo insieme. Si combinano l'identità locale (città o regione di provenienza), una nuova identità data dal posto in cui ci si ferma e un'identità comune europea. Un'identità nuova che ricomincia da zero [...] e che si costruisce giorno per giorno, confrontandosi, cambiando residenza. Sei veneziano, torinese o umbro, perché quelle sono le tue radici. Sei abitante di Barcellona, di Berlino o di Parigi, perché quello è il luogo delle tue relazioni e del tuo vivere quotidiano. Ma allo stesso tempo sei europeo e «cittadino del mondo», perché viaggiatore sempre in movimento e permanentemente collegato via internet con tutto e tutti. E questo fatto diluisce la tua identità nazionale, te la fa guardare per la prima volta dall’esterno.
Nonostante il fatto che quel che esce da questo sguardo esterno può risultare talvolta ancor più scoraggiante nel momento in cui si vuole prendere in considerazione la possibilità di un rimpatrio, credo che l’esperienza fuori confine possa valere comunque la pena. E soprattutto credo che dall’Italia si debba fare uno sforzo per mettersi in contatto con questi giovani dispersi all’estero, convincerli a tornare, se possibile, o almeno ad aiutare la nostra società, da fuori, a sprovincializzarsi e ad avere più fiducia nei confronti del nuovo. Scrivevo nel 2010, dopo aver elencato e descritto le motivazioni di più di cento italiani residenti altrove, e sottoscrivo oggi:
l’Italia vista da fuori risulta ancor più piccola, claustrofobica, incredibilmente disposta a sopportare l’infelicità e con scarse speranze di cambiamento. Si vorrebbe essere cittadini di un paese che si può attivamente cambiare, in cui la propria voce pesa; e quindi ci si sente sempre meno cittadini di un paese in cui nulla cambia, e dove la propria voce non ha nessun peso. [...] Eppure, un giorno non lontano, una buona parte di questi giovani italiani che hanno conosciuto il dispatrio torneranno a casa. Non saranno più così giovani e alcuni avranno a loro volta messo al mondo figli con una doppia nazionalità. Ma, soprattutto, avranno la possibilità di raccontare a chi non è mai partito che cosa significa vivere altrove, in un paese meno gerontocratico, in una città più funzionale, in un ambiente meno deprimente. Avranno la possibilità di agire di conseguenza. E, forse, porteranno in Italia quella boccata d'aria fresca che troppo pochi ancora reclamano. Quel che di europeo c’è in Italia, oggi, sta in questi giovani che si stanno scoprendo europei fuori dal loro paese, e tornerà in Italia con loro.
Stupisce quindi che, al margine dei rigorosi studi accademici e di alcune isolate iniziative recenti, manchi ancora un'attenta osservazione e una – anche interessata, mirata allo sfruttamento – comprensione del fenomeno della nuova emigrazione. Mancano soprattutto i dati: non esiste un censimento affidabile che ci dica chi e quanti sono gli italiani emigrati negli ultimi dieci anni. Perciò, tutte queste persone non solo sono nessuno per il paese in cui si trasferiscono, alla ricerca, quasi omerica, di un posto in cui il merito sia considerato un valore; ma sono soprattutto nessuno per il paese di partenza. L'Italia, molto più che altri stati occidentali, non ha la più pallida idea di dove siano e cosa stiano facendo esattamente i suoi giovani nuovi migranti. E tende perciò a sottostimare il fenomeno, a considerarlo «affare di pochi privilegiati» o «cosa di egoisti che pensano solo a se stessi». La definizione di «generazione nessuno», che ho usato in molte occasioni, viene da un aneddoto personale che mi ha fatto molto riflettere e in buona misura mi ha spinto a occuparmi di questo argomento: l’ho raccontato in un articolo pubblicato ne L'Unità il 30 aprile 2010, in occasione dell'uscita di Vivo altrove, ma ne parlo ogni volta che ne ho l’occasione, nelle conferenze risulta divertente e illustrativo. In sostanza, da quando vivo a Barcellona (e nonostante le ripetute ed evidentemente infruttuose richieste di rettifica) ricevo la bolletta del telefono a nome di una tale Claudia Cuchiaraipo Ninguno. Non è tanto «Cuchiaraipo» a darmi fastidio (in tanti anni di vita all'estero ho visto scrivere il mio cognome in tutte le combinazioni di lettere possibili e so che succede spesso a molti italiani all’estero), quello che mi fa riflettere è la parola «Nessuno», che sarebbe, per chi vive in Spagna, il secondo cognome, quello della mamma, che in Italia non usiamo. Ho detto che questa faccenda mi fa riflettere, e non arrabbiare, perché mi ha fatto realizzare che forse hanno ragione loro. Chi sono io? Che ci faccio qui? Chi mi conosce? Ho sempre pensato che andarmene dall'Italia sarebbe stato anche un modo per ricominciare da capo: essere «senza me e con un estraneo attorno», come scriveva Pirandello in Uno nessuno e centomila. Non che fossi stanca della mia famiglia o dei miei amici, anzi, quando decisi di partire, lo feci più che altro perché ero stanca di me in quelle condizioni…
Come si dieceva, esiste un solo registro ufficiale, l'Anagrafe degli Italiani Residenti all'Estero (AIRE), che fatica a tenere sotto controllo un flusso in uscita di persone che non hanno nessuna intenzione di farsi monitorare. Di fatto le «comodità del XXI secolo» che hanno messo le ali a questo fenomeno (l’eliminazione delle frontiere all'interno della UE, le esperienze precedenti di studio o lavoro all'estero – per esempio, i programmi Socrates/Erasmus, Leonardo – , l’introduzione della moneta unica, la proliferazione dei voli low-cost, i programmi di comunicazione online – Skype, Facebook, WhatsApp, Viber...) sono anche le cause della sua invisibilità. Negli elenchi ufficiali manca una fetta enorme di questa popolazione e il motivo principale è la caratteristica liquida del fenomeno. Sono «giovani e senza radici»: una generazione che si muove costantemente, soprattutto all'interno dell'Unione Europea, e fatica a mettere radici o a comunicare al paese d'origine la nuova residenza. Più della metà delle persone che si sono raccontate nel sondaggio che ho realizzato su repubblica.it ammette di non essere iscritta all’AIRE, mantenendo la residenza a casa dei genitori e ingrossando le fila di quelli che un ex ministro della Repubblica italiana ha chiamato «bamboccioni». Altri motivi sono, ad esempio, la non conoscenza dell'esistenza stessa dell'AIRE per una gran parte dei nuovi migranti, la scarsa comunicazione istituzionale, la difficoltà e la lentezza della burocrazia italiana che si subisce anche al di fuori dei confini, per cui succede che le persone tendono a non iscriversi al registro perché preferiscono prendere un volo Ryanair e andare in Italia a rinnovare il passaporto, piuttosto che passare per le spesso infinite sale d'attesa dei consolati, improvvisamente oberati in seguito all’impennata di arrivi (a Barcellona, per esempio, negli ultimi dieci anni la popolazione italiana si è moltiplicata straordinariamente, ma il personale consolare in città è addirittura diminuito).
Stupisce infine che anche le iniziative rivolte a trasformare la fuga in circolazione dei talenti stentino a prendere il volo e debbano fare i conti con un muro di gomma spesso invalicabile, punteggiato di beghe burocratiche o di scetticismo. Indicativo in questo senso è, per esempio, l’iter che ha seguito la legge 238/2010, anche chiamata Controesodo, che puntava a far tornare in Italia chi ha riseduto e lavorato all’estero per almeno due anni attraverso un esonero fiscale per il 70% del reddito italiano per gli uomini e l’80% per le donne. Ebbene, questa legge è stata approvata all’unanimità sia alla Camera che al Senato, dopo un efficace lavoro di una commissione bi-partisan animata soprattutto da alcuni esponenti del Pd. Eppure, a più di un anno dall’approvazione non era ancora stata emessa la circolare attuativa diretta all’Agenzia delle Entrate che avrebbe effettivamente reso concreto lo sforzo politico. E a quasi due anni dall’entrata in vigore della norma pochissimi italiani residenti all’estero sono a conoscenza della sua esistenza.
Stupisce tutto questo, e non solo perché le dimensioni del fenomeno della fuga richiedono un’attenzione e una riflessione più profonde, ma anche e soprattutto perché questo esodo massivo (e in aumento, secondo alcuni studi recenti) rappresenta, già oggi, una conseguenza e assieme uno sviluppo della società globale che contraddistingue l'inizio del secolo XXI. Scrive Alvise Del Prà (Dal Pra 2006):
la generazione di giovani italiani che negli ultimi anni si sono affacciati al mercato del lavoro è la prima che si confronta con le possibilità concrete in un unico spazio europeo senza confini. Il superamento delle barriere linguistiche, culturali e lavorative tra i diversi paesi appartenenti all’Unione fornisce un valido esempio e un modello di riferimento per la tanto auspicata «Integrazione Europea dal Basso».
Ribaltando il motto risorgimentale, potremmo dire che si sono fatti gli europei prima di fare l’Europa. Questa è quella che Jeremy Rifkin, ne Il sogno europeo (2004), ha battezzato «generazione Erasmus». Ma è anche la generazione di tutti quelli che, dopo aver assaporato l’effetto che fa sentirsi cittadini europei per qualche mese, sono tornati sul «luogo del delitto» (un luogo in cui, nella maggior parte dei casi, si sono «sentiti meglio») e hanno deciso di lasciare quest’Italia «divisa, rissosa, fortemente individualista, pronta a svendere i minimi valori di solidarietà e di onestà, in cambio di un riconoscimento degli interessi personali, di prebende discutibili, di carriere feroci fatte su meriti inesistenti», come scrisse Pier Luigi Celli in una polemica lettera a La Repubblica. E sono proprio loro quelli che hanno messo la prima pietra della costruzione dell'Europa Unita.
In Italia, tuttavia, alle motivazioni economiche contingenti si sommano tare sociali e culturali che non fanno che peggiorare la situazione. Poco o nulla si potrà fare per favorire il ritorno, o anche l’apertura a nuove risorse provenienti dagli stessi paesi che raggiungono i nostri giovani più formati, finché vantiamo record quasi imbarazzanti. Riporto solo alcuni degli esempi che documenta, tra gli altri, un interessante saggio di Alessandro Rosina e Elisabetta Ambrosi (Rosina- Ambrosi2009): abbiamo la classe politica più vecchia del pianeta, la classe dirigente più vecchia e meno qualificata del pianeta, siamo il paese dell'Ocse che registra il peggior saldo tra laureati in uscita e laureati in entrata (meno 1.5, mentre negli Stati Uniti il saldo è più 20: per ogni cervello che se ne va, 20 ne arrivano da altri paesi per sostituirlo), l'unico stato d’Europa in cui la ricerca di un lavoro avviene per il solo 15% dei casi attraverso i canali ufficiali (annunci su internet o nei giornali, liste di collocamento) e un lungo, penoso eccetera.
Ma è anche una generazione senza speranze, che si sente abbandonata e delusa, lo stesso primo ministro italiano Mario Monti l’ha definita «generazione perduta». Celli, da parte sua, si ostina a chiamarla «generazione tradita», perché ci sono motivi precisi e precisi colpevoli della cosiddetta «questione generazionale» che vanno individuati in Italia. Solo dal riconoscimento di questa colpa, dalla sua giustificazione, dallo scandaglio di motivi e soluzioni e dalla collaborazione affinché si superino i gravi limiti anche culturali esistenti nel nostro paese (la parola «raccomandazione» viene usata da quasi tutti gli italiani all’estero per riassumere quel che non va, mentre la parola «rispetto» riassume quello che vorrebbero trovare quando decideranno di far ritorno) si potrà iniziare a pensare che, dopotutto, non tutto è perduto.
Bibliografia
Ambrosi E. - Rosina A. (2009), Non è un paese per giovani. L'anomalia italiana: una generazione senza voce, Marsilio, Milano 2009.
Celli. P. R. (2009), Figlio mio, lascia questo Paese, in «La Repubblica», 30 novembre 2009.
Celli P. R. (2010), Generazione tradita: gli adulti contro i giovani, Mondadori, Milano 2010.
Corti P. (2009), Famiglie transnazionali, in Corti P.- Sanfilippo M. (a cura di), Storia d’Italia. Annali 24. Migrazioni, Einaudi, Torino 2009.
Cucchiarato C. (2010), Vivo altrove. Giovani e senza radici: i migranti italiani di oggi, Bruno Mondadori, Milano 2010.
Dal Pra A. (2006), Giovani italiani a Berlino: nuove forme di mobilità europea, in «Altreitalie», 33, 2006.
Gabaccia D. R. (2000), Italy’s Many Diasporas, University of Washington Press, Seattle 2000.
Luconi S. (2011), Nuove mobilità o nuove migrazioni?, in «Altreitalie», 43, 2011.
Nava S. (2009), La fuga dei talenti, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 2009.
Rifkin J. (2004), Il sogno europeo. Come l'Europa ha creato una nuova visione del futuro che sta lentamente eclissando il sogno americano, Mondadori, Milano 2004.