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Il cattolicesimo moderato-conservatore[*]

MARIO TOSTI
Articolo pubblicato nella sezione Tra le righe.

In un'affermazione attribuita a Niccolò Tommaseo, che asseriva che il cristianesimo era un principio moderatore e non una congrega di moderati, risiede tutta l'ambiguità della lunga storia di una destra politica che ha guardato alla religione come strumento di potere e alla chiesa cattolica solo come istituzione autoritaria. Una destra cattolica incapace di affrontare i problemi della secolarizzazione che, facendo leva sul cristianesimo, sottolinea l'identità diversificante e si attesta su posizioni politiche difensive e di conservazione. Tutto ebbe origine dalla Rivoluzione francese, allorché gran parte del mondo cattolico, non riuscendo a cogliere il senso profondo degli avvenimenti e rinunciando a qualsiasi analisi storica, condanna senza appello la Rivoluzione e i principi da essa proclamati. La Chiesa vede nelle vicende rivoluzionarie solo aspetti negativi legati alla scristianizzazione e all'eversione dei valori tradizionali e fondamentali della convivenza; semplificando possiamo affermare che, a lungo andare, il risultato della rivoluzione fu che si pervenne (spesso assieme a una separazione di Stato e Chiesa) alla formazione di due culture fondamentali e profondamente ostili tra loro: 1) la nuova militante cultura democratico-laicistica della dominante borghesia liberale: liberi pensatori, seguaci dinamici, progressisti dell'Illuminismo e del progresso; 2) la radicata contro o subcultura cattolico-conservatrice e regalistica della Chiesa e degli espropriati e delusi della rivoluzione. Questa profonda lacerazione attraversò tutto il cattolicesimo ottocentesco, gran parte del quale, seguendo il magistero pontificio, concepì il mondo moderno come il prodotto di una ribellione religiosa, quella di Lutero, che aveva prodotto la rivoluzione politica del liberalismo, la quale a sua volta aveva partorito la rivolta sociale, il socialismo. Una catena rivoluzionaria cui si aggiungeranno, nel Novecento, altri anelli (comunismo, ribellione del '68, Concilio Vaticano II) destinata a precipitare la società nella catastrofe. La sua salvezza era solo in una restaurazione dei diritti e dell'autorità della Chiesa, nella contrapposizione alla «civiltà moderna» di una «civiltà cattolica» – e tale era appunto il titolo della rivista fondata nel 1850 da un gruppo di gesuiti italiani.
In Italia la questione religiosa influì fortemente sul problema politico a causa delle modalità con cui avvenne il processo di unificazione nazionale, che comportò non solo l'astensione dei cattolici dalla vita politica, ma anche un progetto di riconquista con l'intento palese di scalzare dal basso lo Stato liberale. Le conseguenze storiche di tale atteggiamento sono state enormi e sono all'origine, probabilmente, della cronica debolezza del senso dello Stato e del senso civico, di una debole coscienza etica collettiva; insomma, al contrario della democrazia americana, dove le religioni hanno contribuito a formare il tessuto etico della società, in Italia la frattura tra coscienza religiosa e coscienza civile ha impedito la costruzione di una religione civile e di radicare la democrazia sull'esperienza religiosa. I cattolici si riaffacciarono sulla scena politica nell'età giolittiana, allorquando le masse non erano più facilmente manovrabili e il suffragio universale, introdotto nel 1912, rompeva la vecchia prassi elettorale, ristretta a gruppi chiaramente identificabili. Per la Chiesa si poneva il problema della partecipazione alle urne di ingenti masse cattoliche, soprattutto delle plebi rurali del Mezzogiorno. L'elettorato cattolico doveva quindi essere indirizzato, e non lanciato allo sbaraglio perdendo quell'unità di intendimenti e d'azione a cui la Chiesa teneva molto. Nacque da questa esigenza l'idea del Patto Gentiloni, dal nome del presidente dell'Unione elettorale cattolica, conte Ottorino Gentiloni. Il Patto consisteva in un elenco di sette punti programmatici che ogni candidato che desiderasse il voto dei cattolici doveva sottoscrivere. Tra i sette punti ricordiamo la difesa della libertà della scuola, dell'istruzione religiosa, dell'unità della famiglia (opposizione al divorzio), il riconoscimento giuridico delle organizzazioni economiche e sociali cattoliche, la riforma tributaria e giudiziaria. Il Patto ebbe successo. Ad usufruirne furono principalmente candidati moderati e giolittiani, tanto che Antonio Gramsci poté scrivere che, con il Patto Gentiloni, Giolitti cambiò di spalla il suo fucile, sostituendo all'alleanza con i socialisti quella con i cattolici. Per altri il Patto rappresentò una sconfitta dei liberali, costretti, per sopravvivere, a chiedere l'aiuto dei cattolici. Secondo alcuni dati non ufficiali, ben 228 candidati liberali su 310 erano stati elet-ti con voti cattolici. Giolitti smentì un suo diretto intervento nell'operazione elettorale con i cattolici ed escluse che fossero avvenuti accordi tra governo e Vaticano. È indubbio, comunque, che, se Giolitti poté mantenere la propria maggioranza in Parlamento, ciò fu dovuto principalmente al voto dei cattolici.
Contro i blocchi clerico-moderati si schierò apertamente don Luigi Sturzo. Da una parte l'esperienza della Grande Guerra, che di fatto segnò la fine dell'opposizione cattolica allo Stato nazionale, e dall'altra le nuove linee emergenti dal pontificato di Benedetto XV, che aprivano all'autonomia del laicato sul piano politico e sindacale, favorirono la nascita del Partito Popolare (18 gennaio 1919); un partito che non si presentava come «cattolico», secondo la vecchia concezione dei cattolici intransigenti, ma aveva un concetto dinamico e storico della democrazia. Il Partito Popolare fu veramente un fatto nuovo nella vita pubblica italiana perché, rompendo definitivamente con la tradizione dei blocchi clerico-moderati, dette alle masse cattoliche una fisionomia politica autonoma.
Si è discusso molto, sul terreno storiografico, sul rapporto fra la Democrazia Cristiana di De Gasperi e il popolarismo di Sturzo; certamente vi sono indubbi elementi di continuità, anzi la DC , ha scritto Francesco Traniello, si presenta come l'unica possibile ripresa dell'esperienza popolare dopo il fascismo. Ad ogni modo i rapporti tra Partito Popolare e Democrazia Cristiana non possono essere affrontati a prescindere dalla considerazione dei mutamenti strutturali e dalle trasformazioni culturali avvenute nella società italiana in epoca fascista, quali, ad esempio, l'incremento e la diffusione dei poteri e delle competenze dello Stato e in genere della mano pubblica nella sfera della vita economica, nonché i crescenti condizionamenti e intrecci politici con tutta l'attività produttiva. Da questo quadro storico diverso discendono alcuni tratti più nettamente distintivi della Democrazia Cristiana rispetto al Partito Popolare; in particolare la maggiore insistenza da parte della prima sull'unità politica dei cattolici, con la conseguenza di una più rilevante organicità di legami con la Chiesa e un'attenuazione dell'aconfessionalità. Da questa constatazione sono scaturite valutazioni divergenti e se per alcuni, tra i quali Pietro Scoppola, l'unità politica dei cattolici in un partito democratico costituisce, in una situazione lacerata e lacerante, la condizione indispensabile perché un mondo cattolico segnato dal fascismo mettesse le sue forze a disposizione della democrazia, spuntando le armi dei settori cattolici più clericali, per altri invece il maggior tasso di confessionalismo corrisponderebbe alla natura complessivamente più conservatrice della Democrazia Cristiana, un partito portatore di un complessivo disegno restaurativo e di stabilizzazione sociale.
Altro elemento di discontinuità è rappresentato dall'interclassismo: tutta la polemica sturziana contro il moderatismo venne a qualificarsi in senso antiborghese, mentre la Democrazia Cristiana, pur avendo un vasto e profondo radicamento popolare, in assenza di partiti spiccatamente borghesi, fu capace di attrarre su di sé l'interesse della borghesia, svuotandone i tradizionali canali di rappresentanza politica, fino a sostituirsi ad essi, sia che si trattasse della borghesia produttiva e finanziaria, sia della nuova borghesia di Stato, cresciuta considerevolmente in epoca fascista. Anche in questo caso le valutazioni sono diverse: c'è chi inquadra questo aspetto in un'ottica progressista, sottolineando la capacità della DC di inglobare la rappresentanza politica degli interessi borghesi in un partito democratico di massa, e c'è chi invece, all'opposto, ritiene che l'interclassismo democristiano sia stato lo strumento politico attraverso il quale la borghesia è riuscita a dotarsi di un partito di massa subalterno ai propri interessi, garante di stabilità, che ha pagato un prezzo limitatissimo alle istanze riformiste e popolari. In realtà la Democrazia Cristiana si presenta come un partito articolato, con notevoli differenze regionali; basta solo ricordare che nelle zone della Resistenza prevalevano posizioni di sinistra, portatrici di istanze di profondo rinnovamento sociale, mentre nell'Italia meridionale dominavano preoccupazioni conservatrici.
Alcide De Gasperi riuscì a realizzare un punto di equilibrio e di sintesi fra le varie tendenze, immaginando un partito che avesse la capacità di fronteggiare e sostenere l'urto di quelle forze politiche che potevano attentare alla ricostruzione di un sistema democratico-parlamentare. Questa esigenza lo portò a concepire un partito che doveva essere non solo l'espressione di tutti i cattolici, ma una grande forza di aggregazione di diverse categorie e ceti sociali, di diversi gruppi e di diversi interessi, coinvolgendo aree sociali e ambienti non necessariamente cattolici ma che si muovevano nella prospettiva di una ricostruzione morale ed economica per una ripresa della vita democratica, al di fuori di spinte e aspirazioni rivoluzionarie o di tentazioni di riflussi autoritari. La Democrazia Cristiana fu quindi un partito moderato, perché rinnegò i massimalismi delle ideologie, l'arroganza, l'assolutismo dei giudizi, la violenza e l'odio di classe come strumento per rispondere al desiderio di giustizia. Per molti democristiani termini quali «moderato» e «moderazione» erano applicati al modo di percepire l'impegno politico, nel tratto, senza cavalcare la protesta, nella concezione della politica, relativizzando la portata della stessa, ridotta ad un'azione secondo un progetto sempre modificabile. La moderazione così, negli anni migliori di governo della Democrazia Cristiana, non si è trasformata in estenuante mediazione, né in politiche di conservazione, ma è stata al contrario coscienza critica, partecipazione per spingere a scelte coraggiosamente riformatrici e di progresso.
Di tutt'altro tono invece la valenza che tale termine è venuto ad assumere nella cosiddetta «seconda repubblica», dove essere moderati, cittadini moderati, ha finito spesso per identificare persone che partecipano poco alla cosa pubblica, brava gente che si fa gli affari propri e ai quali conviene affidarsi ad un leader, votarlo, per continuare così a coltivare il proprio orticello senza curarsi di null'altro. Veicolata da un dilagante soggettivismo etico, che ha portato all'erosione non solo dei valori religiosi ma anche del senso di solidarietà, si è diffusa nella società italiana una concezione che porta al disimpegno, alla ricerca del successo come criterio chiave, a calpestare qualsiasi norma morale quando il tornaconto o la conservazione del potere lo suggeriscono. Soprattutto il cattolicesimo moderato-conservatore, che si trova collocato sul centro-destra dello schieramento politico, sembra usare in modo spregiudicato tale etichetta e, pur dichiarandosi liberal-democratico, continua con la sacralizzazione della patria, l'enfasi sulla famiglia, l'apologetica sul magistero del papa; molti di questi cattolici si dichiarano moderati, ma non rinunciano ad una caratterizzazione religiosa del loro percorso politico e non mettono in campo nessuno sforzo per distinguere quello che appartiene alla coscienza religiosa da ciò che appartiene all'impegno pubblico. Si tratta di una concezione reazionaria del significato politico dei termini «moderato» e «moderazione», che sottolinea ancora una insufficiente adesione dell'attuale Destra italiana alla democrazia liberale e contribuisce ad allontanare la società civile, le sue reti associative, dalla capacità di esercitare il ruolo di cittadini responsabili.


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[*] Il contributo di Mario Tosti si inserisce nel dibattito aperto nel precedente numero di "Cosmopolis" (1.2011), dedicato alle "Culture politiche dell'Italia repubblicana" e consultabile al link: http://www.cosmopolisonline.it/20110715/sommario.php.

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