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Editoriale

"Cultura politica" e "culture politiche": il senso di questo numero




Possiamo intendere il termine "cultura politica" in tanti modi. Si può assumerlo per indicare la formazione, lo sviluppo, e anche la crisi, di progetti ideali che hanno caratterizzato un'epoca storica (nel nostro caso, il secondo dopoguerra in Italia). E allora ecco venire in primo piano i rappresentanti salienti del pensiero politico di quest'epoca, il confronto (e talvolta lo scontro) tra di essi, le maggiori correnti del periodo, le modalità ogni volta diverse del rapporto tra la "cultura" e la "politica", per riprendere il binomio che ha dato il titolo a uno dei più noti e incisivi libri di Norberto Bobbio. Ed è stato Bobbio, fin dagli anni '50, a indicare nella mediazione in vista del dialogo il compito fondamentale dell'intellettuale, segnalando con ciò un punto che vale qui la pena di approfondire.
Mediazione dice di un discorso che deve sempre rimanere aperto tra gli intellettuali portatori di concezioni anche molto distanti tra loro: la mediazione è allora paziente argomentare in cerca della chiarificazione reciproca e, quando possibile, dell'individuazione di punti comuni, di convergenze, di elementi condivisibili da parte di tutti gli interlocutori. Ma dice anche di un altro aspetto, che forse oggi dovrebbe coinvolgerci di più come argomento di riflessione. Intendo alludere alla mediazione come sforzo di realizzare un sempre più stretto nesso, per dirla con Gramsci, tra "intellettuali" e "popolo". E ciò in vista della formazione di quella che è la "cultura politica" nel suo senso più pregnante, cioè forma specifica di comprensione della realtà che chiede di volgersi alla prassi e che, in questa intenzionalità pratica, tende a superare la consunta dicotomia tra coloro che sanno e i "semplici". Un'accezione che credo sia rilevante di "cultura politica" è proprio questa, e lo è in quanto indica uno spazio diverso, per un verso, dal sapere "alto", in ogni sua espressione, e, per alto verso, dall'ideologia, che per il suo carattere totalizzante restringe, invece di mantenere e ampliare, le occasioni del confronto dialogico. Certo, nelle condizioni attuali, risulta evidente che il termine va declinato al plurale: le "culture politiche" e non la "cultura politica". Si deve aggiungere che politica può essere ogni forma di sapere, nella misura in cui si volga verso le cose di interesse pubblico con l'intento di influenzare i processi decisionali. Quindi non c'è un campo recintato di culture politiche in senso proprio, ma politica diventa ogni espressione culturale nelle misura in cui risponda a un duplice requisito:
- aver compiuto quel decisivo tragitto che la rende pubblica in quanto comprensibile ai cittadini tutti,
- sia rivolta a esercitare una responsabilità più diretta possibile sulle scelte politiche.
Non tanto l'oggetto la rende quindi politica (almeno in prima istanza), ma la doppia intenzionalità indicata (appropriazione collettiva e capacità di intersecare il policy making). Le scienze, fisiche o biologiche, diventano dimensioni della cultura politica in un momento, come il nostro, in cui l'interconnessione tra saperi scientifici e decisioni collettive diventa inestricabile. Ma è solo un esempio, al quale infiniti se ne potrebbero aggiungere. E qui vengono in campo molti problemi:
- la capacità di rendere effettivamente patrimonio comune i saperi traducendo in linguaggio accessibile i contenuti dei vari ambiti della conoscenza,
- il ruolo decisivo (ma attualmente mortificato) della scuola in questa opera di democratizzazione della conoscenza,
- la funzione dell'università (tanto decisiva quanto oggi azzerata con colpevole caparbietà),
- le potenzialità dei mass media e in primo luogo della "rete" (e anche in tal caso il divario tra il possibile e il reale appare abissale).
Ma, se si intende "cultura politica" nell'accezione precedentemente proposta, si può far emergere un altro aspetto, forse altrettanto importante (o addirittura più importante). Certo "cultura politica" va declinato al plurale, si è detto. E in questo plurale c'è in qualche modo uno degli elementi essenziali della democrazia, come sappiamo da eredi fedeli della libertà dei moderni. Ma ci si dovrebbe chiedere se non la si potrebbe o dovrebbe declinare anche al singolare. La considerazione che sta alla base di questa proposta interpretativa è tutto sommato semplice: una comunità politica non vive infatti solo di pluralismo e di dialogo tra le differenze, vive anche di ciò che, da questo dialogo, si può ricavare di condivisibile. Vive una dialettica inesauribile tra pluralità e unità. Una comunità politica, in fin dei conti, non potrebbe sussistere senza essere qualcosa di più di un recinto entro il quale, sotto la protezione del diritto e di alcune elementari regole che disciplinano il confronto pubblico e il rapporto tra governati e governanti, si misurano le diverse concezioni della vita comune e si avvicendano le coalizioni governative. Una comunità politica è tale se si riconosce in principi valoriali condivisi, che nel caso dell'Italia sono contenuti nei primi articoli della Costituzione. In tal senso l'etica pubblica è un ingrediente ineliminabile della democrazia. Ma anche l'etica pubblica deve diventare – passando dal piano dell'elaborazione teorica a quello della vita – abitudine, costume, comportamento quotidiano. Deve diventare un patrimonio culturale nel senso che ho cercato già di chiarire. La cultura politica di una nazione la si può intendere allora anche come l'insieme dei valori comuni che conferiscono a un paese la propria identità, consentendo a uomini e donne di riconoscersi come appartenenti a una cittadinanza in cui vengono garantite le differenze e viene però anche riconosciuto quello sfondo comune che consente alle differenze di non dissiparsi in un'aggregazione senza forma.
Se s'intende così la "cultura politica", cioè come quel "senso comune" che non solo permette di riconoscerci in base a valori condivisi, ma che consente anche di essere uniti nei momenti di emergenza della vita collettiva, allora come non vedere che l'obiettivo, in questo caso, è stato mancato in modo ancora più palese che nel primo? Insomma che le garanzie del pluralismo culturale (le garanzie delle culture) traballano ogni giorno di più e che ogni giorno di più svanisce il senso profondo del nostro essere insieme (della cultura come idem sentire dei cittadini)? C'è da chiedersi dove sia reperibile, in Italia, questo "senso comune" che è (o dovrebbe essere) il frutto di una profonda e continua alfabetizzazione democratica, che nessuno in verità ha mai cercato seriamente di assicurare. "Cultura politica" in questo senso indica peraltro non solo il consenso consapevole e responsabile sui principi fondamentali della Costituzione, ma anche la coscienza di ciò che sta dietro a quei principi, cioè la coscienza storica che dà carne e sangue alla comune cittadinanza. Viviamo invece in una società che si appaga di un narcisismo di massa, di un egoismo prepotente e astuto, di un'ignoranza che piuttosto che calare cresce ogni giorno. Uso "ignoranza" nel senso generico del termine, ma alludo anche all'ignoranza in un senso molto più determinato, vale a dire all'ignoranza di sé come popolo, con le sue tradizioni, le sue conquiste, i suoi fallimenti, i suoi eroi, i suoi morti, i suoi martiri, il suo stato presente, le sue prospettive possibili per il futuro. Cos'è che ha dimostrato la crisi economica entro la quale ancora siamo e cosa hanno insegnato le manovre finanziarie ben conosciute da essa imposte se non che abbiamo disimparato quel poco che pure avevamo appreso di come si fa a vivere come popolo, a essere ancora una nazione, a porci intenti comuni nei passaggi difficili della nostra esistenza collettiva? L'indurimento nel "particolare" ha inchiodato e inchioda i veri programmi di riforma, perché richiederebbero il sacrificio di privilegi consolidati nel tempo. E allora, non potendo intaccare i privilegi, si smantellano i diritti. Questo non potrebbe mai accadere in un paese in cui i principi fondanti della convivenza fossero veramente sentiti come parte intoccabile e costitutiva della nostra identità e della nostra dignità, non solo individuale ma collettiva; insomma, se fossero state create le condizioni perché, rispetto a questioni fondamentali come dignità, solidarietà e diritti, ci sentissimo autenticamente una comunità capace di reagire compatta invece di essere, come siamo, un insieme disaggregato di interessi che reagiscono ognuno per conto suo senza alcuna idea di un interesse che ci tiene insieme e che ci fa opporre a quanti attentano al vivere democratico. Mai come oggi il vuoto di cultura politica come senso comune dell'appartenenza alla cittadinanza democratica ha fatto sentire il suo peso. L'apatia in cui molta parte della nostra società sembra piombata e che si manifesta anche nell'ottusa indifferenza con cui si lasciano passare provvedimenti palesemente iniqui illumina questo vuoto con una luce tanto chiara quanto spettrale.
E però c'è anche il rovescio della medaglia, rappresentato dalla volontà di non stare a questo gioco al massacro delle garanzie di libertà, della giustizia distributiva, della stessa dialettica democratica. Parte della società si muove, segmenti importanti di consapevolezza e di fedeltà alla democrazia emergono e si fanno sentire con forza; forse una "cultura politica" nuova comincia a prendere forma nelle pieghe di una società troppo spesso silente, una cultura politica fatta di lettura diretta dei fenomeni nuovi in atto, di volontà di rottura con schemi teorici irrigiditi, con dibattiti filosofici e storici astratti e lontani dai bisogni concreti della gente, di indisponibilità al compromesso ad ogni costo. Spesso queste forme nuove stanno ai margini dei grandi partiti, fuori dei grandi movimenti, lontani dalla sfera pubblica istituzionale. Sono "mondi vitali" in fase di formazione, in cui troviamo i "no global", i pacifisti, gli ambientalisti, e gruppi, associazioni, micro-istituzioni che non hanno mai cessato di sviluppare, anche da posizioni tra loro diverse (e non sempre interamente condivisibili), un'analisi critica della società italiana e internazionale senza sottostare ai clichés dominanti (e dominanti talvolta anche nella sinistra "ufficiale"). Credo che sia necessario porgere orecchio a questi processi e a questi soggetti, con la loro potenziale ricchezza e con i loro limiti. Il nuovo in questa fase sembra nascere molto più dal basso che altrove, anche se la maggioranza dei nostri intellettuali continua a guardare in alto e a cercare la mediazione in un ben diverso senso rispetto a quello qui inteso: la mediazione come discorso tra élites autoreferenziali che hanno in comune la lontananza dalla vita e la condivisione di quote di potere.
Sono i "mondi vitali" ancora non colonizzati il luogo, oggi, della mediazione di cui ho in precedenza parlato come elemento determinante della "cultura politica". Mediare bisogna tra le esigenze, spesso poco articolate, che vengono fatte valere dai soggetti di un potenziale nuovo spazio pubblico e gli imperativi della politica, che non può solo vivere di un rivendicazionismo fermo a ribadire la sua alterità rispetto al sistema.
Ecco perché un numero dedicato alle culture politiche in Italia nel secondo dopoguerra ci è sembrato utile: per riflettere su queste due facce della cultura politica e per invitare anche a meditare, insieme a chi vorrà, sul come possa essere riguadagnata una memoria storica che sia premessa per un progetto in vista del domani. Non è quindi solo questione di passare in rassegna le espressioni culturali che hanno segnato la vita del nostro paese negli anni più recenti, ma di pensare la forma di vita entro la quale può diventare plausibile ipotizzare un disegno di emancipazione che recuperi un'idea forte di democrazia come sintesi dei diritti civili, politici e sociali e come spazio di un confronto culturale non appiattito sui modelli imposti da mass media mai così pronti ad assecondare il potere vigente.

R. G.


IN QUESTO NUMERO

Questo numero monografico di Comsopolis (1/2011) è dedicato alle culture politiche in Italia nel secondo dopoguerra. Nell'editoriale Roberto Gatti chiarisce perché sia stato scelto un tema come questo: non per presentare una rassegna delle diverse espressione culturali della vita politica italiana, ma anche e soprattutto per sostanziare "un'idea forte di democrazia come sintesi dei diritti civili, politici e sociali e come spazio di un confronto culturale non appiattito sui modelli imposti da mass media mai così pronti ad assecondare il potere vigente".
Della cultura puramente liberale trattano i primi contributi presentati. Antonio Masala e Raimondo Cubeddu ripercorrono la storia del liberalismo italiano dal dopoguerra ad oggi sotto forma di analisi delle differenze e dei punti in comune con le concezioni economiche di stampo liberista e "antistatalista". Stefano Zamagni ha invece tentato di leggere il liberalismo dal punto di vista della sua correzione welfarista, proponendo in chiusura il recupero della dimensione della fraternità, esclusa da una concezione del welfare state secondo cui è solo l'ente pubblico che si fa carico della giustizia distributiva.
L'origine e il significato storico e politico del liberalsocialismo in Italia è l'oggetto del contributo di Ermanno Vitale, intendendo con questo termine "il tentativo di coniugare in una dottrina politica e in una visione della società i due valori politici della libertà e dell'eguaglianza". A conclusione di questa prima parte di contributi, Luciano Pellicani ci propone una sintesi del pensiero politico di Bobbio, a partire dal concetto di libertà considerato in collegamento sistematico con i valori e i fondamenti delle teorie socialiste e democratiche.
Quattro contributi sono dedicati alle culture socialista e comunista. Carmelo Calabrò ci parla del storia del Partito socialista in Italia fino al 1992, mentre Renato Covino e Franca Papa della tradizione marxista e comunista. Il primo ci racconta cosa sia stato il marxismo in Italia dal dopoguerra fino agli ultimi anni del Novecento: coincidente con la storia del Partito comunista italiano e legato alle vicende dell'Unione sovietica. Vengono perciò sottolineate influenze, conseguenze e sfumature teoriche del rapporto con il "socialismo reale". Papa si interessa invece della storia del Partito comunista negli anni '60 e '70, con una particolare attenzione alla figura di Enrico Berlinguer e all'idea politica dell'"eurocomunismo", tesa ad individuare e a valorizzare sempre maggiori elementi di convergenza tra i diversi partiti comunisti europei. Federico Tomasello, a chiusura di questa parte, parla invece della cultura politica dell'operaismo, intendendo sotto questa voce una pluralità di espressioni, di movimenti e di caratteristiche diverse, a partire dall'intreccio delle due dimensioni della "teoria operaista" e dell'"esperienza politica dell'operaismo".
La storia e i protagonisti della cultura del cattolicesimo democratico sono invece il tema dei contributi di Giorgio Campanini e di Gian Candido De Martin. In particolare quest'ultimo si sofferma sulla fase nascente di questo movimento e sulle principali figure della cosiddetta "Comunità del porcellino", sui risultati conseguiti e sull'eredità che ha lasciato.
Giuseppe Moscati si interessa, poi, delle culture del pacifismo, partendo da una definizione di base di questo – una determinata posizione di tipo etico e socio-politico – e analizzando la storia di tale concetto anche sulla base di fattori geopolitici.
Anna Loretoni ci propone una storia delle donne italiane e dei movimenti femministi utilizzando la chiave di lettura della tensione di fondo tra obiettivi di stampo emancipazionista – per raggiungere la "parità"- e il richiamo, sempre forte, alla vocazione domestica e materna delle donne. Giulia Paola Di Nicola, sempre su questo tema, parla del contributo che i movimenti femminili cattolici hanno dato al tema dell'inclusione delle donne nella vita politica e alla parità.
Violenza politica fascista e analisi della destra post-fascista: questi, invece, i temi affrontati da Gianni Cipriani e Pasquale Serra. Il primo ha voluto sottolineare come tale violenza abbia influenzato in maniera determinante la vita democratica dell'Italia soprattutto negli anni '60 e '70 e ha fornito anche una mappatura della destra neo-fascista di quegli anni. Serra si è invece soffermato su un'analisi non di tipo storico, ma legato alla "teoria" o alla "metodologia politica" della destra post-fascista e del suo legame con il mondo contemporaneo.
A seguire, nel suo contributo, Laura Bazzicalupo ci fornisce temi, immagini, figure del mondo politico legato al '68, ma anche i risultati, le vittorie e le sconfitte di un'intera epoca.
Chiudono il numero due contributi su due temi molto stimolanti per la lettura della politica e della società contemporanee. Franco Riva ci propone un intreccio tra caratteristiche della cultura narcisistica e gli scenari politici attuali, proponendo alcune riflessioni sul rapporto tra spettacolo della politica e teatro di strada. Infine Giuliana Parotto affronta il tema del "corpo" della politica tra caratteristiche della leadership moderna e legame con l'ambito del "sacro".

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