cosmopolis rivista di filosofia e politica
Cosmopolis menu cosmopolis rivista di filosofia e teoria politica

Editoriale

Il silenzio della società civile




«Tutti sanno [...] che le leggi
senza i costumi non bastano»

(G. Leopardi)


Vi sono testi che possono dirsi immortali per la capacità che conservano di parlare al presente, se pur a distanza di secoli dalla loro composizione, illuminandone aspetti cruciali. Ciascuno potrebbe stilare la sua personale lista ma credo che dovrebbe prendere in considerazione la possibilità di includervi quel Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl'italiani con il quale il giovane Giacomo Leopardi ci ha restituito una sintetica quanto efficace immagine dell'Italia e degli italiani. Dal Discorso emerge una chiara denuncia della completa assenza di una società civile che possa dirsi tale, l'inesistenza di qualsiasi coesione – sia sul piano sociale che su quello civile – e la conseguente mancanza di un costume collettivo. «Gl'italiani – afferma Leopardi – hanno piuttosto usanze e abitudini che costumi»; esse «si riducono generalmente a questo, che ciascuno segua l'uso e il costume proprio, qual che egli si sia». Più che come cittadini appartenenti a quella che egli definisce una «società stretta», gli italiani appaiono individui indipendenti e privi di reali legami sociali che, quand'anche seguono qualche uso generale o pubblico, lo fanno «per liberissima volontà, determinata quasi unicamente dalla materiale assuefazione, dall'aver sempre fatta quella tal cosa, in quel tal modo [...] e facendola del resto con pienissima indifferenza, senz'attaccarvi importanza alcuna [...] considerando per egualmente importante il farla che il tralasciarla». In breve, gli italiani non hanno costumi civili a meno che per "costume italiano" non si voglia intendere, in senso debole, indifferenza e disaffezione alla "cosa pubblica".

Tralascio ogni considerazione circa le cause che possono aver determinato questo stato di fatto e le conseguenze che da esso discendono nello sviluppo del discorso leopardiano. Ciò che mi preme sottolineare invece è l'utilità che può derivare dall'assunzione di una simile prospettiva per una riflessione sull'esistenza di un'Italia civile in un momento come quello presente in cui, da più parti, si denuncia un generale imbarbarimento del paese. Lo sguardo disincantato che Leopardi rivolgeva ai costumi italiani infatti può risultare proficuo per sottrarci a quella insidiosa quanto diffusa tentazione presente di ascrivere tutti i mali endemici dell'Italia alla corruzione di una classe politica sostanzialmente indegna della società civile.

Il problema della corruzione sistemica del mondo politico nel nostro paese non è di certo una questione secondaria; si tratta di un carattere non estrinseco o occasionale ma radicato nella nostra storia al punto tale che criminalità e corruzione divengono elementi imprescindibili per una autentica comprensione del nostro passato e dei problemi del nostro presente[1]. Non mi pare però che da questo riconoscimento si sia autorizzati a scivolare in quella retorica un po' banale, oltre che non veritiera, che si compiace di contrapporre l'Italia corrotta e imbarbarita del mondo politico ad una società in lotta per la salvaguardia e la difesa di quei valori civili costantemente calpestati.

"Due Italie" forse esistono, ma non credo che possano essere ricondotte all'interno di questa dicotomia fra società civile e mondo politico. Il pericolo che, a mio avviso, rischia di celarsi dietro ad una simile impostazione del problema riguarda i possibili rischi di una deresponsabilizzazione rispetto alle cause che hanno determinato il degrado presente con una sostanziale auto-assoluzione collettiva che porterebbe a conseguenze ancora più penose.

Credo sia utile, al contrario, conservare uno sguardo lucido e attento sui difetti di un popolo radicalmente individualista, tradizionalmente incline al compromesso se non all'aggirare le norme per piegarle all'interesse privato, da sempre pronto ad appropriarsi delle risorse collettive e dei beni pubblici, talvolta cinico e meschino, in cui il clientelismo e la furberia sono guardati con favore più che con disprezzo. Come non riconoscere in questi tratti non solo una piaga del mondo politico, quanto piuttosto elementi costitutivi del malcostume italiano? Come negare che questo malcostume serpeggia ampiamente in tutte le pieghe del tessuto sociale determinandone il progressivo laceramento e che, ad un più attento esame, la società civile pare avere in realtà la classe politica che meglio le corrisponde?

Sarebbe sterile continuare nell'elencazione dei vizi italiani. Di certo quest'Italia incivile appare oggi sempre più preponderante. Più che l'inaugurazione di una nuova stagione nella vita democratica del nostro paese, il crollo della Prima Repubblica pare aver in qualche modo aperto una voragine dalla quale sono riemersi, ancora una volta, i malcelati vizi endemici del "costume italiano". Si tratta di quegli stessi vizi che consentirono a Piero Gobetti di definire il fascismo come «autobiografia della nazione», perché derivato da mali tradizionali della nostra società, e il mussolinismo come risultato ancora più grave poiché non fece che confermare nel popolo italiano «l'abito cortigiano, lo scarso senso della propria responsabilità, il vezzo di attendere dal duce, dal domatore, dal deus ex machina la propria salvezza». Quello che si palesa sotto i nostri occhi è il ritorno aggressivo di un'Italia antica ma che, in determinati periodi storici, pare rivitalizzarsi e riemergere in tutta la sua prepotenza.

Difficile dire se l'Italia autentica sia questa o quella che ha faticosamente cercato di contrastarla. Di certo, siamo chiamati ad un'assunzione di responsabilità nei confronti di quella parte del paese che tenta tutt'ora, in verità in maniera sempre più debole e fiacca, di opporsi alla progressiva degenerazione se vogliamo evitare che venga schiacciata e messa a tacere per sempre.

È in risposta a tale richiamo che l'ultimo numero di Cosmopolis presenta alcune figure che hanno incarnato, nel passato recente, una testimonianza di impegno per la costruzione di "un'altra" Italia. Il filo rosso che le sottende risiede nella scelta che ciascuna di queste figure esemplari ha compiuto, a suo modo, in favore di tale impegno – nella sua radicale pienezza e terribile serietà – in momenti non sempre facili della recente storia italiana. Nel faticoso processo di costruzione della Repubblica in un paese che, dopo la caduta del regime, appariva attraversato da profonde lacerazioni interne, nella forse ancor più difficile gestione della stagione insanguinata dalla violenza terroristica, così come nelle lotte per la rivendicazione dei diritti sociali, nelle battaglie in difesa della libertà di stampa e di informazione o, più in generale, nella critica del potere e del conformismo sociale, troviamo preziosi esempi di impegno in difesa delle fragili basi della nostra democrazia e dei suoi valori. Le differenti professioni di fede che le animano e le posizioni politiche non solo distinte, ma a volte, anche radicalmente divergenti non costituiscono, credo, un elemento di fragilità all'interno del parziale quadro offerto, ma un suo valore aggiunto. Attestano infatti l'impossibilità di identificare quest'Italia civile con una sola parte del paese o con una cultura politica particolare, per ribadire la scelta personale che ciascuno può decidere di assumere in tal senso e le molteplici varietà in cui tale partecipazione può rendersi concretamente estrinseca. Ciò che le accomuna, d'altra parte, è il rifiuto dell'indifferenza e del disinteresse, la fedeltà a questo impegno e ai valori che lo hanno orientato se pur, forse, nella consapevolezza "tragica" della sua costitutiva insufficienza rispetto al fine.

Credo che nessuna di queste battaglie possa dirsi vinta e il riemergere dell'Italia incivile ne è la triste conferma, ma furono combattute perché vi fu qualcuno disposto ad impegnarsi in esse per mantenere in vita quegli ideali, pagando a volte anche un prezzo elevato. Indifferenza, disinteresse, assuefazione: sono questi allora i pericoli con i quali siamo chiamati in primo luogo a fare i conti nel momento presente. L'auspicio è che questi esempi e queste testimonianze possano rivitalizzare quella parte della società "civile" che appare sempre più silenziosa. Restando spettatrice impassibile anche di fronte alle minacce che insidiano i valori fondamentali della nostra tradizione democratica, rischia di non avere più armi con le quali opporsi agli assalti di nuovi e vecchi "barbari"; forse, dimentica troppo spesso che indignazione e sdegno non sarebbero in questo caso incompatibili con i valori in gioco, ma la risposta più coerente con essi.

Questo silenzio, a tratti assordante, ci dice di una società civile non solo pienamente coinvolta nel degrado presente ma sempre più in difficoltà nel guardare oltre esso. E allora sì che l'Italia civile rischierebbe l'ultima, definitiva disfatta.



Brenda Biagiotti


 

[1] Il lettore interessato ne potrà trovare una lucida analisi nell'intervento che Roberto Scarpinato ha dedicato a questo tema nel penultimo numero di Cosmopolis: cfr. La criminalità sistemica come metodo di governo, n. 2.2009, pp. 19-33.



IN QUESTO NUMERO

Il decimo numero di Cosmopolis è dedicato all'analisi di alcune figure esemplari di quella che si potrebbe definire "l'Italia civile". Al lettore vengono presentati ritratti di personalità che, oltre ad aver svolto un ruolo centrale nella storia del nostro paese, sono apparse particolarmente significative sotto il profilo umano e civile. Il quadro offerto è naturalmente parziale ma consente, attraverso tali testimonianze, di tornare alle radici di un'Italia "altra" rispetto a quella che sembra ormai prevalere. Dovrebbe emergere allora con sufficiente chiarezza il nesso che lega questo numero al precedente, dedicato ad un'analisi del processo di progressiva erosione del tessuto sociale dell'Italia nonché della sempre più marcata degenerazione dei costumi civili degli italiani. L'ideale prosecuzione di tale riflessione non poteva che essere un ritorno a quegli esempi di impegno civile in grado di rivitalizzare quella parte del paese che, pur apparendo oggi così in difficoltà, cerca di sottrarsi a tale imbarbarimento.
La sezione di apertura del numero è dedicata ad alcune figure significative nel difficile processo di costruzione della nostra Repubblica e di fondazione dei valori ad essa sottesi. Il contributo di Giorgio Campanini si sofferma su Alcide De Gasperi che, nonostante il ruolo piuttosto limitato svolto ai lavori dell'Assemblea costituente, ha avuto un peso cruciale nel processo che ha condotto alla nascita della Repubblica sia per l'impegno profuso nel riconciliare parte della tradizione del cattolicesimo italiano con la neo-nata democrazia sia per gli sforzi tesi ad un suo consolidamento. Nel panorama politico italiano, la figura di Palmiro Togliatti presenta un'indubbia complessità, resa evidente e testimoniata anche delle ambivalenti valutazioni che di essa vengono offerte e che tendono a presentarlo ora come il dirigente piegato alla logica del comunismo staliniano ora come uno dei fondatori dell'Italia repubblicana. L'intervento di Renato Covino suggerisce l'opportunità di indagare l'articolata personalità di Togliatti mantenendo entrambe le componenti: il contributo dato alla costruzione della Repubblica infatti appare, a suo avviso, l'esito di una complessa quanto a tratti ambigua sintesi fra un realismo attento alla particolare congiuntura storica e quello sfondo ideologico che non poteva che costituirne il riferimento imprescindibile. La riflessione su Luigi Einaudi operata da Pier Luigi Porta delinea i tratti di una visione economico-politica all'interno della quale la difesa del capitalismo concorrenziale non rischia di tradursi in una forma di esaltazione dell'individualismo sfrenato così come rifugge da ogni semplicistica identificazione fra benessere e mera ricchezza materiale. Il primato della politica sull'economia e sulla logica del profitto costituisce uno degli elementi-chiave della figura di Enrico Mattei ricostruita, nella sua attualità, da Paolo M. Di Stefano. Muovendo da tale presupposto, l'intervento della legge in ambito economico – in quanto posizione di un vincolo limitativo dell'iniziativa economica inaccettabile quando non nasce in vista del bene comune – deve configurarsi come la ricerca di quelle condizioni utili alla creazione di una ricchezza prodotta nell'interesse della comunità. Fra i protagonisti della politica italiana della seconda metà del Novecento occorre di certo annoverare Ugo La Malfa. Realismo politico e impegno per uno sviluppo del Mezzogiorno in grado di operare una riunificazione di quelle "due Italie" ancora separate trovarono in La Malfa la propria armonica composizione all'interno di un meridionalismo non meramente rivendicativo ma – come rileva Liliana Sammarco – di ben più ampio respiro etico. La critica all'incapacità del sistema politico di dare risposte concrete alle problematiche emergenti nel paese scaturiva infatti da un'idea di democrazia intesa non solo come regime politico di libertà, ma come governo chiamato ad assumersi la responsabilità di far valere principi di giustizia sociale soprattutto nelle aree più svantaggiate.
In un momento particolarmente complesso per la storia del nostro paese Aldo Moro ed Enrico Berlinguer hanno rappresentato il tentativo di realizzare una possibile convergenza fra forze politiche eterogenee, tentativo fallito insieme al progetto del compromesso storico. In questa "Italia al bivio", Aldo Moro ha posto con insistenza l'idea che lo spirito di una "vera democrazia" debba risiedere nella fiducia, nel rispetto e nella reciproca collaborazione fra soggetti politici anche distanti fra loro quanto a ideali e valori perseguiti. Allo stesso tempo però, Moro ha anche avvertito del pericolo di ridurre la democrazia soltanto a questo suo lato "formale". Giancarlo Pellegrini, nel suo intervento, sottolinea il saldo legame che tale immagine dell'ideale politico democratico nutriva, in Moro, con i contenuti sociali; se la democrazia resta puramente politica e non si riempie di un contenuto concreto di «operante solidarietà» essa tradisce il suo obiettivo umano, cioè la sua finalizzazione all'uomo stesso. Adriano Guerra ripercorre la formazione politica di Berlinguer mostrando le istanze di rinnovamento di cui si fece portatore; in particolare, è da sottolineare la centralità che la "questione morale" venne progressivamente per lui ad assumere tradottasi, ad esempio, nel costante richiamo alla necessità di una riforma della politica che ponesse in qualche modo rimedio alla degenerazione dei partiti.
Oltre ad aver occupato un posto di rilievo all'interno del dibattito politico e culturale dell'Italia della seconda metà del Novecento per la capacità di intercettare alcune problematiche che sarebbero poi diventate cruciali, Norberto Bobbio risulta significativo anche come scrittore civile. Il ritratto di un'Italia civile consegnato nell'omonimo testo infatti restituisce la descrizione di figure esemplari caratterizzate da una sostanziale immunità rispetto a quei vizi tradizionali che storicamente affliggono ed hanno afflitto l'Italia reale; si tratta però di un'Italia civile che – come sottolinea Michelangelo Bovero nel suo contributo – lo stesso Bobbio, negli ultimi anni, vedeva sempre più minoritaria e umiliata. Anche il carteggio fra Aldo Capitini e Guido Calogero rappresenta una preziosa occasione di riflessione sull'impegno di due intellettuali militanti per la costruzione di un'"Italia civile": la selezione operata da Thomas Casadei e Giuseppe Moscati consente di mettere in luce, attraverso parte di questa corrispondenza, la consapevolezza della necessità di una ricostruzione civile e culturale del popolo italiano, appena uscito dall'esperienza del regime fascista. Laico nella chiesa e cristiano nel mondo, Vittorio Bachelet ha testimoniato, nel suo impegno, di essere consapevole della necessità che l'azione politica sia orientata alla costruzione, sempre difficile e graduale, del bene comune concretamente praticabile in determinate condizioni storiche; da questa consapevolezza discende, secondo Gian Candido De Martin, quel supplemento di disponibilità al dialogo e al confronto richiesti al cristiano nel suo impegno politico. Il costante richiamo di Alessandro Galante Garrone all'esperienza della Resistenza infine viene interpretato da Paolo Bagnoli come un monito lanciato contro i pericoli che rischiano di insidiare lo stato di salute della nostra democrazia e come un richiamo a quelle ragioni che l'hanno storicamente prodotta e che – sole – possono continuare a sostenerla.
Leonardo Sciascia ha incarnato, per Antonio Di Grado, uno degli ultimi intellettuali consapevoli della propria «controversa» funzione sociale e della necessità di operare una costante problematizzazione di quelle opinioni consolidate che minacciano il mantenimento di una dialettica di punti di vista. L'intellettuale impegnato in questa funzione critica e demistificatrice è infatti colui che semina il dubbio e coltiva il dissenso. In Sciascia l'impegno civile risulta evidentemente testimoniato, in primo luogo anche se non soltanto, dalla coraggiosa scelta di confrontarsi con un tema quale quello della mafia in un momento storico e in un contesto in cui molti ne negavano la stessa esistenza. La condizione per certi versi tragica dell'intellettuale è stilizzata da Giovanni Falaschi in quella capacità di «percepire la verità senza poterla dimostrare in dettaglio» che vede nella complessa figura di Pier Paolo Pasolini, lucido e spesso spietato interprete del proprio tempo, una delle più limpide incarnazioni e, per questo, anche uno dei punti di riferimento imprescindibili nella storia del nostro paese. Impegno sociale e politico innervano anche il teatro di Dario Fo: Simone Soriani ne ricostruisce i tratti essenziali mostrando il disinteresse di Fo per un'arte fine a se stessa, sganciata da quell'intimo nesso che la lega al proprio tempo e soprattutto dalla assunzione di una presa di posizione critica nei suoi confronti. Curiosità, ricerca continua e desiderio di fotografare la realtà senza violarla sovrapponendo ad essa interpretazioni personali sono tratti essenziali del cinema di Roberto Rossellini per il quale, come ricorda nel suo contributo Daniela Turco, il senso e il significato delle cose, già presente in esse, può svelarsi soltanto a colui che si dispone ad osservarle. La nascita del neorealismo in tal senso sta a rappresentare la capacità della nazione di rivolgere su se stessa uno sguardo disincantato.
Vocazione giornalistica e impegno civile sono elementi che consentono in qualche modo di avvicinare figure del giornalismo italiano che, pur essendo profondamente eterogenee fra loro, hanno offerto testimonianza, con stili e modalità differenti, di un giornalismo permeato di passione politica e di partecipazione pubblica. La sezione "Giornalismo e potere" ne presenta alcune. L'inclinazione di Indro Montanelli a "steccare nel coro" e ad esprimere il proprio dissenso non si traduceva mai in una forma di intransigentismo morale o di difesa fanatica del rispetto delle regole ma, come nota Alessandro Frigerio, delineava una forma di vocazione ed impegno civili improntati ad una buona dose di realismo consapevole della costitutiva presenza del "vizio" nel costume italiano. Il contributo di Annarosa Macrì è invece dedicato alla figura di Enzo Biagi; l'analisi e l'approfondimento dei fatti determina, nell'ideale giornalistico che emerge dall'esperienza biografica e professionale di Biagi, un vero e proprio "impegno" del giornalista nei confronti dei lettori ai quali deve essere offerta una ricostruzione onesta e libera volta ad attestare la verità anche nel caso in cui essa possa risultare sgradita. Il breve ritratto di Oriana Fallaci tratteggiato da Riccardo Nencini ci consegna il ricordo di una giornalista irriverente, lucida e tagliente nelle sue analisi, certamente figura complessa e controversa, poco prima della sua scomparsa. È invece una critica miope quella che, secondo Guido Conti, ha sottovalutato l'importanza di Giovannino Guareschi. Rivelandosi incapace di cogliere un secolo complesso come il Novecento nella ricchezza di tutte le sue sfumature e confinando la produzione di Guareschi all'interno del genere umoristico infatti, ci si preclude la possibilità di riconoscere che, per la capacità di descrivere l'esperienza vissuta del lager con un'opera come Diario clandestino, egli merita un posto fra i grandi scrittori europei.
Nella sezione che chiude il numero monografico, il profilo di Luciano Lama è curato da Maurizio Ridolfi. La sua attività come segretario della Cgil e come parlamentare fu orientata dalla convinzione che la conquista di un'Italia più civile dovesse passare per la piena affermazione e il consolidamento di alcuni diritti fondamentali, già riconosciuti dalla Carta costituzionale, anche all'interno del mondo del lavoro e dall'idea che il sindacato dovesse essere interprete di questa istanza. Biblista ed esegeta, particolarmente attento al problema del dialogo interreligioso, il cardinale Carlo Maria Martini, Arcivescovo emerito di Milano, è presentato da Elio Bromuri come uomo di fede non soltanto capace di richiamare i credenti alla dimensione della contemplazione ma anche di conservare uno sguardo sempre attento alle problematiche sociali. Per Franco Pittau infine, solidarietà, impegno civile e lotta contro ogni forma di esclusione fanno di Luigi Di Liegro un prezioso testimone di quel cattolicesimo sociale che pervenne progressivamente ad affermare il necessario impegno del mondo cristiano nella rimozione delle cause dell'ingiustizia.

torna su