cosmopolis rivista di filosofia e politica
Cosmopolis menu cosmopolis rivista di filosofia e teoria politica

Poetica e prassi dell'engagement nel teatro di Dario Fo

Simone Soriani

Nella premessa a Fabulazzo (raccolta di articoli, dichiarazioni e fogli sparsi che Fo ha dato alle stampe nel 1992 e che costituisce una sorta di bilancio in itinere della sua esperienza biografica ed artistica) Dario Fo annovera, tra le caratteristiche più durature e costanti della propria attività, il «discorso sull'impegno nel "sociale" […]. Il valore di una scelta morale nello scrivere, nel recitare e nel mettere in scena. Il peso di una coerenza, e il prendere posizione dentro la quotidianità»[1]. Del resto, la formazione culturale di Fo (San Giano, 1926) matura nella Milano del secondo dopoguerra quando, ancora studente all'Accademia di Brera ed alla Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano, entra in contatto con artisti ed intellettuali quali Savinio e De Chirico, Emilio Tadini e Alik Cavaliere, ma anche Borlotti, Baj, Peverelli, Crippa e Dova. Si tratta di un underground culturale che, perseguendo una concezione fondamentalmente civile e sociale dell'arte, influenzerà non poco il giovane Fo, spingendolo a sviluppare un'idea di teatro inteso come strumento di "intervento" nella geografia e nella storia del suo tempo:


L'impegno politico è nato in quegli anni, nel dopoguerra. Venivamo dal fascismo […]. Avevamo voglia di rinascere, di spendere le nostre energie migliori, capovolgere la situazione in cui stavamo culturalmente. Era un periodo fertile per cercare una forma di cultura alternativa soprattutto nel senso della collettività, della solidarietà. […] L'impegno civile era una necessità per voltare pagina, sentirsi vivi; avevamo il sogno, la speranza di rovesciare il destino e disegnarlo a nostra immagine e somiglianza[2].


Nei primi anni '50, dopo un fortunato incontro con l'attore Franco Parenti che lo scrittura per una tournée teatrale nella provincia lombarda, Fo abbandona una possibile carriera di pittore ed architetto per dedicarsi al mondo dello spettacolo. Comincia a riscuotere un certo successo con la trasmissione radiofonica Chicchirichì (1952), all'interno della quale esegue i monologhi del Poer nano. Si tratta di fabulazioni grottesche e surreali, in cui reinterpreta in chiave demistificatoria ed attualizzante eroi e stereotipi della cultura scolastica, dalle vicende bibliche di Davide e Golia, Caino e Abele, Sansone e Dalila, ai miti desunti dalla storia greco-romana:


Erano storie assurde ma con dentro dei temi ben precisi: l'ironia sui luoghi comuni e la liturgia della gente per bene, l'astio e l'orrore per il mondo dei ricchi, l'amarezza e la ribellione per la propria condizione, il senso della paura e del bisogno[3].


La dimensione provocatoria e satirica dei monologhi del Poer nano è confermata, a negativo, dalla decisione della Rai di interrompere la trasmissione dopo diciotto settimane. Ufficialmente i motivi della sospensione derivavano dall'ambientazione "regionalistica" lombarda e dal dialetto milanese in cui quei brevi apologhi trovavano espressione. Eppure, forse, nella decisione della Rai si può rintracciare anche una sorta di preoccupazione per l'anticonformismo culturale che Fo aveva riversato in quelle sue lontane composizioni e che informerà anche la sua successiva produzione "giovanile": dalle riviste realizzate con Franco Parenti e Giustino Durano nel biennio '53-'54 (Il dito nell'occhio e Sani da legare) fino al ciclo delle commedie "borghesi" scritte ed inscenate, a scadenza quasi annuale, dal '59 al '67 (da Gli arcangeli non giocano a flipper a Isabella, tre caravelle e un cacciaballe, da Settimo: ruba un po' meno a La signora è da buttare). Non è un caso che i responsabili dell'allora Ministero del Turismo e dello Spettacolo abbiano di fatto censurato alcuni dei copioni di Fo, imponendo tagli e modifiche che, nel caso esemplare di Aveva due pistole con gli occhi bianchi e neri (1960), hanno costretto l'autore-attore a riscrivere una ventina di minuti di spettacolo. Del resto, già in queste prime produzioni – modulate secondo il magistero dell'"avanguardia" e della "retroguardia" francese (da una parte il «teatro dell'assurdo, gli insegnamenti di Jarry, di Ionesco, di Beckett»; dall'altra «i dettami del teatro da boulevard, di Feydeau e di Labiche»[4]) – emerge una certa vis polemico-caricaturale che si indirizza verso le magagne e le storture della società italiana all'altezza del boom economico. Emerge, insomma, una concezione di teatro inteso come strumento d'impegno politico (etimologicamente: relativo alla comunità), cioè un teatro che dal palco propaganda una visione del mondo diversa rispetto a quella dominante ed ossequiosa dello status quo:


Ho sempre cercato di metter dentro i miei testi quella crepa capace di mandare in crisi le certezze, di mettere in forse le opinioni, di suscitare indignazione, di aprire un po' le teste. Tutto il resto, la bellezza per la bellezza, l'arte per l'arte, non mi interessano[5].


La dimensione satirica e la passione civile di Fo sono anche all'origine della più nota e controversa querelle con l'establishment politico-culturale: nel '62, con l'avvento del primo governo di centro-sinistra, Fo e Franca Rame – compagna d'arte e di vita fin dai primi anni '50 – sono invitati a lavorare in TV, prima alla conduzione di Chi l'ha visto sul secondo canale, poi del popolare programma televisivo del sabato sera, Canzonissima, allora seguito da un audience medio di 15-20 milioni di telespettatori. Fo e la Rame abbandoneranno lo show dopo solo sette settimane di trasmissione, in seguito ad alcuni dissidi con la dirigenza Rai:


Mi sono ritirato da Canzonissima perché mi è stato eliminato dallo spettacolo che avrebbe dovuto andare in onda stasera uno sketch sui lavoratori edili, già approvato dalla direzione della Rai-Tv dopo alcune modifiche apportate allo stesso da me, congiuntamente agli altri autori Chiosso e Molinari[6].


Lo sketch incriminato avrebbe trattato degli infortuni sul lavoro nell'edilizia e quindi, secondo i dirigenti Rai, avrebbe potuto interferire nella vertenza che, in quegli stessi giorni, il governo stava portando avanti con i sindacati per il rinnovo del contratto proprio degli edili.

L'abbandono del programma TV costerà a Fo ed alla Rame, oltre al pagamento di una ingente multa per inadempienza contrattuale, un lunghissimo "esilio" dalla televisione pubblica italiana: a parte un paio di fugaci apparizioni nei primi anni '70 in un programma di Arbore ed in una trasmissione elettorale di PdUP, i due autori-attori torneranno in TV soltanto nel '77 quando la Rai manderà in onda il ciclo de Il teatro di Dario Fo: una ventina di ore di trasmissione in cui Fo e la Rame presentano alcune opere degli anni '60 (tra cui Mistero buffo) ed uno spettacolo inedito sulla condizione femminile, Parliamo di donne.

L'impegno civile di Fo si acuisce, nel corso degli anni '60, parallelamente all'affermazione del movimento sessantottino:


Nel Sessantotto si era tutti compagni. Tutti con la bandiera rossa in mano. […] Una meravigliosa esplosione d'interesse per la politica nata dal 'basso', […] un turbinio di ideali senza precedenti[7].


In questo periodo Fo decide di "rompere" con il circuito ufficiale dei teatri pubblici, finanziati dall'Eti (Ente Teatrale Italiano), ed inizia a collaborare con il Pci e l'Arci, esibendosi all'interno delle Case del Popolo, per un pubblico "proletario" di operai e militanti delle organizzazioni della sinistra. L'ambito dei teatri istituzionali dell'Eti, infatti, frequentato principalmente dalla borghesia cittadina, finiva per attenuare la carica satirico-polemica delle prime commedie di Fo, dal momento che il destinatario ideale del messaggio antagonistico dell'autore-attore restava fuori della sala teatrale[8].

Nei primi anni '70, però, il rapporto con la sinistra ufficiale si logora per il j'accuse che Fo muove «allo stalinismo da un lato, e alle posizioni socialdemocratiche del Partito dall'altro»[9] in spettacoli come L'operaio conosce 300 parole il padrone 1000 per questo lui è il padrone e Legami pure che tanto io spacco tutto lo stesso. Alle critiche di Fo verso il moderatismo parlamentarista e lo stalinismo del Pci, i vertici del partito reagiscono boicottando la tournée dell'autore-attore: per tutti gli anni '70, quindi, Fo si esibisce in spazi non convenzionali (capannoni, fabbriche e università occupate, palasport, chiese sconsacrate), collaborando dapprima con i gruppi della sinistra rivoluzionaria (Potere operaio, Lotta Continua ed Avanguardia operaia), poi con l'area dell'Autonomia.

Dalla fine degli anni '60 e per tutto il decennio seguente, quindi, Fo elabora e realizza un "teatro epico" in cui la lezione di Brecht si salda e fonde alla tradizione spettacolare popolare: dai giullari medievali ai comici dell'Arte, dalla clownerie al "numero" dell'attore di Varietà. Le produzioni di Fo, infatti, mirano ad abbattere la "quarta parete" («quel momento magico determinato dalla cornice del palcoscenico che divide di fatto gli spettatori da chi recita»[10]) per instaurare un contatto diretto ed immediato con il pubblico in sala, così da assegnare allo spettatore – sottratto al tradizionale ruolo di voyeur passivo – la funzione di interlocutore del discorso scenico. La volontà di Fo di stabilire un rapporto di interazione con lo spettatore presuppone ed implica una concezione del teatro non più inteso come strumento di rappresentazione del reale, quanto piuttosto come mezzo "relazionale" di comunicazione tra palco e platea. Per indirizzare il proprio "discorso" alla sala ed esplicitare il proprio "messaggio", Fo si serve di soluzioni ed espedienti come l'a-parte e l'allocuzione diretta al pubblico; i song con funzione di commento nei confronti dell'azione drammatica; la connotazione del personaggio interpretato dallo stesso Fo o dalla Rame come Io epico portavoce delle istanze autoriali ecc. Da questo punto di vista la tipologia spettacolare che maggiormente permette a Fo di veicolare il proprio messaggio (civile e politico) direttamente alla sala è lo schema monologico (la "giullarata") elaborato per la prima volta con il Mistero buffo (1969) e quindi ripreso per numerosi lavori successivi, da La storia della tigre e altre storie (1979) a Lu santo jullàre Françesco (1999). Si tratta infatti di un monologo fondato sull'affabulazione narrativa in cui Fo racconta una storia per mezzo di un assolo che non è più come nel teatro tradizionale uno strumento di analisi psicologica o caratteriale di un personaggio, ma è piuttosto un discorso che Fo, senza nascondere la propria identità sotto la maschera di un personaggio, rivolge direttamente ad un pubblico compresente e compartecipe (in questa prospettiva la giullarata di Fo assurge quasi a modello archetipico di quel "quasi-genere" che oggi si è soliti definire come "teatro di narrazione" ed al quale si ascrivono, ad esempio, le creazioni di Marco Paolini ed Ascanio Celestini[11]).

Sull'onda del movimento sessantottino, dunque, Fo concepisce e realizza un teatro al servizio della lotta rivoluzionaria, nella convinzione che la cultura – e quindi anche l'arte scenica – «sia un fattore determinante della lotta di classe se […] comunica[,] contro-informa, stimola, politicizza»[12]. Lungo questa direttrice "culturale" si colloca l'operazione che Fo conduce con Mistero buffo, intessendo e montando testi e canovacci rari o sconosciuti, di autori minori (soprattutto giullari) e popolari, dimenticati o volutamente espunti dal canone ufficiale della cultura scolastica e per lo più risalenti ai secoli di transizione dal Medioevo all'età moderna. Il recupero della tradizione culturale e folclorica dei ceti subalterni – nell'ottica di Fo – è finalizzato alla diffusione di una coscienza di classe che riconosca lo sfruttamento e l'oppressione esercitati dai potentes nei confronti dei "poveri cristi", in base ad una visione storico-politica "manichea" e fondamentalmente atemporale e, quindi, secondo una logica di continuità sociale dai contadini medievali protagonisti del Mistero buffo agli operai presenti in sala come spettatori:


Quando io parlo del villano è l'operaio della ferriera uguale preciso il contadino ancora oggi, è l'impiegato, è perfino lo studente che è il povero villano. Il villano nato dal sedere dell'asino, è presente, costante, in ogni momento. […] Il medioevo è uguale preciso […] Chi ti ha detto che è archeologia. […] Se tu invece lo vedi non di fuori del tempo, ma fatto continuo di tutta la civiltà, di tutta la persecuzione, costante e presente ancora oggi, che nulla è cambiato, che il padrone è ancora uguale preciso, che ha lo stesso aspetto, la stessa forma; vedi che non diventa più il fatto di sapere qualche cosa…[13]


Parallelamente al recupero della cultura popolare con Mistero buffo, negli anni '70 Fo scrive ed allestisce una serie di pièce calate nella stretta attualità socio-politica, riletta sempre attraverso una prospettiva rivoluzionaria marxista: denuncia la repressione del Potere nei confronti della sinistra extraparlamentare (ad esempio, con Morte accidentale di un anarchico del '70 sull'affaire Pinelli); svela l'autoritarismo del "regime" democristiano con Guerra di popolo in Cile (1973), in cui si rievoca il golpe di Pinochet e si ipotizza (anzi, si simula nel corso della rappresentazione) un colpo di stato in Italia; inneggia all'azione diretta contro il "sistema", ad esempio in Non si paga! Non si paga! (1974). Sul finire della pièce, infatti, il protagonista indirizza un appello alla mobilitazione agli spettatori in sala (ma idealmente alla classe operaia, che fin dalla fine degli anni '60 Fo ha individuato come referente sociale cui assegnare le proprie aspettative di palingenesi sociale e politica):


Noi operai siamo un po' a livello basso, siamo infatti con il culo per terra. Ma attenti [rivolto agli spettatori], può darsi che pian piano ci si metta prima in ginocchio, poi ci si sollevi in piedi. E vi avvertiamo: all'impiedi facciamo sempre il nostro bell'effetto![14].


La valenza antagonista delle produzioni di Fo, e lo straordinario consenso di cui gode l'attore (nell'aprile del 1974 Dario recita il Mistero buffo davanti a 15 mila spettatori!), inasprisce la repressione del Potere. Benché sia necessario sottoscrivere una tessera associativa per accedere agli spazi anticonvenzionali, gestiti come circoli privati, in cui Fo si esibisce negli anni '70, sempre più spesso, con il pretesto di vigilare e garantire l'ordine pubblico, gli agenti di Pubblica Sicurezza pretendono di assistere agli spettacoli, costringendo di fatto la compagnia di Fo a sospendere le rappresentazioni. La presenza delle forze dell'ordine, infatti, avrebbe in qualche modo inibito il dibattito con gli spettatori (il cosiddetto "terzo atto") con cui, all'epoca, si concludevano le opere della coppia Fo-Rame. Nel 1973, a Sassari, Fo sarà addirittura arrestato per aver, insieme con altri attori della compagnia, tentato di impedire alla polizia di accedere alla sala teatrale dove avrebbe dovuto esibirsi. Sempre al 1973 risale l'episodio repressivo più vergognoso e vigliacco: Franca Rame viene sequestrata, seviziata e violentata da un "commando" fascista la cui azione, nel 1998, si scoprirà essere stata ispirata da alti ufficiali dei Carabinieri della Divisione Pastrengo (nel 1975 la Rame racconterà questa tragica vicenda nel monologo Lo stupro, che porterà in scena a partire dal 1980, anche se ne confesserà la natura autobiografica soltanto negli anni successivi).

Ancora nel corso di tutti gli anni '70 e '80, Fo (con la Rame) pagherà aspramente il proprio impegno politico, subendo altri e numerosi "attacchi": il giudice Mario Sossi accusa i due autori-attori di collusione con il nascente terrorismo rosso; viene ritrovata una bomba nei pressi della Palazzina Liberty, il fabbricato che i due autori-attori hanno occupato nel 1974 e trasformato nella sede stabile del proprio gruppo teatrale; durante la recita di Mistero buffo in occasione di una tournée in Argentina nel 1984 – contestata e boicottata dal clero locale per i presunti contenuti 'anti-cristiani', blasfemi ed osceni delle opere dei due autori-attori – uno spettatore lancia sul palco un candelotto lacrimogeno (dapprima scambiato per una rudimentale bomba); il Dipartimento di Stato degli Usa nega a Fo e alla Rame la concessione del visto di ingresso sul suolo americano per l'adesione a Soccorso rosso, associazione fondata dalla Rame a tutela dei diritti dei cosiddetti "detenuti politici" (i due autori-attori otterranno il visto solo nel 1986).

Frattanto, dalla seconda metà degli anni '70, forse anche in seguito alla frustrazione per l'insuccesso della sinistra rivoluzionaria alle elezioni del 1976 e constatato il crollo dell'utopia sessantottina, l'attenzione di Fo, dall'argomentazione politico-rivoluzionaria delle precedenti produzioni, sembra indirizzarsi sempre più verso tematiche sociali o private: la diffusione delle droghe con La Marijuana della mamma è la più bella (1976) e la questione femminile e femminista, anche grazie alla mediazione di Franca Rame con cui l'autore-attore scrive Tutta casa, letto e chiesa (1977). Parallelamente, il ridimensionamento dell'ultrasinistra comporta anche un progressivo sfaldamento della rete organizzativa e logistica che aveva supportato il tentativo di Fo di realizzare un circuito off, cioè un teatro al di fuori dei teatri (intesi come edifici): si consuma così il ritorno dell'autore-attore al circuito ufficiale ed istituzionale, con L'opera dello sghignazzo che debutta al Fabbricone di Prato nel dicembre del 1981.

Negli ultimi trent'anni, Fo è quindi tornato ad esibirsi nei teatri pubblici, davanti ad un audience prevalentemente "borghese", ma – sebbene abbia progressivamente abbandonato l'utopia rivoluzionaria che aveva alimentato e sostenuto la precedente produzione – non ha mai smesso di produrre ed allestire opere satiriche incentrate sulla contemporaneità, per denunciare gli abusi del Potere e lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo. Non è un caso che nella motivazione del Premio Nobel per la Letteratura, ricevuto nel 1997, si sottolinei che Fo «dileggia il potere e restituisce la dignità agli oppressi». La satira dell'autore-attore, infatti, si rivela provocatoria anche in anni più recenti, continuando a suscitare le reazioni e le censure del Potere, come nel caso de L'anomalo bicefalo (2003): nell'ottobre 2003, in una lettera aperta al «Corriere della Sera», Sergio Escobar, allora direttore del Piccolo di Milano dove Fo e la Rame avrebbero dovuto presentare L'anomalo bicefalo nel gennaio dell'anno seguente, denuncia le resistenze del Consiglio d'Amministrazione del Piccolo nei confronti della pièce. La presenza in cartellone del Bicefalo, spettacolo di satira su Berlusconi ed il suo entourage, avrebbe comportato – secondo il Cda – la possibilità di una drastica riduzione dei sovvenzionamenti statali. La querelle si risolve infine con un "nulla di fatto" e la conferma delle date milanesi della commedia, ma nuove polemiche sono poi sorte in occasione della trasmissione televisiva dello show da parte dell'emittente satellitare Planet. La Multithématiqués, multinazionale francese proprietaria del canale, ha dapprima deciso di mandare in onda il Bicefalo senza sonoro a seguito dell'azione legale indetta dal senatore Dell'Utri che – dopo aver querelato Fo e la Rame per aver travalicato il diritto di satira con «affermazioni gratuite», «diffamatorie» ed «ingannevoli»[15] – aveva avanzato la richiesta di un milione di euro di risarcimento per i danni morali arrecatigli, in caso di diffusione televisiva dello spettacolo (L'anomalo bicefalo è infine andato in onda col sonoro, il 30 gennaio 2004).

Insomma, ancora oggi – superati ormai gli ottant'anni – Fo (con la moglie Franca Rame) intesse ancora le sue creazioni di una vis satirica capace di colpire e provocare il Potere, perché – come ha detto lo stesso autore-attore durante il discorso alla consegna del Nobel – un teatro «che non parli del proprio tempo è inesistente».



[1] D. FO, Fabulazzo, Kaos, Milano1992, p. 13
[2] D. FO in I. MALCOTTI (a cura di), Per fare teatro bisogna essere poeti, "Icaro", n. 3, 2006, p. 13.
[3] D. FO, in C. MELDOLESI, Su un comico in rivolta. Dario Fo il bufalo il bambino, Bulzoni, Roma 1978, p. 28.
[4] D. FO, Il mondo secondo Fo. Conversazione con Giuseppina Manin, Guanda, Parma 2007, p. 38.
[5] Ivi, p. 45.
[6] D. FO, in Il giorno più lungo, in "Epoca", 9/12/1962.
[7] D. FO, Il mondo secondo Fo, cit., p. 109.
[8] Cfr. P. PUPPA, Teatro e spettacolo nel secondo novecento, Laterza, Roma-Bari 1990, p. 206.
[9] D. FO, Il mondo secondo Fo, cit., p. 101.
[10] D. FO, Fabulazzo, cit., p. 80. Per un approfondimento sull'epicizzazione nel teatro di Fo, cfr. S. SORIANI, Dario Fo. Dalla commedia al monologo (1959-1969), Titivillus, Corazzano (Pi) 2007.
[11] Sul rapporto tra Fo e i "narratori" e sul teatro di narrazione in generale, cfr. S. SORIANI, Sulla scena del racconto. A colloquio con Marco Baliani, Laura Curino, Marco Paolini, Ascanio Celestini, Davide Enia, Mario Perrotta, Zona, Civitella in Val di Chiana (AR) 2009.
[12] D. FO, Intellettuale e cultura, in http://www.archivio.francarame.it/.
[13] D. FO, Compagni senza censura, Mazzotta, Milano 1970, p. 67.
[14] D. FO, Non si paga! Non si paga!, in Le commedie di Dario Fo, vol. XII, Einaudi, Torino 1998, p. 81.
torna su