cosmopolis rivista di filosofia e politica
Cosmopolis menu cosmopolis rivista di filosofia e teoria politica

Leonardo Sciascia:
il dubbio e la ricerca della verità

Antonio Di Grado

1. La corda civile


Leonardo Sciascia se ne andò il 20 novembre 1989, vent'anni fa. Non «uscì dalla città cantando», come l'«uomo della Volvo» dell'ultima riga vergata con mano tremante per il suo ultimo libro, Una storia semplice. Né con la nostalgia ironica e pacificata consegnata alla scritta che volle sulla sua lastra sepolcrale: «Ce ne ricorderemo di questo pianeta». Con strazio, piuttosto: lo stesso del Vice, il poliziotto che fu l'ultima sua controfigura nello struggente e lucidissimo testamento letterario e intellettuale de Il Cavaliere e la morte.

E come quel Vice che meditava su Dürer o su Montaigne, e che come lui scorgeva – ma non varcava, per coerenza, per rispetto – il «cancello della preghiera», chissà se nell'ora della verità anche Leonardo Sciascia «pensò: che confusione! Ma era già, eterno e ineffabile, il pensiero della mente in cui la sua si era sciolta».

Vent'anni, tra poco, da quel giorno. Ma quanto durano vent'anni? Ben poco, quasi nulla, quando le generazioni si avvicendavano lentamente, e si assomigliavano perché si trasmettevano conoscenza e memorie. Tantissimo, ora che ogni generazione cancella la precedente, azzera la memoria. Trionfa, oggi, un eterno presente immemore e omologato; e sono scomparse figure di scrittori come Sciascia, autori di opere che erano necessarie perché aggiungevano sempre qualcosa, un nodo problematico o un dubbio perturbante, o un punto di vista imprevedibile. Non solo: è scomparsa la figura stessa dell'intellettuale, di chi interviene coraggiosamente, liberamente, anche a costo di sbagliare, comunque osando, per proporre verità taciute o rimosse, per svelare scenari occulti della realtà o della coscienza, per demistificare le certezze arroganti e gli slogan bugiardi del Palazzo.

Questo ci manca, per questo Leonardo Sciascia ci manca. E a colmare quell'assenza non bastano certo rievocazioni e pubblicazioni; ma serviranno almeno a combattere l'oblio, a rileggere e far leggere quelle opere, a riascoltare e far ascoltare quella lezione di pensiero critico, di moralità, di stile. E perciò può essere utile interrogarsi su alcuni temi-chiave della sua elaborazione: fra gli altri, su quello della mafia, coraggiosamente scelto dall'autore del Giorno della civetta e di A ciascuno il suo quando ministri e cardinali negavano l'esistenza stessa della piaga mafiosa, ma infine subìto come una croce da un autore che di tant'altro trattava ma che su quel tema fu appiattito a costo di feroci e ottuse polemiche.

Ma se Sciascia non è solo mafia, e piuttosto rimanda a temi più vasti come la giustizia e la ragione, la scrittura e la morte, la memoria e l'inquisizione, pure non si può parlare di mafia senza citare Sciascia, le sue intuizioni anticipatrici, le sue polemiche generose e irritanti. Senza quei "gialli di mafia", che pure erano ben altro e ben più che cronache giornalistiche o laiche omelie, non si potrebbe intendere quell'escalation dalle mafie rurali alla conquista della città e degli appalti, infine all'internazionalizzazione degli affari e dei legami mafiosi, che Sciascia fu comunque il primo, o uno dei primi, a prevedere, sia con circostanziate analisi sia con trasparenti metafore: come quella che prende a prestito dai botanici le valutazioni sulla «linea della palma», che progressivamente «va a nord», ovvero sposta la frontiera del costume e del sentire mafiosi ben oltre i confini entro i quali erano germogliati e si erano alimentati.

Altre metafore, più astratte e più terribili, Sciascia va forgiando, via via che la sua scrittura e la sua riflessione si approfondiscono e si complicano: e in primo luogo quella del «contesto» che dà il titolo al romanzo del 1971 e apre agli occhi del lettore (e dell'investigatore) gli inquietanti scenari d'un regime-piovra artefice d'intrighi e di crimini, ma quel ch'è peggio di una omertosa corresponsabilità dell'opposizione. E di una più profonda, irredimibile corresponsabilità del singolo: anche l'onesto investigatore, il dubbioso e colto Rogas, lungi dal condividere il fermo garantismo di Sciascia, consente che il reo-vittima Cres continui a farsi giustizia da sé, allo stesso modo, del resto, dell'eretico fra' Diego di Morte dell'inquisitore e del pittore di Todo modo.

Sciascia fu un autore che programmaticamente «contraddisse e si contraddisse». In merito al problema cruciale «del giudicare», angosciosamente dibattuto nel Contesto, problematicamente esitava tra il culto del diritto e la sete di giustizia, tra il garantismo connesso alla sua formazione illuministico-liberale e il giustizialismo di fra' Diego La Matina (il suo personaggio prediletto!). Anche i suoi numerosi interventi in materia di mafia, e di lotta alla mafia, rientrano in questa dialettica, comunque più ricca di insostenibili verità e affilati paradossi di quanto non siano state le certezze di certi ayatollah dell'antimafia o, al contrario, di certi cultori d'un garantismo pro domo sua.

Gli scritti sull'"Espresso", sulla "Stampa" o sul "Corriere della sera" testimoniano dell'impegno di Sciascia non per questo o quello schieramento ma per la quotidiana invenzione della verità, la meno accomodante, la più inedita e anticonformista. Si collocano, perciò, accanto agli Scritti corsari di Pasolini, così come Sciascia – dal processo al Palazzo di Todo modo all'Affaire Moro, che si apre nel segno delle "lucciole" pasoliniane – si era trovato sempre più vicino all'impegno critico e alle battaglie civili, ma soprattutto alla figura di dolente testimone e caparbio "uomo-contro", dell'amico poeta scomparso nel '75.

E dunque è alla letteratura che quegli scritti vanno ricondotti, non per sminuirli ma anzi per esaltarne la portata metaforica e lo spessore problematico: e infatti è a un Flaubert o a un Borges che Sciascia chiede, di volta in volta, le chiavi di lettura di un "contesto" mafioso sempre più indecifrabile, mentre gli interventi contro il "pentitismo" non sono che accorate repliche della Storia della colonna infame manzoniana; e il vituperato articolo del 10 gennaio 1987 intorno al cosiddetto "professionismo dell'antimafia" (ma la definizione, e il titolo, erano redazionali, non di Sciascia) non fa che ribadire il tema del trasformismo delle classi dirigenti isolane, trasmesso da De Roberto e Pirandello a Brancati e a Tomasi di Lampedusa, come concreto rischio per i destini dell'antimafia.

Ma ormai l'intellettuale, che prima e meglio di tanti altri aveva capito il fenomeno-mafia, confessava di non intenderlo più; e se sdegnosamente rifiutava lo stupido epiteto di "mafiologo", a temi e problemi più vasti e insondabili applicava le forze residue: a un miraggio di verità e di giustizia che non poteva non coincidere, in ultimo, con la laica contemplatio della morte incombente.



2. Un sogno fatto in Sicilia


Ma se abbiamo sfiorato temi quali la giustizia e la mafia, occorrerà pure far cenno a un altro nodo, altrettanto centrale nella elaborazione intellettuale dello scrittore: la Ragione. E perciò al presunto illuminismo di Sciascia.

Parole abusatissime, "illuminismo" e "illuminista", soprattutto da quei critici-etichettatori che hanno preferito ancorare alla rassicurante fissità di una formula l'imprevedibile problematicità di un autore che della laicità più radicale e perciò autocritica, del "contraddire e contraddirsi", fece la sua insegna. Di un autore che fu "illuminista" per coraggiosa e volontaristica scelta, contro un "contesto" protervamente immobilistico, e a dispetto di un oscuro retaggio di diffidenza e di sofferenza, di oltranze barocche e di sofistici cavilli e di penosa follia, che esiste – e resiste – nel patrimonio genetico, nel "sottosuolo" della coscienza isolana. E fu "illuminista" ma a costo di scelte molto nette: Diderot e Voltaire contro Rousseau, e con loro anche il post-illuminista Stendhal e il post-voltairiano Candido Munafò, protagonista di Candido ovvero un sogno fatto in Sicilia, pronto a rinunziare laicamente «ai padri» davanti alla statua di Voltaire, e perfino il cattolico Manzoni, preferito all'illuminista Verri per dar conto delle umane, troppo umane aberrazioni della Colonna infame.

Un illuminismo, dunque, consapevole della propria fatale "dialettica". E perciò disincantato, e perciò tanto più tenace quanto più è fragile, aperto a contaminazioni e a smentite. E come se non bastasse, complicato dal maledetto imbroglio di dover attecchire proprio in Sicilia ("un sogno fatto in Sicilia", appunto), laddove il Settecento fu un'occasione perduta, un atto mancato: la mancata rivoluzione politica del Di Blasi del Consiglio d'Egitto, la mancata riforma religiosa e civile della Recitazione della controversia liparitana: «Abbiamo tentato di inventare il cristianesimo in un paese che è cristiano solo di nome; e abbiamo dato alla vuota maestà del diritto un contenuto di umanità, di giustizia».

Di mancate rivoluzioni, vanificate dallo scaltro trasformismo delle oligarchie dominanti, è tramata tutta la lettura che Sciascia ci offrì, sulla linea di De Roberto e di Brancati, della storia della Sicilia (e non solo della Sicilia, se l'isola è «metafora»), dall'Unità all'antimafia. Valga per tutte una pagina pressoché ignota, che Sciascia dedicò sulla "Gazzetta del Mezzogiorno" del 23 maggio 1982 all'ottocentesco don Liborio Romano, che fu al tempo stesso l'ultimo ministro dell'Interno del deposto Francesco II di Borbone e il primo del liberatore Garibaldi.

A sorprendere e a intrigare Sciascia è lo sconcertante epitaffio sulla lapide del disinvolto ministro, che così recita: «Da XXIV anni / o Liborio Romano / la storia pende irresoluta sul tuo nome. / Ministro postremo del cadente Borbone di Napoli / additavi l'esilio al tuo re / e aprivi la reggia al dittatore inerme. / Custode delle autonomie regionali / e banditore d'una Italia federata / accettavi l'unità / senza protesta senza condizioni / e dal vecchio al nuovo principato passavi / come se due anime ti possedessero / e due leggi morali. / Ma le troncate insidie di corte / la servata incolumità pubblica / e il diritto nazionale / testimoniano che i peccati tuoi / furono i destini della patria».

Una "sintesi perfetta": una legge, quella delle "due anime", che da "peccato" si trasfigura addirittura in "destino". Ma lasciamo la parola a Sciascia: «"All'invittissimo general Garibaldi", che da Salerno stava per raggiungere Napoli, don Liborio telegrafò che la città con impazienza lo attendeva per salutarlo redentore d'Italia. Sicché, postremo ministro di Francesco, restò al suo posto come primo del redentore: poiché nessuno meglio di lui – e siamo ancora all'oggi – sapeva tenere a bada la camorra. E questo particolare può indurci alla considerazione che di anime ne aveva forse tre. E che cosa possono, di fronte a tanta dovizia di anime, quei poveri italiani che ne hanno una sola».

Anche Sciascia ne aveva una sola: e frattanto l'andava colmando, sull'onda d'un crescente disgusto nei confronti di realtà e vizi "irredimibili", di predilezioni e contenuti che non sarebbe esagerato definire metafisici, arrestandosi solo, per coerente professione di laicità, davanti al «cancello della preghiera» intravisto, ma non varcato, dall'autobiografico protagonista de Il cavaliere e la morte. Era il 1988: un anno dopo si sarebbe inoltrato egli stesso in quei territori inaccessibili alla Ragione.



3. C'era una volta l'intellettuale


«In-te-let-tua-le», sillabava Filippo Rubè, protagonista dell'omonimo romanzo di quel Giuseppe Antonio Borgese che fu sempre caro a Sciascia, mentre si guardava perplesso allo specchio della crisi ideale, politica e sociale di primo Novecento. E concludeva, sarcastico, con la più inclemente delle definizioni: «una cosa orribile, un mostro con due gambe, con due braccia e un cervello che mulina a vuoto».

E noi c'interroghiamo come lui, ancora, a quasi un secolo di distanza. E tanto più siamo tentati di formulare bilanci altrettanto amari trattando di Leonardo Sciascia, che fu tra gli ultimi a incarnare quella controversa funzione, estinta con la scomparsa della sua generazione, quella (e cito soltanto i letterati) dei Pasolini, dei Calvino, dei Moravia.

Sì, estinta. A meno che per intellettuale non s'intenda il propagandista d'una chiesa o d'un partito, d'un regime o d'una azienda; peggio: della grande Azienda tecnolatrica e telecratica che sta polverizzando, negli atenei come nei media, la cultura umanistica e il pensiero critico.

E invece l'intellettuale, dal suo atto di nascita che risale al J'accuse di Zola (ma già la cultura russa aveva coniato la nozione di intelligencija), è altro: è l'uomo-contro, è l'apostolo e il martire del dubbio e del dissenso, della conoscenza come ricerca infinita e della comunicazione come spiazzante alterazione della prospettiva, come revoca in dubbio di certezze consolidate e verità di Palazzo.

La sua dimora non va cercata, perciò, in una chiesa o in una lobby, in un partito o in un'accademia, ma sempre "in partibus infidelium", in prossimità del rogo o dello scandalo, nel teatro di una coscienza tormentata dal rovello dell'autocritica, costretta a mettersi costantemente in discussione, a «contraddirsi» per «contraddire»: come non ricordare queste celebri – e abusatissime – parole di Sciascia? E come non affiancarle allo «scandalo del contraddirmi, dell'essere con te e contro te» esibito da Pasolini al cospetto delle ceneri di Gramsci?

È una coscienza, dunque, quella dell'intellettuale laico, inevitabilmente costretta a fuoruscire dalle proprie certezze (fossero pure le più laiche, le più liberali), a demolire i propri miti e i propri "padri" (si trattasse pure del Voltaire di Sciascia e del suo Candido), per confrontarsi con l'altro da sé, per incarnare credibilmente le ragioni dell'avversario. Come faceva Sciascia facendo dialogare, in ogni sua pagina, Montaigne con Pascal, o Gide con Bernanos.

O come quando – parlo sempre di Sciascia – opponeva ai suoi virtuosi portavoce, ai suoi caparbi detective, statuarie figure di antagonisti, credibili portatori di ragioni e culture antitetiche, e quanto mai veri, pulsanti di sangue e nervi, di idee coerenti e sinistramente affascinanti: come quel procuratore Riches del Contesto che reincarna e attualizza il Grande Inquisitore di Dostoevskij, come quel don Gaetano loyolesco-doroteo che in Todo modo celebra i funerali dello Stato immolandone i maggiorenti, o ancora come la vittima sacrificale, protagonista gloriosamente ingloriosa di una straziante ed evitabilissima Passione, dell'Affaire Moro.

Ma non basta. Ricordiamo ancora una volta i congiurati della Controversia liparitana: «Abbiamo tentato di inventare il cristianesimo in un paese che è cristiano solo di nome; e abbiamo dato alla vuota maestà del diritto un contenuto di umanità, di giustizia». Dunque l'intellettuale è non solo chi semina il dubbio, ma chi nel vuoto di idee e di moralità, e nello svuotamento delle grandi tradizioni ideali, se le addossa tutte e tutte le incarna, perfino quelle che non gli apparterrebbero, per difenderle dai loro sacerdoti, dai loro tralignati epigoni, per restaurare una pienezza di idee e una dialettica di punti di vista almeno, intanto, nell'affollato teatro della propria coscienza: che è, in opposizione al mondo esterno e alle opinioni correnti, il teatro della verità.

Sciascia, Pasolini. E i loro scritti "corsari", che ogni giorno ci imponevano di fare i conti con altre ragioni, di guardare da altre prospettive; di dilatare e talvolta stravolgere la nostra percezione, di smascherare alibi e slogan diffusi dal Potere e dai suoi cantori. Ma quell'intellettuale, quell'identità sfuggente e quel profilo acuminato, forse sono svaniti. Sopravvive, al contrario, l'erede dei chierici e degli ideologi che "suonavano il piffero per la rivoluzione" o l'organo per il consenso: ed è quel tecnico in camice bianco che alla passione dell'interpretazione e della demistificazione ha sostituito l'acritica e servile messa a punto dell'Ingranaggio, il Libero Mercato di saperi avalutativi e fungibili, l'opprimente incultura del management.



torna su