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Pier Paolo Pasolini, l'intellettuale "eretico"

Giovanni Falaschi

Il 2 novembre 1975, non molte ore dopo che la televisione aveva diffuso la notizia dell’omicidio di Pasolini, in un quartiere-bene di Firenze, con alta percentuale di votanti di destra, comparve una scritta inneggiante al delitto. Che cosa avessero letto di lui i giovani fascisti, che ne erano presumibilmente gli autori, o quali film avessero visto, non è dato sapere. Ma penso nulla di nulla. Il loro odio era dettato dalla figura nel suo complesso: un idolo negativo, un bersaglio da colpire per liberarsene in quanto disturbatore. Forse qualcosa di più doveva sapere di lui il gesuita Arturo Dalla Vedova, che alle 6,30 del 6 novembre venne sorpreso a Roma mentre alterava i manifesti funebri dedicati allo scrittore aggiungendovi parole come «porco», «frocio», «blasfemo», «pig» e così via. A queste due reazioni di “cani sciolti” della destra, vanno aggiunti gli attivisti romani, ben noti alla polizia, che lo aggredirono e che lui non denunciò, e le minacce di ogni tipo che gli furono rivolte, e le denunce nei suoi confronti sporte dai singoli cittadini per i motivi più disparati: ne ebbe una anche per rapina, e un settimanale popolare reazionario pubblicò una foto di lui armato tratta dalla sequenza di un film in cui aveva fatto da comparsa (questo per rendere l’accusa più attendibile). Leggo su una pagina web che il grande avvocato Carnelutti che lo difese sia stato accusato dai soliti benpensanti di essere il suo amante: che cos’altro avrebbe potuto spingerlo a schierarsi con Pasolini se non un amore inconfessabile, essendo un avvocato famosissimo e per di più democristiano?

Oltre all’odio dei singoli Pasolini si era attirato anche quello di molti esponenti delle istituzioni, come dimostra il fatto che alcuni magistrati dettero comunque corso a molte denunce, magari poi non condannandolo. In particolare, querele periodiche presero di mira i suoi scritti, a cominciare dal primo romanzo Ragazzi di vita (1955), per il quale lo scrittore fu accusato di oscenità, come poi accadde per alcuni suoi film, in particolare quelli tratti da opere letterarie, come Decameron, I racconti di Canterbury, Il fiore delle mille e una notte e infine Salò; ma in qualche modo anche altri film avevano colpito la pruderie del benpensante di turno. Pasolini collezionò una trentina di denunce, tanto che in una sola giornata veneziana dovette comparire in Procura e successivamente in Pretura. Quanto alla stampa moderata e di destra, sappiamo che essa fu il pilastro della maledizione che si accaniva su questo scrittore, e anche «L’Osservatore romano» lo tenne costantemente sotto tiro colpendolo crudelmente all’occorrenza (è stato senz’altro l’intellettuale italiano che la curia romana ha bersagliato di più).

Odiato ferocemente dalla destra, fu guardato con rispetto, ma anche con sospetto, dalla sinistra. Nel 1949, appena si scoperse che era omosessuale e iscritto al PCI, agli occhi della sua comunità friulana sembrò incarnare il “negativo”, e il suo partito lo espulse, mentre perdeva l’incarico di insegnamento nella scuola. Una volta trasferito a Roma, fu Calvino che propose Le ceneri di Gramsci (1957) all’attenzione de «Il Contemporaneo», periodico diretto da Carlo Salinari e voce ufficiale della politica culturale del PCI, che fino a allora non lo aveva preso troppo sul serio. Poi iniziò a collaborare al settimanale comunista «Vie nuove» che gli affidò una rubrica (1960-65) – i cosiddetti Dialoghi – in cui rispondeva ai lettori toccando in modo anticonformista le istituzioni italiane: chiesa, scuola, famiglia prima di tutto. Questo contemporaneamente alla, o prima della, collaborazione ad altri periodici e quotidiani, come «Il Giorno» e «Il Corriere della Sera» negli anni straordinari della direzione di Piero Ottone.

A distanza di trentacinque anni, si continua a parlare di lui dopo le confessioni di Pino Pelosi (già autoaccusatosi del delitto e, una volta uscito di prigione, discolpatosi accusando altri), e dopo che è stata affacciata l’ipotesi che la morte sia stata voluta dalla malavita pilotata da qualcuno delle istituzioni perché lo scrittore era venuto in possesso di informazioni segrete circa la lotta per il controllo dell’ENI, informazioni di cui si sarebbe servito senz’altro per il volume Petrolio (il titolo confermerebbe “in qualche modo” l’ipotesi), edito non finito e postumo nel 1992. Per la cronaca: il senatore M. Dell’Utri – lo si nomina data la notorietà del personaggio – ha detto di recente di aver visto il dattiloscritto del capitolo, che si suppone sia stato scritto ma anche misteriosamente scomparso, riguardante questa trama (ma già Dell’Utri a suo tempo fece rivelazioni infondate sui Diari di Mussolini). Nella valutazione del “caso” Pasolini non è importante che questa ipotesi si riveli in futuro priva di fondamento, ma che sia stata formulata: ciò significa che lo scrittore tiene desta l’attenzione dei media, e che la sua personalità continua ad apparire talmente fuori dagli schemi e dalle norme che tutto gli può essere attribuito, e la sua importanza appare ad alcuni tale che addirittura può sembrare verosimile che sia stato ucciso per quanto sapeva. Dunque, tutto quanto sembrerebbe sorprendente e incredibile per un altro sembra plausibile per lui, e ciò perché nella memoria collettiva egli resta come una personalità eccezionale, intorno alla quale si è costruito un mito, quello dell’artista ribelle e anticonformista che ha sfidato la società borghese e ne è rimasto vittima: la mitizzazione e l’eroicizzazione del personaggio hanno proceduto di pari passo.

Alla creazione e/o al mantenimento di questo mito popolare hanno contribuito cantautori, musicisti e registi. Fra i primi sono da citare Giovanna Marini (Lamento per la morte di Pasolini, dicembre 1975), Fabrizio De André (Una storia sbagliata, 1980); Francesco De Gregori (A Pà) e Roberto De Simone (Requiem in memoria di Pier Paolo Pasolini) entrambe del 1985, evidentemente per il decennale della morte. Fra gli autori stranieri va registrata l’opera Pier Paolo, rappresentata a Kassel nel 1987, e i Songs for a Child, una compilation di vari artisti underground europei. Fra i registi si ricorda Nanni Moretti che alla fine del primo episodio di Caro diario (1993) raggiunge in “Vespa” il luogo dell’omicidio; un ricordo di Sergio Citti in Magi randagi (1996); il film di Marco Tullio Giordana (Pasolini, un delitto italiano, 1995), e il documentario di Giuseppe Bertolucci, Pasolini prossimo nostro (2006). Si dichiara ispirato da Pasolini il regista Aurelio Grimaldi. Questo per citare i riscontri più interessanti.

E gli studiosi, esperti di cinema e/o di letteratura che sia? Prima di rispondere è da fare un’osservazione preliminare: le sue Opere sono pubblicate nei “Meridiani” di Mondadori in 10 volumi (non sto qui a distinguere fra tomi e volumi), e tenuto conto che ogni volume supera di gran lunga le mille pagine, si ha immediatamente un’idea di quanto Pasolini abbia prodotto. A questo va aggiunto che i “Meridiani” non comprendono tutti i suoi scritti, in particolare quelli giornalistici e, in aggiunta, che lo scrittore ha rilasciato moltissime interviste, anche edite in volume. Questi dati puramente quantitativi danno l’idea di come la presenza di questo scrittore da vivo nella nostra società sia stata continua e mai trascurabile, rafforzata dalla sua attività di regista cinematografico. Insomma: una presenza con la quale non si poteva non fare i conti da parte di tutti quelli che fossero in grado di leggere e che andavano al cinema, in anni in cui al cinema gli italiani andavano davvero. Ancora parlando su riscontri quantitativi: i critici hanno contribuito e tutt’oggi contribuiscono al consolidamento di questo mito, per cui si può dire che l’opera di monumentalizzazione del personaggio e dell’autore non accenna a diminuire (questo non significa che i critici siano stati e siano sempre ammirati dal suo lavoro, anzi!). Ecco alcuni dati: nel 2009 sono usciti una quindicina tra volumi e volumetti su di lui, sia brevi cose che saggi di maggiore impegno. In questo 2010 siamo già arrivati a sei e tralascio gli studi brevi usciti su rivista almeno negli ultimi due anni, che sono comunque numerosi. La sua fama è tale che è tradotto e studiato in moltissime lingue, e gli si dedicano convegni non solo in Italia: nel 2009 sono usciti gli Atti di due convegni francesi (editore Serra, che ha in catalogo molte pubblicazioni pasoliniane); né si può trascurare il numero dedicato ancora nel 2010 dalla rivista “aut-aut” alla Inattualità di Pasolini. Esiste anche dal 2007 una rivista internazionale annuale di circa duecento pagine dedicata solo a lui, gli “Studi pasoliniani”, sulla quale sta per uscire una rassegna di studi giapponesi sulla sua opera e la sua figura. I critici letterari italiani più importanti, in vario modo e con anche opposta valutazione, si sono occupati di lui (si fa il nome del primo, e di uno dei più illustri, Gianfranco Contini, che captò subito il valore del poeta dialettale recensendo le Poesie a Casarsa, quando Pasolini era totalmente sconosciuto); fra i più costanti cito G. C. Ferretti e, per la mole di lavoro svolta nell’edizione delle Opere, W. Siti. Hanno detto la loro in qualche modo gli scrittori, da Montale a Ungaretti, Fortini, Calvino e Moravia; dal suo epistolario, che non è di livello eccelso (ma intrigante nelle ambigue lettere giovanili a donne in cui copre la propria omosessualità), si evince la rete dei suoi rapporti personali con poeti e scrittori.

Il grosso delle sue carte si trova presso 1) il Centro Studi Archivio P.P.P. presso la biblioteca della Cineteca del Comune di Bologna; 2) l’Archivio Contemporaneo del Gabinetto Vieusseux a Firenze; 3) la Biblioteca civica e centro studi Archivio P.P.P. di Casarsa della Delizia; e certamente altre carte sono 4) presso la nipote Graziella Chiarcossi e 5) negli archivi degli editori con cui Pasolini ebbe a che fare, Garzanti e Einaudi soprattutto, ma anche Mondadori e Bompiani; senza contare i privati.

Una domanda da porsi è la seguente: che cosa effettivamente resta di questo poeta-scrittore-critico-giornalista-regista-autore di teatro? Quali sono le pagine oggi vive di quelle migliaia che stampò da vivo, integrate con le cose postume? È una domanda banale che però ci mette a tu per tu con l’autore, anche se è difficile per chiunque dominare interamente tutto il suo lavoro. Diciamo subito. Come romanziere non mi pare che abbia scritto un’opera letteraria di cui si possa dire che sicuramente resti come grande eredità ai posteri. I più acclamati e discussi, il primo e l’ultimo, Ragazzi di vita (1955) e Petrolio (1992), sono romanzi diversissimi, ma non proprio: il primo ha un qualche interesse sociologico, del secondo si salvano solo, mi pare, le pagine degli incontri omosessuali sul «pratone» e alcune descrizioni (anche se non tecnicamente tali) antiliriche d’ambiente. Ciò non toglie che al momento in cui apparve suscitasse un grande dibattito, sembrando a tutti cosa dovuta discuterlo. Era la presenza mitica dello scrittore che trascinava con sé il libro. Se una prosa ancora leggibile c’è è quella dei testi giovanili Amado mio e Atti impuri, sugli amori del giovane Pasolini: un quaderno segreto che egli volle tenere inedito e che Garzanti pubblicò postumo nel 1982. Anche come poeta qualcosa di notevole è nella prima produzione, mentre il poemetto eponimo di Le ceneri di Gramsci devo confessare di non riuscire a valutarlo bene: intriga la metrica passatista, la struttura narrativa, la confessione in pubblico dell’autore, l’ambiente romano popolare; tutto ciò, e il prender di petto questioni ideologiche e volerci far poesia, erano in modo paradossale una novità a causa della loro patina “di vecchio”; ma anche un libro diseguale come sostanzialmente risulta essere il loro autore preso in toto. Qualcosa di buono, oltre che nelle poesie giovanili, si trova in L’usignolo della chiesa cattolica (1958) e in La religione del mio tempo (1961); tutto questo per dire che Pasolini poeta ne esce molto meglio se antologizzato, cosa che i suoi editori hanno capito.

Non mi pronuncio sull’autore di teatro, che conosco poco, posso dire che il suo cinema ha cose belle, come Il Vangelo secondo Matteo (1964) e Edipo re (1967), accanto a opere perdute nell’allegorismo intellettualistico e nell’eccesso dei sovrasensi. Ma un capolavoro è La ricotta (1963), sequestrato per «vilipendio della religione» con conseguente condanna per il regista a quattro mesi di reclusione.

Il Pasolini grande è il critico letterario e il giornalista: due volti di questo intellettuale a molte facce. Come critico era straordinario anche da giovanissimo; ciò è evidente fin dalla sua tesi di laurea su Pascoli (poeta che gli consuonava molto), cui si era dedicato nel 1944-45 – ma non una tesi da tempo di guerra! – e che è stata edita postuma nel 1993. Notevoli anche le due raccolte antologiche, la prima del 1952 sulla poesia dialettale italiana del Novecento che ebbe una recensione di Montale; la seconda, il Canzoniere italiano, del 1955. Comunque i suoi interventi critici sono sempre molto acuti e innovativi: in Passione e ideologia (1960), con saggi diversissimi e anche caotici come il troppo osannato La confusione degli stili, si sente molto la lezione, altissima, di Contini, mentre in Descrizioni di descrizioni (1979), brevi recensioni veramente magistrali raccolte postume in volume, il linguaggio – anche per il loro essere uscite su periodico – è più chiaro, e il discorso più organizzato, con una messa a fuoco sia dell’aspetto stilistico che ideologico degli autori recensiti. Questi i giudizi su opere singole, o sul loro insieme che si possono dare a trentacinque anni dalla morte. E tuttavia io non credo a un inventario di carattere positivistico darwiniano del tipo “ciò che è vivo e ciò che è morto” di uno scrittore. È un catalogo necessario, che indica un’assunzione di responsabilità da parte del critico, che stabilisce una specie di quotazione in borsa delle sue opere, ma bisogna andare oltre impegnandosi a definire la sostanza del suo messaggio e la natura della sua lezione.

Se consideriamo alcuni aspetti della sua sociologia è facile accusarlo di passatismo, di nostalgia per la società contadina e per quella preindustriale – come del resto molti hanno fatto – ma è un limitarsi all’apparenza e quindi quasi un abbaglio, perché la società non consumistica e contadina diventano in Pasolini pietre di paragone per una diagnosi spietata del presente in quanto esprimono la sua ricerca dell’autenticità della vita, la proposta di una società in cui i rapporti umani non siano sostituiti dalla innaturalità dei rapporti mercificati. La non riducibilità dei valori a cose: era questo che gli stava e cuore e che egli denunciava nella sua attività di moralista. Perché Pasolini in effetti non fu un giornalista ma un moralista che scriveva sui giornali, che è cosa ben diversa. È vero che ai suoi esordi aveva fatto delle inchieste giornalistiche, ma poca cosa rispetto alla mole del suo perenne dibattito con la società dalle colonne dei quotidiani e dei settimanali. Dunque un moralista. Per cercare di definirlo meglio si è presa di recente una strada sbagliata, contrapponendolo nettamente a Calvino: quest’ultimo sarebbe stato supercontrollato, cerebrale e strategicamente volto a costruire le proprie opere per ottenere il favore del pubblico; Pasolini invece visceralmente si esponeva senza calcoli. Il giudizio su Calvino, lo si dice per inciso, è sbagliato perché il suo razionalismo era tipico di chi non ha certezza epistemologica, cioè di chi sa che i risultati della ragione presuppongono sempre il limite della ragione stessa, e che ogni sistemazione razionale del caos delle cose è sempre provvisoria. Inoltre contrapposizioni siffatte sono poco fruttuose. Pasolini era, a modo suo, un grande stratega che aveva improntato il suo lavoro a sfidare la collettività e contemporaneamente ad esibirsi (nei due verbi non c’è nessun contenuto negativo: ogni intellettuale inventa la forma della propria presenza nel mondo). Una lirica notissima agli addetti ai lavori, compresa in L’usignolo della chiesa cattolica ci indica quale fosse questa sua specifica forma di esistere, quasi un conferimento di senso al Cristo crocifisso; se ne cita una parte: «Bisogna esporsi (questo insegna / il povero Cristo inchiodato?), / la chiarezza del cuore è degna / di ogni scherno, di ogni peccato / di ogni più nuda passione… / (questo vuol dire il Crocifisso? / sacrificare ogni giorno il dono / rinunciare ogni giorno al perdono / sporgersi ingenui sull’abisso). // Noi staremo offerti sulla croce, / alla gogna, tra le pupille / limpide di gioia feroce, / scoprendo all’ironia le stille / del sangue dal petto ai ginocchi, / miti, ridicoli, tremando / d’intelletto e di passione nel gioco / del cuore arso dal suo fuoco, / per testimoniare lo scandalo». Sono versi straordinariamente eloquenti: esporsi, dare scandalo, esibire la miseria del proprio corpo (cioè di sé come individuo) martoriato. Presupposto assoluto: essere vittima di un’ingiustizia. Il Pasolini “povero Cristo” sarà sempre fedele a questo assunto. Del resto nel Vangelo secondo Matteo la Madonna addolorata sotto la croce è interpretata dalla madre di Pier Paolo: bisogno di essere lui, di nuovo, un Cristo compianto dalla madre, e bisogno di far piangere “per sé” la madre che tanto aveva pianto per l’altro figlio morto, Guido. Questo elemento esibizionistico, viscerale, sta alla base della tragedia personale di questo intellettuale ma anche della sua scrittura a volte oracolare, della sua mite crudeltà e spietatezza diagnostica. Non c’è dubbio che il Cristo che parla con durezza e senza pietà nel Vangelo ha i connotati che Pasolini voleva attribuire a se stesso come maestro e guida negando contemporaneamente, per la sua intima contraddittorietà di persona che si riteneva assolutamente eccezionale e unico ma anche povero e solo, di volere e potere essere in qualche modo maestro di qualcuno. Certo la sua omosessualità veniva giocata essa stessa come sintomo della propria diversità. Pasolini che dalle colonne di «Vie Nuove» esprime giudizi sulla famiglia, sulla scuola e sul cattolicesimo dei benpensanti è straordinariamente intelligente ma anche inquietante: c’è come un sottofondo inespresso dietro i suoi pareri in cui si indovina qualcosa di profondamente eversivo che non avrebbe potuto mai essere detto in modo esplicito dalle colonne di un giornale. È la stessa ambiguità che si trova nelle lettere giovanili alla Bemporad da cui, col senno di poi, si capisce che le ha scritte uno che non avrebbe mai potuto amare una donna, se non la madre, ma che non poteva dichiararlo alla sua interlocutrice. A volte, nel suo parlare di problemi legati al sesso, l’indicazione viene fuori esplicita, ma siamo già negli anni settanta; come quando, parlando dell’aborto, dichiara che vi sono altre forme di sessualità che non implicano il rischio di una maternità non voluta. A questo proposito occorre chiarire un aspetto che tradizionalmente ha fatto diventare Pasolini un corifeo dell’antiabortismo. Mi riferisco al famoso articolo sul «Corriere della Sera» del 19 gennaio 1975 pubblicato col titolo Sono contro l’aborto dove parla della legalizzazione dell’aborto come «legalizzazione dell’omicidio». Certo i colori sono foschi, le parole decise, la presa di posizione – in questo primo articolo sul tema – è nettissima, ma occorre anche registrare la difesa dei «sessualmente diversi» che sono finiti nei lager, e ancor più l’invito a lottare contro la società «sul piano della causa dell’aborto, cioè sul piano del coito». La sua posizione comunque passata alla storia, perché registrata come antiaborista in assoluto dai benpensanti e dai cattolici reazionari interessati, era in realtà la stessa del PCI: nell’articolo successivo (30 gennaio) infatti scriveva: «La mia posizione su questo punto […] coincide infine con quella dei comunisti», e continuava: «Bisogna evitare prima l’aborto e, se ci si arriva, bisogna renderlo legalmente possibile solo in alcuni casi “responsabilmente valutati”». Dunque era a favore dell’aborto in certi casi ben definiti; perché sia diventato in assoluto il grande intellettuale antiaborista fa parte della malafede dei benpensanti che per ragioni strumentali accantonarono eccezionalmente il loro odio nei confronti di un intellettuale che hanno sempre misconosciuto e maledetto.

Si potrebbe dire volgarmente che “Pasolini non si teneva”: di fronte ad avvenimenti gravi e complessi era impossibile chiedergli che non reagisse dicendo la sua e parlasse d’altro, magari facendo considerazioni intelligenti ma non sincronizzate su quanto era accaduto. Citiamo un solo caso: nel 1968 ebbe l’incarico di redigere una rubrica, “Il Caos”, su «Il Tempo» settimanale: avrebbe dovuto essere soprattutto un botta-e-risposta coi lettori su argomenti di attualità. Ma ecco che il 20 gennaio 1970 il direttore Nicola Cattedra gli scriveva che la rubrica era momentaneamente sospesa perché Pasolini vi affrontava «temi specificamente politici, anzi direi tecnicamente politici», e nel marzo si giustificava per la fine della collaborazione, già di fatto interrotta fin da gennaio, dato che i lettori manifestavano il loro dissenso nei confronti dei suoi scritti; e adduceva problemi non politici ma di linguaggio (una scusa assurda, ovviamente, dato che nel novembre del 1972 Pasolini riprendeva a collaborare al settimanale ma con una rubrica di critica letteraria, quindi “più difficile”). Non è che Pasolini le azzeccasse tutte: da un dattiloscritto da me rintracciato anni fa e che non ebbe seguito di stampa pare che egli avesse, in una reazione a caldo, creduto all’implicazione di Valpreda nella strage di Milano del dicembre 1969. Ma questo è un altro discorso.

Pasolini è stato il primo a coniare alcune metafore rimaste nel linguaggio comune: la distinzione fra la storia italiana “prima delle lucciole” e quella successiva identificava un passaggio epocale, di natura etica e antropologica insieme, mettendo a fuoco le due contrastanti forme del nostro stare al mondo: quella dell’armonia con la natura e quella della devastazione urbanistica. Che cosa Pasolini avrebbe potuto pensare di un paese che ha costruito negli ultimi cinquant’anni più che nei dieci secoli precedenti è già tutto in questa formula. Inoltre: il «Palazzo» come metafora della lontananza del potere dai cittadini. Bisognava essere acuti per mettere a fuoco quarant’anni fa quello che è diventato il grande problema dell’Italia contemporanea. Inoltre prevedere la strage di Bologna verificatasi 5 anni dopo la sua morte è parsa a qualcuno una profezia; era invece il segno della sua grande intelligenza, perché anticipò le mosse di chi avrebbe operato davvero: per fiaccare la sinistra occorreva dimostrare la vulnerabilità della sua simbolica roccaforte. Così anche l’insistere anaforico del suo famoso articolo: «Io so. / Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato golpe», che è un capolavoro di retorica in cui la serie degli enunciati conoscitivi si concludeva col famoso passo: «Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. / Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede». Capolavoro di retorica ma anche d’intelligenza e di quello che una volta si chiamava “impegno civile”. L’unico, il più acuto che fosse rimasto sulla breccia a dire in modo diretto e chiaro – diretto come il linguaggio duro e inconfondibile del Cristo del Vangelo secondo Matteo – la sua verità. L’ultimo contro tutti, e dunque una vittima potenziale. Pasolini diceva quello che tutti noi avremmo potuto sottoscrivere: sapevamo anche noi che da giovani gridavamo nelle piazze tutti i nomi, ma non c’erano le prove. Questa condizione tipicamente intellettuale di percepire la verità senza poterla dimostrare in dettaglio era la condizione più difficile e anche più pericolosa. Pasolini scrisse per tutti, e pagò. A trentacinque anni di distanza ci lascia in eredità il coraggio dell’impotenza, quell’aggressività di una persona che si sentiva sola colpevole e indifesa e dunque potenzialmente una vittima sacrificale. Amato e non amato nello stesso tempo da tutte le persone borghesemente “rette” si dimostra ancora una volta per quello che è sempre stato: un illuminato e tragico disturbatore, uno che riesce a risvegliare i sensi di colpa in chi sa di aver ceduto il campo alle forze negative eversive per quieto vivere, per resa psicologica, per mancanza di coraggio; e dunque di intelligenza. Quante volte in questi decenni ci siamo detti “ci manca”, nella certezza che la sua diagnosi intelligente e coraggiosa dei fatti gravi accaduti in questa repubblica, e che stanno ancora accadendo, ci avrebbe illuminati. E questa è l’unica ma felice certezza: non ci potremo mai liberare di lui.



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