cosmopolis rivista di filosofia e politica
Cosmopolis menu cosmopolis rivista di filosofia e teoria politica

Filmare un pensiero in cammino.
Il cinema di Roberto Rossellini

Daniela Turco

Se si dovesse scegliere un profilo che sintetizzi, in poche righe, la presenza di Roberto Rossellini nell'ambito della cultura italiana e internazionale, le parole che gli ha dedicato, in più riprese, Jean-Luc Godard sembrano ancora oggi le più appropriate e precise, dato che di Rossellini mettono in luce con grande efficacia la sua posizione assolutamente anomala e singolare in quel contesto, quando, ad esempio, scriveva a proposito di India: «India è il contrario di tutto il cinema abituale: l'immagine non è altro che il complemento dell'idea che la provoca. India è un film di una logica assoluta, più socratico di Socrate. Ogni immagine è bella non perché sia bella in sé, come un'inquadratura di Què viva México, ma perché è "lo splendore del vero", e perché Rossellini parte dalla verità. Lui è già partito dal punto a cui gli altri arriveranno forse tra vent'anni. India congloba il cinema mondiale così come le teorie di Riemann e di Planck conglobano la geometria e la fisica classica»[1].

Roberto Rossellini, già nel lontano 1959, l'anno successivo alla realizzazione di India, sorta di film cerniera, imprescindibile come chiave di accesso al suo modo di procedere nel cinema, parlava diffusamente di conoscenza, conferendo a questo termine un particolare spessore, con una lungimiranza profetica e in largo anticipo sui processi di globalizzazione, una realtà che oggi ci riguarda da vicino, quando osservava che: «L'India è cinquecento milioni di uomini. Più di un quarto del genere umano. Trovo che sia una bella cifra. A mio avviso, dunque, bisogna conoscere l'India, o, meglio, "le" Indie. Perciò ho fatto non solo un film, ma anche diversi servizi in forma di documentari destinati alla televisione. Oggi i paesi sono stretti gli uni contro gli altri come sardine. Si viaggia sempre di più. Diventa quasi una banalità. In altre parole la vita di famiglia si ingrandisce su scala mondiale. Di conseguenza la cosa più importante è conoscere il prossimo. Prima di amarlo, infatti, bisogna farne la conoscenza. Mi si accusa di fare dei film da franco tiratore. Ma è appunto per questo: parto in ricognizione. Un missionario è prima di tutto un esploratore, dunque un cineasta».

Roberto Rossellini, dunque, non amava pensarsi come un intellettuale, e ancor meno, voleva essere considerato un artista, preferiva invece immaginarsi come un artigiano, qualcuno che desidera fotografare la realtà, "qualcuno che cerca di fare il suo lavoro meglio che può", un uomo, infine, che con la mente sgombra da pregiudizi di sorta cercava soprattutto un incontro vero con il mondo. Rossellini si muoverà sempre con questa straordinaria libertà e apertura di pensiero – la sua forza più peculiare –, animato da una curiosità autentica per l'umano, viaggiando continuamente per il mondo con estrema semplicità, visitando il Cile trasformato dall'innovazione politica e sociale di Salvador Allende, o il team di ricerca scientifica che operava presso la Rice University di Houston nel Texas, dove si ritrovò ad incrociare perfino i progetti della Nasa di quel periodo – gli anni '70 –, instancabile e convinto della necessità di continuare a porsi le giuste domande di fronte alle cose, senza mai farsi catturare da conformismo e pregiudizi di sorta.

In questo senso il profilo di Roberto Rossellini può essere assimilato idealmente a quello di un uomo del Rinascimento, artista e scienziato al tempo stesso – anche se per descriversi non avrebbe forse mai scelto questi termini – come lo erano stati Leonardo da Vinci o Michelangelo, architetti e scultori, pittori, ingegneri, uomini di scienza e letterati, ma soprattutto geniali interpreti del loro tempo, uomini fuori dal comune e contemporaneamente calati nella storia, sempre disponibili ad una costante sperimentazione e superamento dei limiti dei loro strumenti e dei mezzi con cui si esprimeva il loro pensiero.



1. Gli anni della formazione


Roberto Rossellini nasce a Roma l'8 maggio 1906, nell'ambito di una famiglia dell'alta borghesia. Il padre, un architetto che si occupa di costruzioni, aveva costruito uno dei primi cinema della capitale, il Cinema Corso, cui il giovane Roberto aveva un accesso illimitato. È lì che ha modo di vedere il grande cinema americano, che predilige, soprattutto i film di King Vidor. La casa del padre è un luogo di incontri privilegiati, aperta agli artisti, agli intellettuali, agli scrittori, che permettono a Roberto e al fratello Renzo, che si dedicherà, da compositore, alla musica, di formarsi quasi naturalmente un'educazione molto libera e al tempo stesso ricca di stimoli, che per molti aspetti si discosta dai canoni abituali della borghesia del tempo. Compiuti gli studi liceali, abbandona alla morte del padre l'idea di proseguirli secondo un percorso lineare e frequentando l'università, e sceglie piuttosto di interessarsi di tecnica e di meccanica, ambiti in quel momento a lui più congeniali, ma che assumeranno sempre un ruolo centrale nel suo lavoro, basti pensare al ruolo del pancinor nella sua produzione cinematografica, e soprattutto televisiva[2].

Si avvicina al cinema, dapprima a livello amatoriale, realizzando alcuni cortometraggi, in seguito collaborando alla sceneggiatura di alcuni film, tra cui Luciano Serra Pilota, diretto da Goffredo Alessandrini nel 1938. Tra il 1941 e il 1943 realizza tre film, La nave bianca, Un pilota ritorna e L'uomo dalla croce, che presentano, sia pure in una forma non ancora compiuta a livello di linguaggio e di stile, alcune delle peculiarità che faranno parte del suo sguardo sul mondo e sulle cose e del suo modo di raccontarle. Ad esempio, la scelta di privilegiare una dimensione anti-spettacolare delle immagini, probabilmente agli inizi del tutto istintiva, alla quale Rossellini rimarrà sempre fedele, insieme al gusto per il dettaglio colto non tanto in chiave aneddotica, quanto individuato come l'unico modo per giungere ad una rappresentazione concretamente viva della realtà delle cose.

A partire da questi primi film si cominciano perciò a tracciare alcune linee essenziali della poetica rosselliniana, che si mostra soprattutto in quella capacità rara di filmare i momenti di quiete, i momenti, quasi mai raccontati dal cinema, dell'attesa, quando ancora non sta accadendo niente di particolarmente straordinario, quei momenti essenziali ad alta densità e tensione in cui la sua macchina da presa si limita ad osservare, con la giusta attenzione e dalla giusta distanza, gli uomini, il paesaggio, le cose, gli eventi, nel loro nudo situarsi.



2. Nascita del neorealismo, nascita di una nazione


È un'idea di Godard, espressa nel corso delle Histoire(s) du cinema[3], quella che l'unico film che ha resistito all'occupazione del cinema da parte degli Stati Uniti – intendendo con il termine "occupazione" un certo modo omologato e commerciale di fare film e soprattutto di esportarli – è stato un film italiano: Roma città aperta. Secondo Godard, infatti, con Roma città aperta: «l'Italia ha semplicemente riconquistato il diritto di una nazione di tornare a guardarsi in faccia ed è così che si è data la sorprendente ricchezza del grande cinema italiano. […] la lingua di Ovidio e di Virgilio, di Dante e di Leopardi era penetrata nelle immagini»[4].

La grandezza di Roma città aperta e la sua originalità, in quanto grande film di resistenza e di lotta, commovente e umana, consisteva anche nel porsi come punto di rottura e di non ritorno nei confronti di un certo modo tradizionale di fare cinema, non tanto e non solo per l'uso delle locations, strade, ambientazioni e luoghi reali, che appartenevano alla città, ma soprattutto per il modo in cui i vari personaggi vi si muovevano interagendo tra di loro, in un unico flusso che aveva il sapore straordinario e libero della spontaneità; attori non professionisti che lavoravano fianco a fianco con attori come Anna Magnani o Aldo Fabrizi, tutti protagonisti e partecipi di un atto creativo cui stavano dando forma, insieme. In un certo senso, come ha in varie occasioni sostenuto un profondo conoscitore dell'opera rosselliniana come Edoardo Bruno, «l'invenzione del vero diventava così più vera del vero»[5]. La sequenza della morte di Anna Magnani, che adombrava l'episodio reale della popolana Maria Teresa Gullacci, uccisa dai tedeschi, davanti agli occhi del marito e dei figli, re-inventa il reale; con quella corsa disperata dietro il camion, con quell'urlo nero straziante, con quella sventagliata di mitra si scrive una delle pagine più belle e sconvolgenti della storia del cinema.

Roma città aperta, Paisà, Germania anno zero sono tre tappe cruciali che incarnano il violento desiderio di portare il cinema fino ad oltrepassare i suoi stessi limiti, quella capacità radicale e unica del cinema di Rossellini di spogliare gli eventi di ogni elemento superfluo per arrivare direttamente all'essenziale, cioè, per dirlo altrimenti, quel margine stretto che si gioca sempre tra la vita e la morte. Con Paisà, che racconta l'ultimo tratto della guerra, frammentandolo in sei episodi, questa ricerca raggiunge dei vertici impensabili prima di allora, vertiginosi. Paisà, come è stato osservato[6], «è importante non perché ci fa vedere l'Italia per la prima volta, ma perché probabilmente ci permette di intuire che non l'avremmo mai più vista in quelle forme. Perché forse ci dice che un paese cambia mentre cambia il cinema che lo vede, e viceversa. Con Paisà il cinema si smarrisce in un paese che si risveglia dalla guerra come se fosse ancora in guerra. Paisà è il racconto di una metamorfosi filmata in prima persona plurale».

Mentre Federico Fellini, che collaborò con Rossellini alla stesura della sceneggiatura, così scriveva di quell'esperienza: «Seguendo Rossellini mentre girava Paisà mi parve improvvisamente chiaro, una gioiosa rivelazione, che si poteva fare il cinema con la stessa libertà, la stessa leggerezza con cui si disegna e si scrive, realizzare un film godendolo e soffrendolo giorno per giorno, ora per ora, senza angosciarsi troppo per il risultato finale; lo stesso rapporto segreto, ansioso ed esaltante che uno ha con le proprie nevrosi; e che gli impedimenti, i dubbi, i ripensamenti, i drammi, le fatiche, non erano poi molto diversi da quelli che soffre il pittore quando cerca sulla tela un tono e lo scrittore che cancella e riscrive, corregge e ricomincia, alla ricerca di un modo espressivo che, impalpabile e sfuggente, vive nascosto tra mille possibilità. Rossellini cercava, inseguiva il suo film in mezzo alle strade, con i carri armati degli alleati che ci passavano a un metro dalla schiena, gente che gridava e cantava alle finestre, centinaia di persone intorno che cercavano di venderci o di rubarci qualcosa, in quella bolgia incandescente, in quel formicolante lazzaretto che era Napoli, e poi a Firenze e a Roma e negli sconfinati acquitrini del Po, con problemi di ogni tipo, permessi revocati all'ultimo momento, programmi che saltavano, misteriose sparizioni di danaro nel girotondo frastornante di produttori improvvisati sempre più avidi, infantili, mentitori, avventurieri»[7].

Intanto, nel 1946 una grande tragedia si abbatte su Roberto Rossellini: a soli nove anni gli muore il figlio primogenito, Marco Romano, durante un soggiorno della famiglia in Spagna. L'abituale pessimismo della ragione di Rossellini, quel suo fronteggiare nel cinema la vita e la morte, si approfondirà notevolmente in seguito a questa drammatica esperienza, di cui il film successivo, Germania anno zero, raccoglie nelle sue pieghe l'ombra dolorosa. La tragica storia di Edmund, fanciullo precocemente invecchiato e offeso dalla guerra, che vaga da solo in una Berlino devastata e sbriciolata, gracile figuretta che si muove in un paesaggio dominato dalle macerie, tocca ancora oggi lo spettatore profondamente, e quel breve tempo che gli rimane, seguito dalla macchina da presa in tempo reale, che Edmund alla fine del film dedica ad una serie di giochi svogliati all'interno della casa diroccata, prima di suicidarsi, coprendosi gli occhi e lanciandosi nel vuoto, resta ancora oggi una delle pagine più dolorose e insostenibili della storia del cinema.



3. Solitudine e bellezza di un volto


L'incontro tra Roberto Rossellini e Ingrid Bergman è stato dal punto di vista della storia del cinema uno di quei momenti rari e sfolgoranti che in modo del tutto inaugurale ne modificano il percorso. Siano essi ritratti, dove la materia del colore è il tempo e la luce, o radiografie di un'anima, film in cui si riesce a filmare, cioè «a rendere l'interiorità e i suoi paesaggi qualcosa di concreto e visibile, a materializzare, dando loro una forma a sentimenti che altrimenti non avrebbero potuto essere rappresentati come la solitudine, l'angoscia, la paura»[8].

Karin (Stromboli), Irene (Europa '51), Katherine (Viaggio in Italia), Irene (La Paura) è la scansione non casuale di nomi presi nella rete di una loro intima somiglianza, che si ripetono e ritornano come le facce misteriose di un cristallo, che ruota intorno allo stesso volto amato di donna. Il volto di una star che si strappa a Hollywood per mostrare al mondo, cavia consenziente, che cosa può fare l'amore a un corpo, a un viso, fino a quale punto di messa a nudo può arrivare il cinema.

I campi/controcampi di Rossellini spalancano direttamente davanti allo sguardo la voragine dell'infinito: il cielo stellato che risponde, nella sospensione materialistica di un mistero, al primo piano di Ingrid Bergman sulle pendici del vulcano in Stromboli; le luci del tabernacolo nella chiesa verso cui si solleva la preghiera muta di Irene in Europa '51; la morte, infine, come pulsione più pulsionale di tutte, controcampo terminale che sbarra la strada della Katherine Joyce di Viaggio in Italia, quando le si mostra, improvvisamente nell'abbraccio degli amanti cristallizzati da secoli nella lava e appena riaffiorati negli scavi, rivelandole allo stesso tempo la fragilità umana e la potenza sconvolgente dell'amore e della morte. Rossellini filma dei miracoli laici, per usare i termini di Andrè Bazin, mostra e non dimostra, porta alla visibilità, in un'unica ribollente colata, paura e desiderio, buio e luce, parole e silenzio nell'abbraccio flagrante della macchina da presa. L'immagine rosselliniana è tutta lì: sembra niente e non può che essere quella, bella in quanto esatta come un teorema in matematica, immagine donata e non cercata, preziosa e comune come lo è la fragranza del pane appena fatto.

Era stato Adriano Aprà, studioso non occasionale di Rossellini, a sottolineare con una bella intuizione come il cinema di Rossellini sia stato caratterizzato soprattutto da ritratti di donne (Ingrid Bergman, Anna Magnani…), mentre la lunga avventura televisiva sarà soprattutto dominata da ritratti di uomini (personaggi storici, filosofi più che attori: Luigi XIV, Descartes, Pascal, Gesù, Socrate, Marx…). E l'utopia rosselliniana, nel passare dal cinema alla televisione, vedeva orizzonti di sperimentazione come una realtà possibile, finalmente accessibile a tutti, un modo per mettersi come lui stesso avrebbe detto "sulla via del lontano".



4. Rossellini televisivo


Forse non è del tutto appropriato definire "didattica" l'opera televisiva di Rossellini, se si dà credito ad una sua dichiarazione del 1971 in cui diceva: «Non voglio insegnare niente. Voglio soltanto guardare. Sono soltanto un operaio, un tramite e basta. Perché devo interpretare? Qual è il punto di partenza? O si ha fiducia nell'uomo o non si ha fiducia»[9].

Ma certamente è un dato di fatto che fin dai tempi di India, che non casualmente spostava il suo sguardo ben oltre i confini europei che finora si era dato, si fa molto urgente in Rossellini l'esigenza di cogliere della realtà una rappresentazione che fosse il meno possibile manipolata. Questo percorso prende sempre più forza nel corso degli anni, anche grazie al fatto che Rossellini coglie le possibilità del mezzo televisivo come forse, alla luce dei risultati, nessun altro regista ha saputo fare, prima e dopo di lui, intuendo prima di ogni altra cosa che si trattava di un mezzo meno gravato di costi rispetto al cinema. La televisione era di fatto più libera e conferiva libertà, pur soggiacendo già in quella metà anni Sessanta agli interessi dei partiti, ma permetteva comunque con agio e senza troppo controllo l'utilizzo di un discorso di tipo documentaristico.

Nasce così una delle esperienze creative più significative e imparagonabili della storia del cinema[10]. A partire dal 1964, l'anno dell'Età del ferro, nell'arco di dodici anni Rossellini ha realizzato undici opere tra cui La presa del potere di Luigi XIV, gli Atti degli Apostoli, Socrate, Cartesio, L'età dei Medici, Anno uno, Il Messia. Complessivamente si tratta di più di quaranta ore di proiezione, caratterizzata da uno spirito appunto "didattico" nel senso più ampio possibile del termine, opere quindi destinate al grande pubblico, pur restando cinematografiche nel senso più profondo; opere dense, creativamente avvincenti, accese a tratti da quelle invenzioni fulminee e straordinariamente dirette e nitide che sono una peculiarità del cinema di Rossellini. Come si è già osservato non c'è nessuna facile semplificazione nell'attività televisiva di Rossellini, quanto piuttosto la presenza e il costituirsi rigoroso di un metodo, che nel suo dispiegarsi è quanto di più lontano da qualsiasi ideologia precostituita e, allo stesso tempo, vicino ad una esperienza viva e diretta delle cose.

«La macchina da presa di Roberto Rossellini – diceva suo fratello Renzo – non si può confondere con altre. Egli è capace infatti di realizzare minuti e minuti di visioni, senza cambio di inquadrature, ma con un senso di così possente dinamica da indurre lo spettatore a sensazioni di perpetua, irrequieta mobilità. Da questo modo di vedere, di ritrarre, di realizzare, nasce la parte più nobile e più squisita dell'opera d'arte, nasce, ossia, lo stile. Lo stile che di per sé si fa modello e nel farsi modello diviene spirito di classicità. L'opera di Roberto Rossellini ha una meta precisa: la semplicità come punto di arrivo. È una semplicità francescana. In altre parole essa significa umiltà»[11].

Il cuore pulsante del suo lavoro era in realtà qualche cosa di molto semplice e profondo: si trattava soprattutto di ricerca, di continua documentazione; ciò che contava per lui era comunicare, senza sopraffazioni, senza messaggi, senza interpretazioni personali. «Le cose sono lì – osservava –, basta guardarle. Lo sguardo deve essere semplice, il senso delle cose è accessibile alla rivelazione immediata».

Il primo esperimento in questo senso fu L'età del ferro, un programma composto di cinque episodi di un'ora ciascuno, lavorati nel loro insieme in uno stile del tutto originale, sorta di vero e proprio "specifico" rosselliniano, che mescolava insieme dei materiali di repertorio (cinegiornali, ecc.), con frammenti di suoi film precedenti, con pezzi di documentari industriali e pubblicitari ecc. La ricchezza straordinaria di questi materiali tra loro eterogenei si amalgamava in una unità stilistica sperimentale per l'epoca (ma ancora oggi) e completamente innovativa, in cui si intrecciavano degli aspetti romanzeschi con gli elementi narrativi, con un approccio storico molto singolare che rendeva la Storia qualcosa di vivo e di immediato, qualcosa cioè che sembrava compiersi in quel momento, come già era avvenuto in letteratura con Stendhal e Dumas, e che nel cinema di Rossellini avviene secondo un punto di vista che la macchina da presa ci ricorda costantemente, con una forza e una curiosità spesso slegata dal senso dei dialoghi. In questo senso i suoi sono veri e propri film d'avventura[12].

Da questo punto di vista un'opera come La prise du pouvoir par Louis XIV rimane uno snodo fondamentale per comprendere pienamente l'operazione che Rossellini compiva nei confronti del contesto storico. Il rischio in agguato era quello di una banalizzazione dei materiali storici, a fronte dell'esigenza di una loro ampia divulgazione, mentre in quest'opera si fa immediatamente visibile, soprattutto attraverso l'uso dei dettagli degli abiti, ma anche delle abitudini che caratterizzano la vita a corte, dai momenti della caccia, ai fastosi pranzi di corte di cui vengono mostrate le singole portate – un atteggiamento che Rossellini condivide con un regista come Jean Renoir –, in altre parole attraverso un'osservazione minuziosa in grado di sprofondare fin dentro le pieghe più nascoste di una società, per restituirla come qualcosa di concreto e in atto, che avviene hic et nunc di fronte allo spettatore.

Nel 1977, dopo aver presieduto la giuria del Festival di Cannes di quell'anno, Roberto Rossellini muore improvvisamente a Roma, il 3 giugno per un infarto. Dopo la prova altissima, anche se molto contestata dalla critica più miope e conformista, de Il Messia (1975), suo ultimo film, radicale e sconvolgente per la scabra essenzialità delle immagini e per l'approccio dimesso, quotidiano, eppure diretto alla vita di Gesù, e che proprio in questo modo restituiva al messaggio evangelico tutta la sua portata rivoluzionaria e sovversiva, Rossellini si disponeva a mettere mano al Marx, un suo progetto a lungo accarezzato, il cui titolo sarebbe idealmente stato: Lavorare per l'umanità.

Che è poi un titolo che potrebbe abbracciare interamente il senso del lavoro e dell'intera opera di Roberto Rossellini. Un'opera vertiginosa che andava molto oltre i confini del cinema, «un cinema di domani, un altro reale, volto non tanto ad esprimere quanto a creare tempi nuovi»[13].



[1] J.-L. GODARD, Il cinema è il cinema, Garzanti, Milano 1981, pp. 151-152.
[2] Il pancinor era un particolare obiettivo, costruito in Francia nel 1949. Si tratta di un obiettivo ottico con messa a fuoco variabile che permette di compiere lunghe riprese senza stacco, e che Rossellini inizia a usare a partire dal 1960, nel film Era notte a Roma e poi sistematicamente in tutta la sua successiva produzione televisiva; rifiutando l'idea di montaggio, che gli appariva troppo manipolatoria, preferiva l'uso del pancinor, dello zoom, che permetteva un uso straordinario della profondità di campo e del piano sequenza.
[3] J.-L. GODARD, Histoire(s) du cinema. La monnaie de l'absolu, Gallimard, Parigi 1999, p. 78 ss.
[4] Ivi, p. 86.
[5] E. BRUNO, Il potere della ragione, in Roberto Rossellini, Ente Autonomo Gestione Cinema, Roma 1990.
[6] G. NAZZARO, in 10, 100, 1000 frammenti Rossellini in "Filmcritica" , n. 565, maggio 2006, p. 236.
[7] F. FELLINI, Una specie di Adamo, in Fare un film, Einaudi, Torino 1980, pp. 44-47.
[8] Cfr. in proposito il pensiero di Edoardo Bruno in Il pensiero che muove, Bulzoni, Roma 1998, p. 98 ss.
[9] G. RONDOLINO, Roberto Rossellini, Il Castoro cinema, Firenze 1977, p. 34.
[10] Va sottolineato in proposito che Roberto Rossellini ha sempre rifiutato le differenze poste convenzionalmente fra cinema e televisione.
[11] Rossellini uomo e regista, in "Il Messaggero", Roma, 30 aprile 1970.
[12] Cfr T. GALLAGHER, L'imagination du reel, in "Cahiers du Cinema", n. 556, aprile 2001.
[13] E. BRUNO, Prospettiva Rossellini, in "Filmcritica", n. 565, maggio 2006, p. 228.
torna su