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Editoriale - Immaginazione e politica, un rapporto irrinunciabile

Editoriale a cura di ROMINA PERNI
Col senno ormai bell'e spacciato,
gli venne in mente pertanto il pensiero più bislacco
che mai venisse a pazzo del mondo;
e fu che gli parve opportuno e necessario,
sia per maggiore onore suo come per utilità da rendere alla sua patria,
farsi cavaliere errante, ed andarsene armato, a cavallo,
per tutto il mondo in cerca delle avventure
e a provarsi in tutto quello che aveva letto essersi provati i cavalieri erranti,
spazzando via ogni specie di sopruso,
e cacciandosi in frangenti ed in cimenti da cui, superandoli,
riscuotesse rinomanza e fama immortale.

Miguel de Cervantes, Don Chisciotte della Mancia (1606)

Politica e immaginazione sono due concetti che vivono un rapporto ambivalente. Da una parte sembrano, infatti, escludersi: la politica ha i piedi ben affondati nella realtà e misura le proprie scelte e le proprie azioni senza allontanarsi da questa; per mezzo dell’immaginazione, invece, sono dipinte, raffigurate, – appunto – immaginate realtà altre: si tratta di sogni, chimere, fantasticherie irreali. D’altra parte, però, sembra anche che una politica del tutto priva di immaginazione non abbia la forza di guardare al futuro, di proporre e realizzare qualcosa che, pur partendo dal presente, lo superi e lo trasformi, lo renda migliore e funzionale al benessere e alla felicità degli uomini. Coloro che, nel mondo della politica, rivestono ruoli istituzionali, di primo piano o che, comunque, sono chiamati a prendere decisioni di una certa rilevanza vengono criticati se difettano di immaginazione o se eccedono nell’utilizzo di questa. Se non bilanciano in maniera adeguata le proprie scelte, le proprie azioni in ognuno di questi due piani di interazione con la sfera dell’immaginazione. Ovviamente le critiche non riguardano solo questo aspetto, ma nella maggior parte dei casi si rimprovera alla politica l’incapacità di avere un pensiero forte, che sappia leggere la realtà, ma avendo già chiaro in mente come superare il contingente per ottenere trasformazioni rilevanti nel futuro anche più prossimo. Sul versante opposto una politica che non sappia guardare alla e nella realtà così com’è, ma si perda nei «sogni ad occhi aperti» di blochiana memoria, sembra anch’essa destinata al fallimento e alla perdita della fiducia e del consenso dei cittadini.
Viene accusata di realismo la politica ripiegata sul dato, di utopismo quella che invece tende a trascendere il reale perdendo qualsiasi contatto con esso. Ogni etichetta, in realtà, lascia il tempo che trova perché la storia del pensiero politico raramente ci consegna dottrine e teorie che non abbiano - già nella loro stessa definizione - molteplici declinazioni possibili e dai contorni non sempre decisi.
La tradizione dell’utopia, ad esempio, è ambivalente da questo punto di vista. Già Thomas More aveva messo in luce questo in alcuni versi premessi a Utopia (1516) e attribuiti al «poeta laureato Anemolio»: «Gli antichi mi chiamarono Utopia per il mio isolamento; adesso sono emula della repubblica di Platone, e forse la supero (infatti ciò che quella a parole ha tratteggiato, io sola la attuo con le persone, i beni, le ottime leggi), sicché a buon diritto merito di essere chiamata Eutopia». Queste parole chiariscono quello che la critica avrebbe approfondito in decenni di studi su questo concetto: l’utopia è un luogo irreale, frutto della pura immaginazione, il non luogo, del tutto altro rispetto alla realtà. Ma se l’etimologia rimanda a eutopia piuttosto che outopia, l’isola diventa il luogo felice, dove si materializza il benessere per gli uomini, che possiamo e dobbiamo sperare si realizzi. In questo senso è presente la carica progettuale, aperta al futuro e alla trasformazione del reale che questo termine ha, dove ruolo determinante viene svolto dall’immaginazione, dalla capacità di pensare una diversa società, una diversa organizzazione economica e politica, una diversa organizzazione della città e delle relazioni tra persone.
Correlato al rapporto tra politica e immaginazione vi è quello tra politica e morale. Anticipando in altri termini la distinzione tra «moralista politico» e «politico morale», proprio all’inizio di Per la pace perpetua (1795) Kant distingue tra uomini in generale, ma la considerazione vale in particolare per i capi di Stato «che non riescono ad essere mai sazi di guerra», e i filosofi «che vagheggiano qualche dolce sogno». Da una parte, quindi, i politici «pratici», dall’altra quelli «teorici». I primi ritengono che lo Stato debba essere guidato seguendo i principi dell’esperienza e che i teorici non siano altro che eruditi di scuola dalle idee «inconsistenti». Questi credono di poter «attuare» ciò che è impossibile. Per evitare lo scontro tra le due figure Kant suggerisce al politico pratico, in caso di contesa, di non temere che le opinioni del teorico rappresentino un pericolo per lo Stato. D’altra parte quello di poter esprimere pubblicamente il proprio pensiero è un diritto irrinunciabile. «Attuare l’impossibile» significa considerare rilevanti per la guida dello Stato principi che non necessariamente appartengono all’ambito dell’esperienza, ma vanno recuperati oltre essa. Questo è l’ambito della morale, che non deve schiacciarsi sul dato empirico. Ed è a questo stesso “oltre” che attinge l’immaginazione.
Senza rischiare che lo spettro della semplificazione scenda anche su questa breve riflessione, è però possibile dire che le ambivalenze di cui ho parlato sono presenti anche nel modo di approcciarci oggi ai problemi e alle questioni che investono la politica e da cui e in cui siamo necessariamente coinvolti.
Molte delle riflessioni e delle discussioni che animano il dibattito pubblico attuale sono caratterizzate dall’oscillazione tra un atteggiamento realistico di mero adeguamento alla realtà esistente e il sogno di un mondo altro, che torna oggi a emergere dopo la fine e la crisi delle ideologie e delle utopie. La conservazione e la staticità propria delle prime si contrappone, infatti, alla carica trasformatrice e dinamica dell’utopia, malgrado la metamorfosi terminologica e concettuale che ha portato, nella contemporaneità, a parlare di distopia ci suggerisce che i mondi tratteggiati dalle utopie possano anch’essi cristallizzarsi e irrigidirsi. Questo non annulla di certo l’istanza di radicale cambiamento che l’utopia ha in sé. E comunque oggi è come se ci trovassimo in una particolare situazione in cui la società e la politica tendono alla conservazione dell’esistente, pur nell’assenza di un’ideologia forte che sostenga questa tendenza, mentre sogni utopici faticano a materializzarsi in immagini nitide.
Il momento di crisi che stanno vivendo le democrazie occidentali dovrebbe essere, invece, il più idoneo per consentire all’immaginazione di operare nel senso della critica dell’esistente e del suo superamento con la progettazione di un nuovo assetto sociale e economico. Al contrario, si percepisce una difficoltà ad immaginare qualcosa di diverso da ciò che è reale e che, solo perché esiste, deve essere considerato giusto. Il corso degli eventi sembra procedere senza che né gli individui alle prese con la vita quotidiana delle loro esistenze private né la politica, intesa nel senso del luogo della decisione e della scelta, abbiano un qualche potere su di esso.
Quando nella discussione pubblica è emerso il tema della globalizzazione il dibattitto si è, ad esempio, plasticamente modellato sulla base delle ambivalenze che abbiamo fin qui delineato. Da una parte l’accettazione anche entusiastica di un modello economico e sociale che, essendo esistente, è percepito come inevitabile e a cui dobbiamo adeguarci senza che ci sia concessa nemmeno la possibilità di riflettere su di esso. Dall’altra parte, invece, l’atteggiamento di chi ha visto e vede nella globalizzazione un male assoluto, del tutto da rigettare e a cui - quasi stoicamente - resistere. Nel primo caso c’è un annullamento dell’immaginazione, nel secondo caso l’aggancio con la realtà è volutamente rigettato in nome di “un altro mondo possibile”. Non si può immaginare nulla di diverso da ciò che è oppure lo si immagina talmente diverso che l’entusiasmo che ci anima alla sua vista rischia di farci perdere il senso della realtà. Quando invece è proprio nel momento in cui la considerazione e l’analisi della realtà – irrinunciabili – si uniscono a ciò che possiamo immaginare diverso e migliore che la politica può riscoprire di avere un ruolo determinante nell’indirizzare il corso degli eventi. Ciò che è veramente dirimente è come conduciamo questa analisi della realtà: libera dal pregiudizio e dalla genericità e rivolta all’”altro” che l’immaginazione può concepire.
L’appiattimento realistico sull’esistente è diventato, allora, la nuova ideologia, sulla base della quale legittimare la prassi politica. Sembriamo impotenti in un modo dominato dalla finanza, dal mercato libero e sciolto da ogni vincolo. La politica modella le sue decisioni sulla base di considerazioni, situazioni e condizioni esterne che sembra non poter controllare. La «virtù» e la «fortuna» di Machiavelli tornano, allora, in una veste nuova. Virtù del politico doveva essere quella di considerare la «verità effettuale della cosa», e non «l’immaginazione di essa», riuscendo a prevedere le conseguenze delle proprie azioni, avendo come fine unico il mantenimento del potere. La fortuna era l’imponderabile, il fiume in piena che travolge anche il frutto del calcolo strategico più esatto. Oggi la virtù richiesta al politico sembra effettivamente essere quella machiavelliana, finalizzata alla sopravvivenza del potere politico stesso, ma in balia di un “caso” fatto di condizioni e situazioni che comodamente releghiamo nell’ambito dell’incontrollabile, ma sui quali è invece comunque possibile un margine di azione.
Tra realtà, immaginazione e politica si è creato un cortocircuito. Il vero punto di incontro tra questi tre concetti si ha, infatti, quando ciò che viene immaginato dai singoli assume una forma collettiva. È qualcosa che riguarda un sentire comune: non tanto perché le diverse immagini vengono giustapposte, quanto perché si materializza un sogno, frutto di un’elaborazione che non riguarda singole monadi e che, anche se si origina da un singolo, diventa esempio e simbolo per un gruppo, un insieme, una collettività. È l’immaginario di un’epoca, di una civiltà, di un certo tipo di società. Un tempo era la città ideale, l’isola felice, l’altro mondo. Oggi l’immagine assomiglia di più a un collage caotico e informe, fatto di pezzi di realtà che si tenta di mettere a sistema. È la conseguenza della parcellizzazione delle nostre esistenze, della difficoltà che incontriamo a riconoscerci in forme collettive che non siano solo frutto di incontri occasionali, professionali o dettati da interessi di breve periodo.
Forse non abbiamo ancora tutti gli elementi per dire se torneremo responsabilmente capaci, per soddisfare un certo «desiderio del giusto», a invocare, richiamando ancora Bloch, ciò che non è, costruire «nell’azzurro» e cercare «il vero e il reale là dove scompare il semplice dato». D’altra parte quel desiderio è costitutivamente proprio dell’uomo. Per questo quello del rapporto tra politica e immaginazione diventa il tema del presente, determinante per la direzione che intendiamo dare al nostro futuro e a quello delle generazioni che verranno dopo di noi. Ed è per questo che abbiamo voluto dedicare una sezione del nuovo numero di Cosmopolis a questo tema, affrontato sotto diversi punti di vista, in contesti storici anche distanti, ognuno con un linguaggio particolare. D’altro canto non c’è crisi che non abbia avuto un nuovo inizio, «incipit vita nova».



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