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Arte e società:
verso una nuova “Era Prima”[*]

Bruno Ceccobelli
Intervista a cura di Marco Bastianelli

Vorrei cominciare questa conversazione chiedendole di ricordarci che cos’è l’ex-Pastificio “Cerere”, a Roma, dove lei ha cominciato la Sua carriera. Chi erano quei ragazzi del quartiere popolare San Lorenzo?

Il Pastificio “Cerere” si trova a Roma, tra la Stazione Termini e il cimitero del Verano, nel centro del vecchio quartiere di S. Lorenzo, e comprende tre edifici di cinque piani, un insieme di granai, dal sottosuolo ai terrazzi, tanti piani e scale e passerelle volanti che si incrociano. Agli inizi degli anni Ottanta era ancora quasi del tutto una fabbrica abbandonata. Il quartiere S. Lorenzo è da sempre operaio e pieno di fabbriche, tanto è vero che alla fine della seconda guerra mondiale fu bombardato dagli americani, con l’intento di far rivoltare la popolazione civile contro i Tedeschi e fermare così i rifornimenti alla città, a discapito degli stessi insorti. Più tardi, le stesse fabbriche, alcune dismesse o distrutte, divennero parte dell’Università “La Sapienza”. L’attuale gruppo di artisti, conosciuti anche come la “Scuola di S. Lorenzo”, comprende, oltre al sottoscritto, Gianni Dessì, Giuseppe Gallo, Piero Pizzi Cannella, Nunzio e Marco Tirelli. Iniziammo a trasformare in “Loft” quei polverosi spazi pieni di macchinari, ma con grandi finestroni che erano perfetti per la luce della pittura. Allora eravamo tutti ventenni e per la maggioranza laureati all’Accademia di Belle Arti di Roma con Toti Scialoja.

Quale era allora la vostra visione della società?

Erano appena passati i movimenti caldi della contestazione del Settantasette, fra le proteste sincere delle masse di operai e studenti e i feroci agguati punitivi delle tragiche Brigate Rosse, ai quali facevano da macabro contraltare le oscure stragi della “strategia della tensione” dell’eversione imperialista. Chi non voleva essere un politico o un perfetto rivoluzionario militante materialista di sezione sceglieva, come noi, la non violenza, la “Bellezza” dell’arte, la forza dell’immaginario, per combattere la stessa società ingiusta e crudele. Alle armi dello sfruttamento capitalistico ci opponevamo con segni nuovi, visionari e profetici.

Cosa vi aspettavate dall’arte?

Nell’“Opera” abbiamo cercato un’utopia vivente, una trasformazione che sublimi l’operatore e poi, per simpatia, anche lo stesso osservatore.

E oggi, qual è il suo rapporto con la cultura contemporanea?

Ho avuto diversi maestri, ma sinceramente quelli più formativi li ho incontrati fuori dalla scuola: maestri esoterici e maestri di strada. Proprio un “filosofo di strada”, Donato, terza elementare, mi ripeteva: «… e questo è quello che dicono i “dotti ignoranti”», intendendo i laureati all’Università. Già, perché per molti “Iniziati ai Misteri dell’Arte” e per i meditanti il sistema razionale della cosiddetta Civiltà Occidentale è funzionale, per la maggior parte, alla scienza, all’economia e alla guerra del sistema capitalistico.

Il suo è il punto di vista di un artista. L’arte del Novecento è stata tormentata, intima e, per molti versi, pulsionale. La sua è un’arte profonda, filosofica ed ermetica. Com’è, o come sarà, l’arte del Terzo Millennio?

L’arte del Novecento è stata un lungo susseguirsi di avanguardie calde e fredde, informali e formali; si sono fronteggiate varie ricerche sulla modernità del linguaggio dell’arte, con manifesti tra loro antitetici, quasi seguendo delle mode. In generale, sono state ricerche visive formali e materialistiche, ad accezione della Metafisica e del Surrealismo. Vorrei che la mia arte fosse una luce per il Terzo Millennio: è “Astratta Simbolica” e s’ispira proprio alla metafisica di De Chirico e Savinio, con una forte connotazione Teosofica che ci rimanda alle poetiche di Kandinskj e di Paul Klee; inoltre, essa contiene una lettura profetica della visione sociale, alla Beuys.

Lei parla spesso di un’arte libera dai condizionamenti del mercato. È davvero possibile oggi? Si può fare arte senza mercato?

Tutto dipende dall’onestà dell’artista; la prima regola è quella di seguire la propria ispirazione, la propria illuminazione. Profetizzare il “Bello” è una questione etica. Sto pensando alla vecchia idea classica di etica (dalla scuola Italica di Pitagora, a Platone fino a Croce). Oggi, più di ieri, è importante resistere alle “sirene” del mercato. Del resto, che l’arte si possa anche vendere non c’entra con la sua qualità poetica e con la necessità di creare e diffondere il suo messaggio. In fondo, tutti i gesti d’amore o i colloqui con l’assoluto sono poesia e arte, ma non per questo si specula sempre per monetizzarli! Di contro, la moneta è senza dubbio scambio umano, ma nello stesso tempo è simbolo di potere, un valore di padronanza o sottomissione che fossilizza uno status giuridico sociale.

Considero l’opera degli artisti come il dono di nuovi occhi con cui guardare il mondo. Per questo, a volte, la grande arte non è subito compresa. Lei però è stato storicizzato molto presto ed è ben accolto dal mercato. Se è vero quel che ha appena detto, dovremmo forse pensare che non è realmente compreso?

Sicuramente sono da molti anni quotato nel mercato internazionale, ma questa affermazione mercantile non dà pregio alla qualità dell’arte. Si può mai comprendere lo sforzo di essere sempre sinceri, semplici, umili e far accettare le proprie ansie, insicurezze, follie? È faticoso essere diverso (essere cioè contro le mode o le abitudini banali). In un mondo chiassoso e competitivo è soprattutto difficile riconoscere la bontà o la genialità di un uomo che non vuol essere né un capo né un santone.

Tra le varie modalità espressive che ha utilizzato vi sono anche i libri. Ne ha scritti tre e un quarto uscirà tra breve[1]. Vi prospetta una nuova forma delle relazioni sociali, non più fondata sul denaro, ma su un’economia del dono. In che modo lo ritiene possibile?

Semplicemente non dando più un valore al denaro. Già dal Medioevo il denaro era considerato lo “sterco del Demonio”. Il denaro ci divide e, se vogliamo una società estetica, unita, fraterna e armonica, occorre abolire l’economia fondata sul denaro. Questo non significa che si debbano abolire gli scambi. Più del baratto, però, che comunque obbliga alla restituzione momentanea e coatta del prodotto, nella società che io immagino si può instaurare il libero fluire dei doni. La vera ricchezza è la generosità, la virtù.

Lei sostiene che gli uomini, in questa reciproca donazione, non sono più inseriti in un tessuto di relazioni gerarchiche, ma sono “figli l’uno dell’altro”. Ciò comporta l’assunzione di nuovi tipi di responsabilità?

Certamente, a cominciare dal legame di responsabilità più metafisico: perché non vedere Dio come figlio, invece che come padre? Grande sarebbe l’incombenza nel gestire l’idea di Dio come un figlio da far crescere e accudire costantemente e sempre meglio! Sarebbe la fine del “giudizio” divino e non divino e sarebbe anche la negazione dell’esercizio di potere in generale, la fine cioè di quel rapporto perverso e alienante che caratterizza la logica del più forte. In pratica sarebbe la sconfitta delle ideologie, della burocrazia e del sistema industriale, delle categorie di razza e patria, degli egoismi e delle bugie, l’abolizione del tempo e degli orologi e, soprattutto, la cancellazione dei nomi e dei cognomi.

In questo senso, lei parla di una “Era Prima” che, mi pare, va intesa come un’era originaria, prima dell’avvento dell’economia del denaro. Ma si tratta veramente di un ritorno possibile o è solo un richiamo a istanze di tipo spirituale?

Pensare e dire è già agire. Insomma, che importanza ha se questo che affermo si potrà realizzare ora, domani o mai? L’importante è riuscire a prospettare una possibilità, che funga almeno da ideale regolativo. L’“Era Prima” è una tautologia che esprime bene la mancanza del tempo; un mio aforisma recita: «Il tempo taglia, l’eternità ricuce». Il tempo è il nostro peggior nemico, ma non perché ci fa ammalare o invecchiare e poi morire, bensì perché ci illude che siamo fatti di materia, mentre la nostra vera realtà è nello Spirito.

Nelle sue opere utilizza per lo più materiale di recupero e pigmenti naturali. Da alcuni è stato anche accostato a Burri, umbro come lei. Tuttavia, mi pare che le sue esigenze siano di tipo diverso. In particolare, lei vuole sottolineare un legame originario e, per così dire, cosmico tra l’uomo e l’ambiente.

Esattamente, anche se tutto va riportato a livello simbolico, perché noi viviamo esclusivamente di segni-simboli, che sono l’origine di tutti i nostri sentimenti-pensieri-movimenti. La materia è quindi certamente importante, ma per il suo significato metafisico e valore metaforico. Si parte sempre dalla coscienza della propria natura, che è la natura terrestre-cosmica dell’umanità, matrice originaria.

Lei, che è originario di Montecastello di Vibio, cita spesso frate Jacopone da Todi. In questo senso, si definisce “artista nullo” o “minimo”. L’artista è minimo o nullo rispetto a che cosa?

Jacopone da Todi è stato un grande mistico, seguace di S. Francesco. Jacopone, che per trentacinque anni è stato laico e apprezzato notaio, diventerà poi un Celestiniano, opponendosi alle derive materialistiche della Chiesa di Bonifacio VIII. Impose a se stesso la regola della “Nichilitate” (anticipando di molto l’esistenzialismo); il suo annullarsi, però, era di radice religiosa e guidato dalla fede. Nel mio piccolo mi dichiaro “artista nullo”, perché appartengo “al nulla che è”, cioè a quella realtà spirituale che non è immediatamente visibile nel mondo materiale. Sono anche “artista minimo”, perché appartengo ai Minimi Comuni Multipli, a coloro che si annullano in fratellanza, e non ai Massimi Comun Divisori, gli uomini razionali che esercitano il loro potere attraverso divisioni. Sia ben chiaro che queste sono tutte convinzioni che non costituiscono un’ideologia da propagandare, perché sono istruzioni che ho ricevuto dalla mia pittura.

Si dice che siamo in tempo di crisi e che, attraverso le crisi, la società rilegge se stessa. A suo avviso, quale insegnamento possiamo trarre dalla situazione attuale?

Che il capitalismo non ha mai funzionato e fa ancora parte della preistoria dell’uomo.

Lei ha scritto un libro intitolato “Color bellezza”. È la bellezza che illumina le cose, che dà luce all’ente. Ma qual è il colore della bellezza?

Il colore della Bellezza è semplice, è “la Trasparenza”, perché nella trasparenza si vede tutto. Sono il cristallo e il diamante. La purezza è quello che conta, perché il colore della “Bellezza” sono tutti i colori della verità (cauda pavonis). Questa mattina ho creato un piccolo arcobaleno di tre metri: partiva da me e tornava a me. Questa risposta, naturalmente, è cifrata e richiede di essere interpretata.

La bellezza può ancora salvare il mondo? E da che cosa va salvato?

La “Bellezza” salverà il mondo dalla sua banalità (che è violenza, sfruttamento e sopruso); la “Bellezza” ci salverà dall’ignoranza, perché essa è materia Sacra.

Ma allora, dove possiamo trovare o ritrovare la bellezza nel mondo d’oggi?

Dentro le nature degli uomini, della flora e della fauna; dentro i pianeti, le stelle, i soli, le forme o le materie; nei colori che ci fanno sognare o essere felici. Perché la “Bellezza” è “Grazia”, gratificazione e pacificazione con l’Universo. Quando incontri la “Bellezza” te ne accorgi, perché avviene un miracolo!

Mi pare di capire che attribuisce all’arte un potere veritativo e, per certi versi, salvifico. Che rapporto c’è tra arte, filosofia e fede?

Veramente l’arte è la re-ligione, il re-legare, il mettere insieme con armonia, che è poi la magia! Questa non è irrazionalità, ma vera medicina, la sapienza-salute.

E la politica come dovrebbe rapportarsi all’arte?

La politica riguarda la polis; le città, però, sono spesso strutture aggreganti del potere violento e crudele; il loro fine non è estetico e, per questo, l’artista non ne ha bisogno. L’arte combatte la politica, si scontra con l’attuale per prospettare mondi nuovi. Si badi che ciò non fa di me un militare, ma un semplice, e per qualcuno inutile, militante!

Vorrei concludere chiedendole di lasciarci con una parola su cui meditare.

“SILETE” (“SILENZIO”).

Intervista effettuata il 2 settembre 2009

E-mail:

[*] Bruno Ceccobelli nasce a Todi il 2 settembre del 1952. Si diploma all’Accademia di Belle Arti di Roma, dove segue il corso di scenografia di Toti Scialoja. Dalla seconda metà degli anni Settanta fa parte degli artisti che si insediano nell’ex-pastificio “Cerere”, a Roma, nel quartiere San Lorenzo, gruppo poi divenuto noto come “Nuova scuola romana” o “Officina San Lorenzo”. La sua ricerca è inizialmente di tipo concettuale, per poi giungere a un’astrazione pittorica che approda a un vero e proprio simbolismo spirituale. Ceccobelli tiene la sua prima personale nel 1976, presso la Galleria Spazio Alternativo di Roma. Successivamente espone a Parigi e a New York. Nel 1984 il critico Achille Bonito Oliva cura la mostra Ateliers, in cui gli artisti dell’ex-pastificio “Cerere” aprono i loro studi al pubblico. Nel 1984 e nel 1986 è invitato alla Biennale di Venezia e, successivamente, espone in diverse mostre in Europa, Canada e Stati Uniti. Tra le esposizioni più recenti vanno segnalate Classico eclettico, tenutasi nel 2003 presso il Museo di Villa Adriana a Tivoli, Invasi, svoltasi nel 2009 a Roma presso la Fondazione Pastificio “Cerere” e, nello stesso anno, Attici unici, presso la galleria l’Attico di Fabio Sargentini. Nel 2009 il MART di Rovereto dedica alla Officina San Lorenzo un’importante retrospettiva storica, in occasione della quale viene pubblicato il catalogo Italia Contemporanea. Officina San Lorenzo, a cura di D. Lancioni, con testi di G. Belli, A. Bonito Oliva, D. Lancioni, F. Bacci e N. De Pisapia, M. De Pilati, e una bibliografia selezionata a cura di P. Bonani (Silvana Editoriale, Milano 2009). Per una ricostruzione delle vicende del gruppo cfr. R. GRAMICCIA, La Nuova Scuola Romana. I sei artisti di via degli Ausoni, Editori Riuniti, Roma 2005.
[1] L’arte del possibile reale, a cura di L. Marucci, Stamperia dell’Arancio, Grottammare 1994; Color bellezza, a cura di N. Micieli, Il Grandevetro-Jaca Book, Pisa 2002; Tempo senza tempo della pittura, De Luca Editori d’Arte, Roma 2005; Gratiaplena. Economia della grazia, a cura di M. Bastianelli, Effe Fabbri Editore, Perugia 2009.
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