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Un multiculturalismo più ospitale verso il genere

Anna Loretoni

Dal momento che il differenziarsi delle società avanzate lungo linee culturali è uno degli elementi che caratterizzano il nostro presente nel contesto dei processi di globalizzazione, la riflessione teorica in ambito politico non poteva che salutare con favore la prospettiva del multiculturalismo, in primo luogo per l’ampliamento che esso comporta in relazione alla capacità inclusiva della politica liberale, proprio a partire dalla rilevanza delle identità. Le novità proposte dal multiculturalismo hanno infatti trovato buona accoglienza da parte di vari ambiti teorici, primi fra tutti gli studi di genere ma, dopo una fase iniziale di indiscussa concordia, la riflessione di Moller Okin, che qui si intende esaminare, ha contribuito a prendere le distanze dal multiculturalismo con una modalità che sembra essere assai più di una semplice, autorevole provocazione[1]. La tesi dell’autrice suona assai nitidamente: tra multiculturalismo e femminismo non c’è affatto comunanza di intenti, piuttosto il rischio di una divergenza strutturale e forse insanabile. La sintonia strategica tra le due riflessioni sarebbe insomma il frutto di uno sguardo troppo frettoloso, incapace di vedere al fondo delle dinamiche autoritarie e paternalistiche interne ai gruppi culturali, il cui esito nefasto trova nello spazio domestico e nella dimensione di genere la sua applicazione specifica.
A partire da quanto Charles Taylor aveva sostenuto sin dalle primissime pagine del saggio sul riconoscimento[2], sembrava che, così come per le culture minoritarie, anche per l’identità di genere il rischio fosse quello dell’oppressione conseguente al mancato riconoscimento o alla mancata valorizzazione. In tal modo l’alleanza tra questi due ambiti poteva concepirsi naturaliter in contrapposizione ad uno spazio pubblico poco ospitale e omologante, sia per chi intendeva affermare una diversità culturale, ancorché minoritaria, sia per chi voleva fermamente rifiutare qualsiasi prospettiva mimetica di inclusione. Inoltre, ponendo l’accento sul tema del misconoscimento e della possibilità che lo spazio pubblico rimandi agli attori un’immagine svalutativa, e sottolineando la possibilità, per gli individui, di interiorizzare la rappresentazione della propria inferiorità, il multiculturalismo offre alla critica femminista delle società patriarcali una molteplicità di argomentazioni preziose. Liberarsi da un’identità imposta dall’esterno, e per molti aspetti distruttiva del bisogno umano vitale di un riconoscimento in termini positivi, è anche per il genere un passaggio necessario per superare la rappresentazione della propria subalternità.
È esattamente l’ipotesi di una comune strategia che viene messa in discussione da Okin, in un modo che, pur suscettibile di modifiche, revisioni e correzioni, mantiene una validità sostanziale e apre a considerazioni, il cui valore travalica la stessa prospettiva indicata dall’autrice. Con scarsa capacità critica, sostiene Okin, si è proceduto a riconoscere diritti a quei gruppi che, abitando le nostre liberaldemocrazie, hanno richiesto trattamenti specifici in loro favore. Sotto accusa è, senza mezzi termini, la stessa riflessione di Will Kymlicka[3], il padre della cittadinanza multiculturale, che a parere di Okin avrebbe trascurato di prendere in esame il carattere patriarcale, autoritario e discriminante delle culture, dimenticando le difficoltà in cui versano, al loro interno, in modo particolare, donne e bambine.
Va innanzitutto sottolineato il fatto che, ancora una volta, la prospettiva di genere si sia dimostrata assai produttiva, capace di aprire nuove frontiere alla stessa riflessione teorico-politica contemporanea. Gli studi di genere hanno infatti ampiamente messo in luce il carattere di separatezza con cui la tradizione liberale interpreta la distinzione pubblico/privato. Da questo punto di vista, Okin non fa altro che applicare alle culture altre quella strategia di disvelamento che è stata in precedenza esercitata nei confronti della stessa tradizione liberaldemocratica e che ha mostrato le due modalità con cui il diritto si è posto in relazione alla famiglia. Sia quando il diritto ha considerato lo spazio domestico come spazio a sé, fuori dal controllo giuridico, sia quando ha contribuito a rinsaldare il potere patriarcale su mogli e figlie, in entrambi i casi lo spazio della famiglia si è conservato rispettivamente o come stato di natura o come regno della necessità e della physis[4]. Si è così proceduto a separare le due sfere, del pubblico da una parte e del privato dall’altra; una divisione che ha consentito di non pensare la famiglia come parte del mondo sociale e di isolarla dagli sviluppi di questo. Solo tramite la separazione l’incongruenza tra un mondo esterno che riconosce l’egualitarismo e uno spazio privato strutturato secondo condizioni palesemente diseguali poteva non creare problemi alla maggior parte dei teorici che giustappunto non assunsero la famiglia come ambito specifico della loro riflessione[5]. L’esaltazione del ruolo materno della donna serviva a rafforzare la strategia della privatizzazione della famiglia, separandola da quello spazio del mercato che soprattutto in seguito alla rivoluzione industriale si imponeva come ambito improntato ad un’etica individualistica. La famiglia, al contrario, si configurava come lo spazio del sacrificio di sé e della cooperazione, prodotti di un’etica altruistica capace di colmare le lacune conseguenti all’egoismo dei singoli.
Ciò detto, uno dei punti di maggiore interesse della riflessione di Okin è costituito senza dubbio dallo slittamento significativo che essa contribuisce a produrre nell’interpretazione del concetto di cultura. La cultura, infatti, non viene più definita, alla maniera herderiana, solo sulla base della lingua o della tradizione, bensì a partire dalle strette correlazioni che questa intrattiene con il genere, dalla sfera domestica alla definizione delle questioni relative a vita, morte, matrimonio, divorzio, sessualità. Ed è proprio la fruttuosa connessione tra la cultura e il prisma del genere che consente a Okin di procedere speditamente nella direzione della decostruzione del concetto di cultura; un’operazione gravida di conseguenze significative anche in ambiti che esulano da quello specifico del dibattito qui in esame. Accade di frequente, infatti, che l’ipotesi relativista, critica verso un universalismo dei diritti comune a tutte le culture, assuma una definizione monolitica di identità culturale, per nulla critica, che dà per scontato che tutti i soggetti in essa coinvolti siano liberamente ed equamente attori nello stabilire i valori e i principi che definiscono i tratti peculiari di quello specifico contesto[6]. Del resto, a conclusione della riflessione di Taylor, il dubbio che emergeva, a proposito della pur condivisibile critica alla tradizione liberale, era proprio relativo al rischio di vedere alfine configurato uno spazio pubblico composto da enclave culturali monadisticamente coesistenti e reciprocamente chiuse in se stesse. Ciò che in tale prospettiva rischia di venir perduto è, mi pare, uno dei nuclei peculiari della modernità: la capacità – da parte dell’individuo – di contestazione e di dissenso rispetto alle grandi istituzioni culturali, politiche e religiose. In altri termini, quella dimensione propria della modalità di costruzione dell’identità moderna che è la sua dimensione progettuale, elettiva, liberamente acquisita, in grado di mettere in atto un progetto identitario potenzialmente capace di affermare “un’identità contro”, di esprimere dissenso e, se necessario, defezione[7].
Tra le molte, possibili visioni di cultura, Okin sembra privilegiare un’opzione costruttivista che si differenzia dall’interpretazione della cultura come bene primario sostanzialmente stabile, in sintonia con quanto sostenuto da Charles Taylor[8]. La riflessione costruttivista definisce cultura l’insieme condiviso di significati sociali, quell’insieme di valori, principi, visioni del mondo che emergono dalle continue interazioni tra gli individui. Se la nazione stessa è una «imagined community», come ha sostenuto Benedict Anderson[9], anche la cultura appare come qualcosa di costruito, una sorta di artificio che perde quella connotazione biologico-naturalistica attribuitale dall’enfasi posta sulla dimensione etnica. Ne risulta che non solo si rende necessario lo slittamento che dalla cultura va alle culture, su sollecitazione del multiculturalismo, ma che le appartenenze culturali sono il frutto di complessi processi storici piuttosto che il risultato di statiche entità primordiali; ambiti spesso internamente contestati e continuamente rinegoziati, sia dai propri membri, sia dall’interazione reciproca tra i gruppi. Uno degli elementi che caratterizzano le culture è la loro permeabilità e l’ipotesi della “sopravvivenza garantita”, dal sapore biologico, sulla base della quale o le identità culturali vengono preservate nel loro complesso – una sorta di tutela della specie compiuta per via amministrativa – oppure vanno verso il definitivo collasso, non sembra affatto condivisibile.
Queste riflessioni, che ci forniscono utili elementi per interpretare le tradizioni culturali come insiemi internamente dinamici, presuppongono una definizione di cultura di tipo non essenzialistico, divergente rispetto all’immagine statica delle culture che è invece offerta dalla prospettiva del multiculturalismo, sia nella versione che di questo offre Taylor, sia in quella liberale riformulata da Kymlicka. La critica, del tutto opportuna, va allora rivolta a quel multiculturalismo a mosaico che, privilegiando un’interpretazione visiva, definisce le culture come entità dai confini certi e inequivocabili, che coesistono come tessere musive. All’ipotesi di un dialogo complesso tra le culture fa invece da sfondo l’immagine acustica di una continua interazione, e quindi creazione e ri-creazione, tra noi e l’altro. Gli individui stessi sono in costante, potenziale conversazione, e il modello di formazione dell’identità che fa da sfondo a tali riflessioni è essenzialmente un modello dinamico, sia a livello individuale che di gruppo, caratterizzato dall’autoascrizone volontaria e dalla libertà di associazione e di uscita dall’appartenenza[10].
Il rapporto che Okin intrattiene con la tradizione liberale è di conferma e di critica allo stesso tempo, e proprio in questa sua dimensione ambivalente verso il liberalismo esso mi pare essere condiviso da Martha Nussbaum, la cui riflessione si avvicina per molti aspetti alla prospettiva adottata da Okin[11]. Anche nella riflessione di Nussbaum, infatti, osservare le cose a partire dalle condizioni di dipendenza e di bisogno è un modo per ampliare lo sguardo di una teoria liberale talvolta angusta, incapace di cogliere le condizioni più autentiche della realtà interindividuale. La strategia di entrambe le autrici muove infatti dalla consapevolezza che partire dalla diseguaglianza per arricchire l’eguaglianza, mettere al centro la dimensione della dipendenza e del bisogno di cura serva a dar vita ad una teoria della giustizia più efficace ed inclusiva. Nussbaum e Okin sfidano le riflessioni più accreditate non solo analizzando il ruolo di chi prima era posto ai margini perché non rilevante – il genere –, ma decostruendo la stessa concezione di uguaglianza. Viene così meglio a delinearsi la responsabilità delle politiche pubbliche, alle quali viene affidato il compito di rimuovere gli ostacoli, soprattutto quando, come nel caso delle donne e delle bambine, la disabilità è costruita socialmente. Non vi è nulla nelle donne e nelle bambine che le renda meno capaci degli uomini, ma è la loro collocazione sociale e soprattutto familiare a limitare il loro sviluppo umano. L’incapsulamento familiare, il ruolo che viene loro assegnato, determina per le donne nella migliore delle ipotesi una sorta di cittadinanza pre-politica, che gli consente di divenire cittadine solo attraverso il filtro della condizione familiare, nella peggiore invece rende impossibile il loro sviluppo umano e il riconoscimento della loro dignità[12].
Per scalzare il carattere inglobante della dimensione collettiva o comunitaria, tanto l’approccio proposto da Okin quanto quello avanzato da Nussbaum sono decisamente orientati alla tutela dei diritti individuali, messi spesso in secondo piano proprio dalle politiche pubbliche di welfare destinate alla famiglia. La critica di fondo è qui rivolta a tutte quelle visioni della famiglia incapaci di pensare in modo storicamente condizionato la sua configurazione, in primo luogo la famiglia nucleare di tipo occidentale. È lo Stato che con le sue leggi definisce i confini delle molteplici relazioni familiari, determina la natura del matrimonio e del divorzio, dei rapporti tra coniugi e di questi con i figli. In tutto ciò non c’è nulla di naturale o di pre-politico, ed è perciò necessario che lo sguardo critico della teoria liberale non si arresti al piano della dimensione pubblica, ma guardi all’interno dei gruppi, all’interno della famiglia, negli ambiti privati tradizionalmente esclusi dall’analisi teorica. Nuovi spazi di riflessione si sono così aperti per le stesse teorie della giustizia, proprio grazie ad una prospettiva più sensibile rispetto al genere, che ha posto il tema della giustizia all’interno della famiglia al cuore della stessa riflessione liberale, e non più sullo sfondo, come è stato nella fase aurorale della modernità.
Da queste riflessioni emerge pertanto una versione del liberalismo più sensibile al bisogno e alla dipendenza, che pone all’attenzione della riflessione antropologica non solo la razionalità dell’individuo, ma la sua animalità, il suo essere dipendente e in costante relazione con gli altri. Strutturare una teoria a partire dai casi eccezionali, anziché dalla normalità, può rappresentare un considerevole vantaggio. Si tratta di un ampliamento dello sguardo che, tramite una maggiore attenzione al contesto, non si arresta al piano formale dell’uguaglianza o della diseguaglianza, ma sposta l’accento verso la dimensione assai più complessa e ambivalente delle discriminazioni indirette, degli stereotipi, della violenza simbolica, delle preferenze adattive.
Nonostante i molteplici meriti, sarebbe tuttavia un errore pensare che la riflessione di Okin sia esente da critiche significative, la maggior parte delle quali risultano provenire dalle nuove prospettive del femminismo non occidentale, ai cui occhi quella riflessione necessita di una significativa ridefinizione. In gioco è nientemeno che un’accusa di paternalismo etnicamente connotato, capace di giudicare in modo dinamico solo la cultura occidentale, e che finisce col relegare le altre culture in uno spazio immutabile e omogeneo, privo di conflittualità interna e di voci dissonanti[13]. La rappresentazione che Okin propone delle culture altre è tale che esse non sembrano avere tradizioni locali di protesta, né movimenti femministi autoctoni o autonome fonti di contestazione politica. Okin insomma getterebbe sulle culture non occidentali uno sguardo dall’alto e da lontano, dimostrando di avere qualcosa in comune nientemeno che con gli atteggiamenti patriarcali della sua stessa cultura di appartenenza. Strutturare la riflessione distinguendo in modo monolitico e semplicistico Occidente liberale e resto del mondo porta con sé una concezione statica delle culture minoritarie e le confina in un’ipotesi interpretativa che le rende incapaci di trasformazione interna e di modernizzazione.
Ciononostante, anche da queste critiche emerge la rilevanza, si potrebbe dire la non trascendibilità, della prospettiva individualistica. Se scegliamo di sostenere gli individui, gli uomini e le donne, abbiamo l’obbligo di essere dalla loro parte anche quando questi decidono di riformare la propria tradizione e cambiare il loro stile di vita, sebbene ciò possa comportare una rottura o un dissenso rispetto alla comunità di appartenenza. Solo assumendo il punto di vista degli individui si è in grado di liberarli dalle maglie spesso troppo avvolgenti della tradizione, dando voce alle forze riformiste che all’interno dei vari contesti cercano di uscire dalla subalternità. La cosiddetta “tesi presuntiva” espressa da Taylor in merito al riconoscimento, che si deve a tutte le culture, potrebbe trasformarsi in una spinta conservatrice, a danno delle libertà degli uomini e delle donne di esprimere distacco, dissenso e talvolta rifiuto nei confronti dei valori e dei principi che contribuiscono a definire le loro identità.
Occorre tuttavia precisare che la prospettiva individualistica non dovrebbe essere una riproposizione sic et simpliciter del vecchio individualismo liberale, ma dovrebbe bensì condurre l’analisi verso un “nuovo individualismo”, critico e ridefinito tramite modalità intersoggettive, ma senza adottare un “contromodello antiliberale”[14]. Andare oltre le premesse individualistiche del moderno sistema dei diritti rischierebbe infatti di schiacciare gli individui, privi dell’arma del dissenso e della contestazione, nelle pesanti reti della tradizione politica, culturale o religiosa. Il daltonismo del liberalismo formalistico, che concepisce le identità individuali come monadi, avrebbe insomma capacità auto-correttive, che non rendono necessario il superamento del paradigma individualistico della tradizione liberale, a favore del riconoscimento di identità di gruppo che potrebbero mettere a rischio la libertà dei singoli. Il nucleo di queste riflessioni potrebbe perciò riassumersi nel tentativo di rendere il liberalismo più ospitale verso la diversità culturale, senza rinunciare alla sua vocazione libertaria e individualistica, di critica e di dissenso nei confronti delle molteplici forme del potere, rafforzando la capacità di azione degli uomini e delle donne che, kantianamente maggiorenni, potrebbero scegliere in autonomia le proprie appartenenze. La configurazione dello spazio pubblico dovrebbe, perciò, semplicemente rendere possibile la coesistenza e la riproduzione delle diverse identità culturali e dei mondi di vita, senza sottrarre ai partecipanti l’esercizio dell’adesione riflessiva, lasciando sia ad essi che ai discendenti la possibilità di apprendere anche da tradizioni culturali diverse.

E-mail:

[1] S. MOLLER OKIN, Diritti delle donne e multiculturalismo, Raffaello Cortina Editore, Milano 2007.
[2] CH. TAYLOR, La politica del riconoscimento, in J. HABERMAS, CH. TAYLOR, Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento, Feltrinelli, Milano 1998.
[3] W. KYMLICKA, La cittadinanza multiculturale, il Mulino, Bologna 1999.
[4] La riflessione di S. Moller Okin su questo tema è contenuta nel suo importante lavoro sulla famiglia: Le donne e la giustizia. La famiglia come problema politico, Dedalo, Bari 1999.
[5] Su questo tema mi permetto di rinviare al mio: Stato di diritto e differenza di genere, in D. ZOLO, P. COSTA (a cura di), Lo Stato di diritto. Storia, teoria, pratica, Feltrinelli, Milano 2002.
[6] In merito al dibattito tra universalismo e relativismo si veda F. TEDESCO, Diritti umani e relativismo, Laterza, Roma-Bari 2009.
[7] Per una rivisitazione critica del multiculturalismo in chiave identitaria si veda B. HENRY, A. PIRNI, La via identitaria al multiculturalismo, Rubbettino, Soveria Mannelli 2006.
[8] Su questo tema si vedano: S. SONG, Justice, Gender and the Politics of Multiculturalism, Cambridge University Press, Cambridge 2007; A. PHILLIPS, Multiculturalism without Culture, Princeton University Press, Princeton 2007.
[9] B. ANDERSON, Comunità immaginate. Origini e diffusione dei nazionalismi, Manifestolibri, Roma 1991.
[10] Insiste su questi ultimi aspetti S. BENHABIB, La rivendicazione dell’identità culturale. Eguaglianza e diversità nell’era globale, il Mulino, Bologna 2005.
[11] Si tenga almeno presente M. NUSSBAUM, Giustizia sociale e dignità umana, il Mulino, Bologna 2002.
[12] Sviluppa in modo convincente questi argomenti C. SARACENO, Introduzione a M. NUSSBAUM, Giustizia sociale e dignità umana, cit.
[13] Si muovono in questa direzione anche le riflessioni di Homi K. Bhabba e Bhikku Parekh, entrambe contenute in S. MOLLER OKIN, Diritti delle donne e multiculturalismo, cit.
[14] Su questo specifico aspetto, relativo alla ricerca di un nuovo individualismo, comunque interno alla tradizione liberale, si veda J. HABERMAS, Lotta di riconoscimento nello stato democratico di diritto, in J. HABERMAS, CH. TAYLOR, Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento, cit. e G. MARRAMAO, La passione del presente, Bollati Boringhieri, Torino 2008.
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