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Il governo della paura nell'epoca globale*

Maria Laura Lanzillo

Io sono il ministro della Paura e, come ben sapete, senza la paura non si vive! Una società senza paura è come una casa senza fondamenta: per questo io ci sarò sempre nel mio ufficio bianco, con la mia scrivania bianca di fronte al mio poster bianco... Aah che paura!
Ci sarò sempre con i miei attrezzi del lavoro, la mia pulsantiera, pulsante giallo, pulsante arancione, pulsante rosso rispettivamente poca paura, abbastanza paura, paurissima.
E seguendo correttamente questo stato d'animo io aiuto il mondo a mantenere ordine.
Antonio Albanese, Il ministro della paura


Quando Antonio Albanese decide di fare satira politica ogni sabato sera in TV attraverso la maschera grottesca e ributtante del ministro della paura. Quando lo slogan delle proteste studentesche dell’autunno 2008 è “noi non abbiamo paura”, con una ripresa del titolo di un fortunato romanzo di Niccolò Ammaniti. Quando uno dei topics individuati dalla Commissione Europea quale input per la costruzione di progetti di ricerca europei nell’ambito del VII Programma Quadro è Security. Quando grande parte della discussione scientifica propria delle scienze umane e delle scienze sociali del nostro tempo dibatte attorno ai temi della paura, dell’insicurezza individuale e collettiva e della richiesta di sicurezza che sembra essere avanzata agli attori istituzionali ad ogni livello[1], diventa allora evidente che il tema della paura, della sua percezione, dell’uso che ne può essere fatto, delle risposte che alla sfida della paura possono essere offerte (sicuritarie, immunitarie, comunitarie, politiche, sociali, religiose, economiche, ecc.), ha ripreso il centro dell’attenzione dell’opinione pubblica e del dibattito scientifico. Come insegna la teoria degli atti linguistici di Austin[2], il linguaggio è anche un modo di agire e non solo un veicolo di trasmissione di informazioni, con il linguaggio si compiono azioni e ciò significa che anche con il linguaggio si indirizzano i comportamenti individuali e sociali. Parlare di paura ossessivamente, affermare in ogni ambito che il problema principale è la sicurezza, sostenere che entrambe sono questioni né di destra né di sinistra, produce una rappresentazione paranoica del nostro presente in cui la realtà risulta percepita quasi esclusivamente lungo l’asse paura-sicurezza. E il discorso sulla paura nel momento in cui viene pronunciato si fa performativo. Si innesca così un circolo vizioso: il discorso sulla paura rende reale la paura, la paura indotta struttura la società e la politica non può che raccogliere la nuova sfida che il presente le impone. Dunque, di nuovo, nel XXI secolo e a tre secoli e mezzo dalla originaria riflessione hobbesiana sulla paura (la prestazione che, non va dimenticato ai fini del nostro discorso, inaugura la modernità politica) ci troviamo a fare i conti con la questione del governo della paura.
Una questione non nuova, anzi seminale per il discorso della modernità politica occidentale e che ne costituisce gli attori politici (in primis lo Stato e i cittadini); e tuttavia una questione che oggi – ed è questa la radicale differenza a mio parere rispetto all’epoca di Hobbes e alla modernità in generale – muta di segno al punto che la paura che si pone come genitivo del governo è da intendersi non solo e non più come genitivo oggettivo (il governare la paura), quanto soprattutto come genitivo soggettivo (la paura che governa le decisioni politiche, la paura che lungi dall’essere esclusa e neutralizzata dall’ordine politico così come aveva promesso l’ideologia moderna, se ne è fatta sovrana assoluta).
 
1. Il rinnovato interesse per la passione della paura, e per il valore ermeneutico delle società contemporanee che essa sempre più sta assumendo (dalla paura del terrorismo alla paura dell’uso dell’arma nucleare, dalla paura per l’ambiente alla paura provocata dall’insicurezza sociale, dalla paura del futuro delle giovani generazioni alla paura della morte che orienta la ricerca medico-biologica e il dibattito etico, dalla paura per la crisi finanziaria alla paura dell’immigrato, ecc.)[3], si inserisce all’interno della più vasta attenzione che da alcuni decenni viene rivolta al ruolo cognitivo e comunicativo delle passioni soprattutto sul piano politico e sociale, interesse che determina il superamento della tradizionale dicotomia passioni/ragione nella definizione della politica[4]. All’interno di questo quadro rinnovato interesse viene riservato alla riflessione sui concetti di paura, rischio, sicurezza come nuclei fondanti i metodi di convivenza e di governo delle società occidentali.
Nel seguire la sempre più vasta produzione scientifica su questi temi così come anche nello sfogliare quotidianamente i giornali o ancora nel partecipare ai discorsi che ognuno di noi scambia quotidianamente con i propri colleghi di lavoro, amici e familiari, sembra di essere ripiombati in quella situazione in cui Thomas Hobbes raccontava di essere nato e cresciuto quando nella Vita carmine expressa, la sua autobiografia di cui la prima redazione è del 1672, si racconta come “nato gemello alla paura”, riferendosi al terrore provato dalla madre all’approssimarsi della Invencible Armada alle coste inglesi e che la fece partorire prematuramente. Vero o falso che fosse l’episodio, il racconto hobbesiano è carico di simbologia politica: l’individuo moderno non nasce da solo, ma nasce in coppia e il suo doppio (il gemello) è la paura. La metafora hobbesiana se da un lato rivelava l’ambiente politico e sociale, quello della prima rivoluzione inglese, nel quale erano state elaborate le sue opere politiche (il De Cive e il Leviatano), dall’altro era funzionale alla comprensione del perché l’architettura dell’artificio statuale, l’originaria decisione politica per l’ordine, fosse stata giustificata a partire dalla passione della paura. Nell’elaborazione del paradigma politico della modernità la paura diventa così snodo centrale, passione sia originaria e razionale che spinge all’uscita dallo stato di natura (dove la paura determinata dall’insicurezza per la propria sopravvivenza diventa insopportabile) sia che deve essere esorcizzata al punto da sacrificare ad essa tutta la propria libertà (il diritto di natura hobbesiano) per affidarsi alla decisione sovrana per l’ordine politico che con la costruzione del grande Leviatano, figura dello Stato, sola può garantire la sicurezza. Proprio la filosofia hobbesiana rappresenta allora il momento che lega indissolubilmente l’ordine politico moderno alla paura; un legame forte perché duplice: da un lato lo Stato da Hobbes in poi verrà rappresentato come quell’ordine artificiale che salva l’individuo dalla paura della morte e dall’insicurezza della sua esistenza naturale promettendogli un futuro di vita e sicurezza a prezzo –lo si sottolinea di nuovo – della perdita della libertà naturale e della coazione all’obbligazione politica; dall’altro il potere politico prende le forme del Leviatano, il grande uomo raffigurato nel frontespizio dell’omonima opera hobbesiana[5], un uomo che è rappresentato come mostruoso e dunque che, come scrive Hobbes, incute terrore, a testimoniare fin dal suo momento aurorale l’uso politico, istituzionalizzato, della paura che il pensiero della sovranità statuale farà.
Dunque, la percezione del rischio a cui è esposta la nuda vita dell’uomo produce una richiesta di sicurezza, che viene soddisfatta dalla politica con la costruzione dell’artificio statuale, che riveste l’individuo dell’abito “sicuro” del cittadino e si configura pertanto come il luogo della neutralizzazione razionale delle passioni o, anche, dell’uso ragionevole delle passioni umane.
 
«Per mezzo di questa autorità datagli da ogni particolare nello stato, è tanta la potenza e tanta la forza che gli [al Leviatano] sono state conferite e di cui ha l’uso, che con il terrore di esse è in grado di informare le volontà di tutti alla pace interna e all’aiuto reciproco contro i nemici esterni» (Leviatano, II, XVII):
 
è in questo passaggio del Leviatano che si può identificare il luogo originario in cui la coscienza moderna fonda la necessità del potere politico, vale a dire la necessità di un potere terrificante (è lo stesso Hobbes che sottolinea il terrore che tale potere incute) che si manifesta sotto la forma dell’artificio rappresentativo della sovranità; vale a dire la necessità di un potere che rappresenti la volontà umana resa pura dalle passioni violente, e liberata quindi anche dalla paura che l’ambiente naturale incute. Un potere che d’ora in poi appare come la necessità di una forza dirompente, che assomma su di sé tutta la violenza naturale, rimanendone così l’unico depositario e costituendo un ordine finalmente pacificato, cioè razionale, e tuttavia fondato sulla paura dell’enorme potenza del Leviatano. Un potere, quello statuale, che se nella sua versione hobbesiana si autolegittima nella garanzia della sicurezza della vita che l’obbedienza alla sovranità promette, in quella lockiana trova la propria legittimazione nella sicurezza che offre alla property, di sé e dei beni che il sé produce, che l’insicurezza dello stato di natura così come descritto nel Secondo trattato sul governo invece non assicura. Un potere che produce il passaggio dalla paura dell’incertezza, che abita lo stato di natura e che provoca angoscia, alla certezza della paura della sanzione e della legge (una paura che ora però è razionale e che quindi si riconfigura come paura positiva, prodotto di una volontà rappresentativa di tutto il corpo politico che ordina lo Stato, che si connota allora come ordine della sicurezza e della certezza).
La paura, il rischio della morte, la diffidenza nei confronti dell'“altro”, di ciò che si oppone e quindi genera inquietudine e insicurezza, connotano tanto il modello politico razionalistico giusnaturalista, che pensa lo Stato come una costruzione artificiale, quanto quello dialettico hegeliano, che pone, come ha dimostrato Kojève[6], la lotta e la morte, con la figura centrale della Fenomenologia dello Spirito della lotta per il riconoscimento fra il servo e il signore e la paura della morte, quale snodo centrale sia nel processo di formazione dell'autocoscienza sia nel riconoscimento reciproco degli Stati quali “totalità etiche”. Il pensiero politico moderno, che pure si fonda sulla ricerca di una pacifica e stabile convivenza fra gli uomini, sulla necessità di ordinare il caos della natura, risulta allora percorso lungo tutto l’arco del suo sviluppo dal rapporto con la violenza, con l’abisso: rapporto che viene di volta in volta celato (ed è il caso delle ideologie liberali) o svelato nella sua radicalità (Hobbes, Hegel e, evidentemente, Nietzsche), e che, tuttavia, rimane l’infondato rapporto fondante di tutta la costruzione statuale moderna, il cui spazio politico, in quanto spazio che si autolegittima come spazio di sicurezza, è fondato sull’esclusione dell’originaria molteplicità passionale degli individui che, come insegna Freud, perturba, fa paura, provoca insicurezza[7].
 
2. E oggi? La fine del “dopo ‘89” e dell’illusione di un mondo pacificato nell’affermazione entusiasta della fine della storia, che doveva essere segnata dalla vittoria delle liberal-democrazie, dalle magnifiche sorti progressive del capitalismo e dell’economia di mercato capace – dopo la caduta del colosso sovietico – di regalare prosperità, se non anche felicità, a tutti; le nuove legiferazioni restrittive sui diritti civili che contraddistinguono le democrazie occidentali attuate sulla base del principio della sicurezza così come la produzione di norme e regolamenti sulla sicurezza delle città o degli ambienti di lavoro; il radicalizzarsi del dibattito politico (sia teorico sia a livello di politiche pubbliche nazionali o internazionali che siano) intorno a opposti poli: sirene identitarie vs. realtà multiculturali, secolarizzazione vs. fondamentalismi, scontro di civiltà vs. contaminazione fra civiltà, libertà vs. sicurezza, contribuiscono tutti a creare quel clima di insicurezza che destabilizza il nostro presente nel momento in cui la finzione rappresentativa su cui si era costruita la nostra forma politica rivela tutta la propria artificialità e il sipario inizia a strapparsi mostrando il buio, il vuoto, la paura, la morte che celava. Come ha scritto Zygmunt Bauman nelle prime pagine di Paura liquida, «la modernità doveva essere un grande balzo in avanti: via dalla paura, verso un mondo liberato dal fato cieco e imperscrutabile, che è la serra di tutte le paure. […] Quella che doveva essere una via di fuga si è rivelata invece una lunga deviazione. […] La nostra è, ancora una volta, un’epoca di paure»[8]. Un’epoca di paure che sembra invadere tutti gli ambiti della nostra esistenza e che rischia di essere ancora più angosciante della paura moderna da cui eravamo fuggiti, perché più impalpabile, anonima, meno evidentemente circoscrivibile e localizzabile (si pensi alle paure globali prodotte dal terrorismo o dallo spaesamento proprio della compressione spazio-temporale della globalizzazione così come dai rischi di epidemie virali o dai cambiamenti climatici, tutti fenomeni che non hanno un luogo sicuro di manifestazione) e dunque meno controllabile e disciplinabile, foriera di un’insicurezza angosciante[9].
Il ritorno della paura come elemento costituente la percezione delle relazioni sociali, dell’ambiente che ci circonda, del futuro, segnala di nuovo, come all’epoca di Hobbes, che un orizzonte politico e epistemologico è in profonda crisi. Segnala cioè che oggi stiamo assistendo alla crisi di un intero orizzonte lessicale e concettuale, che disvela il proprio peccato originale, quella ricerca vertiginosa dell'unità assoluta, a cui la teoria e la pratica del potere in epoca moderna e contemporanea avevano ambito. La mondializzazione del mondo stesso, la sua riduzione a nulla più che mondo, la spazialità liscia della globalizzazione, rivelano la hybris implicita nella realizzazione di una forma teorica e politica di ordine (quello moderno) che si è pensata e costruita, attraverso le forme della politica e della scienza moderna fattasi tecnica, come assolutamente autogenerantesi, immune e autoimmunizzata dall'altro, ma che aveva nel proprio dna anche la possibilità della generazione – che emerge oggi con drammatica evidenza – della propria lacerazione violenta, a cui lo Stato, che doveva avere una funzione di protezione e garanzia di sicurezza, non riesce ad opporre risposte efficaci[10].
Ciò che riaffiora nelle pieghe del nostro presente drammatico è la questione dell’alterità, della duplicità, di ciò che si oppone all’unità, questione sempre presente alla riflessione politica, ma sempre obliata, velata, celata, o al più sottoposta a meccanismi di controllo e disciplinamento, come insegna la lezione foucaultiana. Al fine di governarla, dal XVII secolo a oggi, all’alterità, alla duplicità che resisteva al progetto moderno della sicurezza rifiutandosi di farsi assimilare all’unità della forma politica, sono state date sembianze diverse (la moltitudine di natura, i poveri, le donne, il proletariato, les classes dangereuses, i neri, i rom, gli immigrati, gli Stati-canaglia…), ma sempre con un connotato comune: sono rappresentazioni della diversità che hanno provocato e provocano paura, diffondono una sensazione di insicurezza. Una questione che la filosofia da Parmenide a oggi ha costantemente tentato di risolvere, ma che costantemente riappare: la storia della filosofia politica ci racconta che tale questione attraversa in modo carsico tutte le teorie politiche prodotte nel corso della storia dell’Occidente, riemergendo con evidenza e violenza nei momenti di crisi e di rottura; un problema inquietante che si è cercato di risolvere attraverso il suo depotenziamento, la sua neutralizzazione e razionalizzazione, attraverso processi di inclusione, riconoscimento e disciplinamento (l’estensione della cittadinanza e l’allargamento dei diritti a sempre più gruppi di individui sono certamente una delle manifestazioni più alte e più produttive di questa volontà di riduzione e neutralizzazione dell’alterità che inquieta).
Pratiche politiche che oggi, nell’epoca globale, quando la paura sembra farsi globale, quando la percezione è di vivere nella «società del rischio» definita da Beck[11], si scoprono tragicamente inefficaci nel produrre quell’ordine e quella sicurezza per cui erano state progettate e la politica, in difficoltà e afasica di fronte a questa nuova sfida, sembra avere solo una risposta da offrire, la guerra, la violenza, continua, ossessiva, indiscriminata e, ormai, “normale” e normalizzata contro tutto ciò che fa paura. Rivelando, così, non solo la propria incapacità pratica, ma anche la propria «lacuna concettuale» di fronte al battere dell’orologio della storia. Guerra globale alla paura globale in nome della sicurezza globale e delle sicurezze individuali. Ma di quale sicurezza stiamo parlando? Della sicurezza del governo della paura (della paura che governa)? Di quella sicurezza che Arjun Appadurai ha definito «sicurezza di morire»[12]? Se prestiamo ascolto ai discorsi che attraversano la politica internazionale così come le politiche nazionali, allora la risposta non può che essere affermativa: sì, ci attende un futuro in cui la convivenza fra gli individui viene ridisegnata sulla base di uno scontro fra gruppi (individuati non importa in quale modo, per appartenenza nazionalista, etnica, razziale o religiosa che sia[13]) e quella che era la nostra origine (la paura che innerva lo stato di natura), il nostro passato, sembra diventare il nostro futuro: la sicurezza della paura.
 
«Ciascuna delle parti alimenta la paura, la passione, lo zelo e la durezza dell’altra. Ciascuna conferma le peggiori paure dell’altra e dà consistenza ai suoi pregiudizi e odi. Racchiuse insieme in una sorta di versione liquido-moderna della dance macabre, le due parti non concederanno mai allo spettro dell’assedio un momento di riposo»[14].
 
Un futuro che è già presente quando le pagine e le immagini che strutturano la percezione del nostro vivere quotidiano sono percorse dalla violenza sui corpi, martoriati, torturati, violentati, bruciati, decapitati, donne sventrate, bambini squarciati e mutilati, umiliazioni sessuali di tutti i generi. Uno scontro che non a caso si gioca anche a partire dalla disputa sul corpo, di cui quello femminile diventa immagine suprema e simbolica di quel controllo totale della vita a cui aspira il potere in Occidente, hybris che si manifesta nella distruzione del corpo dell’altro, come affermazione di sé nelle guerre o nell’uso della vita come dose di esplosivo nel kamikaze, come anche nella retorica securitaria e biopolitica che struttura le decisioni dei governi e disciplina la paura del corpo, quale evidenza di quella naturalità che la decisione moderna per la politica aveva pensato di fuggire. Come ha notato Elena Pulcini[15], due sono gli atteggiamenti che questa nuova epoca di paura produce: consci dell’improduttività di quegli strumenti che avevamo escogitato per esorcizzare la paura, vale a dire la politica e la tecnica, assistiamo come spettatori attoniti agli eventi minacciosi che sembrano incombere su di noi, a cui rispondiamo o con un «individualismo difensivo e apatico» o con un «comunitarismo tribale», atteggiamenti opposti e coincidenti ad un tempo, poiché entrambi mettono a repentaglio quell’obiettivo di autoconservazione, che era l’obiettivo dell’ordine politico moderno[16].
«Una società senza paura è come una casa senza fondamenta»: così recita il ministro della paura di Antonio Albanese che grazie a una maschera grottesca svela il volto paranoico e patologico della politica dell’epoca globale, poiché la politica assume oggi un ruolo autoritario, cercando ancora una volta di «porsi come garante della vita senza tuttavia essere più in grado di tutelarla»[17]. La paura dell’epoca globale non è più una passione razionalizzabile, una «potenza politicamente produttiva»[18] , ma si mostra solo con un potenziale intimidatorio, di violenza, paralizzante di ogni capacità di azione da parte degli individui, capacità che invece, come ha insegnato Hannah Arendt, è capacità di libertà[19]. Ed allora per provare a pensare e ad agire oltre la spirale della paura, per cercare di sottrarsi all’asse paura-sicurezza che ogni giorno di più stritola la nostra esistenza e inibisce la nostra capacità di agire nello spazio politico comune nel quale abitiamo, si può provare a percorrere la direzione indicata da Arendt, iniziare a praticare quella particolare passione che già Tocqueville aveva definito come la passione della libertà. Perché
 
«l'uomo non “possiede” la libertà in quanto egli stesso, o meglio il suo venire al mondo, è equiparato all'apparire della libertà nell'universo; l'uomo è libero perché è un inizio, così creato quando l'universo esisteva già: “(initium) ut esset, creatus est homo ante quem nemo fuit” […] e proprio in quanto è un inizio, l'uomo può dare inizio a cose nuove: umanità e libertà coincidono. Dio ha creato l'uomo per introdurre nel mondo la facoltà del dare inizio: la libertà»[20] .
 
Una libertà non intesa come la libertà hobbesiana, vale a dire liberazione dalle passioni in nome della sicurezza e dell’ordine, o quella lockiana, garanzia della proprietà privata e dunque della possibilità di fuggire dalla politica, il luogo pubblico per eccellenza, grazie alla delega rappresentativa; ma una libertà che si configura come virtù eminentemente politica, che agisce nella dimensione relazionale della sfera pubblica, che è manifestazione della possibilità di dare inizio al nuovo, poiché espressione di un’istanza di desiderio dell’essere umano che non lo rinchiude nel privato e lo paralizza atterrito, ma al contrario lo mette in relazione con gli altri nella dimensione dello spazio pubblico.

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*Questo saggio fa parte di un più ampio progetto di ricerca dal titolo «Governare la paura», finanziato nell’ambito dei Progetti strategici dall’Università di Bologna, che coinvolge un gruppo di giovani ricercatori dell’ateneo di Bologna e di cui Maria Laura Lanzillo è la responsabile scientifica (www.governarelapaura.it).
[1] Cfr. come primo riferimento i recenti volumi, nonché la bibliografia ivi contenuta, Z. BAUMAN, Paura liquida, Laterza, Roma-Bari 2008; L. SVENDSEN, A Philosophy of Fear, Reaktion Books, London 2008; J. BOURKE, Paura. Una storia culturale, Laterza, Roma-Bari 2007; F. CERUTTI, Global Challenges for Leviathan. A Political Philosophy of Nuclear Weapons and Global Warming, Rowman&Littlefield, Lanham 2007; G. SILEI, Le radici dell’incertezza. Storia della paura tra Otto e Novecento, Piero Lacaita Editore, Manduria-Bari-Roma 2008; R. ESCOBAR, Metamorfosi della paura, Il Mulino, Bologna 20072; F. BILANCIA, F.M. DI SCIULLO, F. RIMOLI (a cura di), Paura dell'Altro. Identità occidentale e cittadinanza, Carocci, Roma 2008; “Paradoxa”, gennaio-marzo, n. 1, 2008, numero monografico dedicato alla paura; A. CAVARERO, Orrorismo ovvero della violenza sull’inerme, Feltrinelli, Milano 2007; M. CARBONE, Essere morti insieme. L’evento dell’11 settembre 2001, Bollati Boringhieri, Torino 2007; F. BENIGNO, L. SCUCCIMARRA, Il governo dell’emergenza. Poteri straordinari e di guerra in Europa tra XVI e XX secolo, Viella, Roma 2007.
[2] Cfr. J.L. AUSTIN, Come fare cose con le parole: le William James lectures tenute alla Harvard University nel 1955, Marietti, Genova 1988.
[3] Cfr. C. ROBIN, Paura. La politica del dominio, Università Bocconi Editore, Milano 2005; “Paradoxa”, cit.
[4] Cfr. P. COSTA, Inche senso l’uomo è per natura un animale politico?, in Seminario di Teoria critica, Che cos’è la politica?,Meltemi, Roma 2008, pp. 209-225; A.O. HIRSCHMAN, Le passioni e gli interessi. Argomenti politici in favore del capitalismo prima del suo trionfo, Feltrinelli, Milano 1979; P. BARCELLONA, Politica e passioni, Bollati Boringhieri, Torino 2007; E. PULCINI, L’individuo senza passioni. Individualismo moderno e perdita del legame sociale, Bollati Boringhieri, Torino 2001; Id., Passioni e politica, in Seminario di Teoria critica, Che cos’è la politica?,cit., pp. 99-120; M. WALZER, Ragione passione. Per una critica del liberalismo, Feltrinelli, Milano 2001; M. NUSSBAUM, L’intelligenza delle emozioni, Il Mulino, Bologna 2004.
[5] Sulla raffigurazione della mostruosità del Leviatano e sulla sua iconografia cfr. H. BREDEKAMP, Thomas Hobbes der Leviathan. Das Urbild des modernen Staates und seine Gegenbilder (1651-2001), Akademie, Berlin 20063.
[6] Cfr. A. KOJÈVE, La dialettica e l’idea della morte in Hegel, Einaudi,Torino 19912.
[7] Cfr. R. ESCOBAR, Metamorfosi della paura, cit.
[8] Cfr. Z. BAUMAN, Paura liquida, cit.
[9] Cfr. Z. BAUMAN, La solitudine del cittadino globale, Feltrinelli, Milano 2000.
[10] Cfr. C. GALLI, Modernità della paura. Jonas e la responsabilità, in “il Mulino”, n. 2, 1991, pp. 185-193.
[11] Cfr. U. BECK, La società del rischio, Carocci, Roma 2000.
[12]Cfr. A. APPADURAI, Sicuri da morire. La violenza nell’epoca della globalizzazione, Meltemi, Roma 2005.
[13] Cfr. J.T. LEVY, The Multiculturalism of Fear, Oxford University Press, Oxford 2000.
[14] Z. BAUMAN, Paura liquida, cit., p. 153.
[15] E. PULCINI, Paura globale. Trasformazioni della paura nell’età della globalizzazione, in S. MAFFETTONE, G. PELLEGRINO (a cura di), Etica delle relazioni internazionali, Marco Editore, Lungro di Cosenza 2004, pp. 91-110.
[16] Ivi, p. 100.
[17] E. PULCINI, Passioni e politica, cit., p, 115.
[18] R. ESPOSITO, Communitas. Origine e destino della comunità, Einaudi, Torino 1998, p. 7.
[19] Cfr. H. ARENDT, Vita Activa, Bompiani, Milano 2005.
[20] H. ARENDT, Tra passato e futuro, Garzanti, Milano 1991, p. 222.
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