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I diritti umani in Cina

Renzo Cavalieri

1. Diritti umani e diritti soggettivi

Fino agli anni ottanta, in Cina l’espressione diritti umani (renquan) veniva usata dal linguaggio ufficiale in senso spregiativo, per definire una creazione ideologica e retorica elaborata nell’ambito della società capitalistica occidentale al fine di mascherare lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Ancora nel 1979, sul settimanale in lingua inglese Beijing Review si potevano leggere frasi come questa: «I diritti umani, così come affermati dalla borghesia, sono universali sono nella forma; si sostiene che siano destinati a tutti gli uomini, mentre non possono esserlo. Sono solo i diritti della borghesia».
Con la riforma, ma soprattutto dopo i fatti di Tiananmen (1989) e le conseguenti proteste internazionali, la situazione è radicalmente mutata. Pur denunciando le “interferenze estere” negli affari interni cinesi, la dottrina giuridica e le fonti politiche hanno cominciato a occuparsi sempre più attivamente della questione dei diritti umani, nel duplice tentativo di dare una risposta a un bisogno ormai divenuto reale della società cinese e di elaborare un’ideologia alternativa a quella occidentale.
Tale processo ha avuto il suo apice il 14 marzo 2004, con la modifica dell’art. 33 della Costituzione, al quale è stato aggiunto un comma che per l’appunto recita: «Lo Stato rispetta e protegge i diritti umani». Nel frattempo, la Cina ha aderito ai due Covenants delle Nazioni Unite sui diritti economici, sociali e culturali (1997) e su quelli civili e politici (1998) -di cui tuttavia solo il primo è stato ratificato nel 2001- e a numerose altre importanti convenzioni internazionali riguardanti materie politicamente delicate, quali quella sulla tortura, quella sui diritti dei minori e alcune di quelle predisposte dalla International Labour Organization sui diritti dei lavoratori, impegnandosi a riformare anche settori ideologicamente molto delicati del diritto interno. Ed ha avviato un serio e costante confronto su questi temi, sia sul piano interno sia con le organizzazioni internazionali, con gli stati e con numerose organizzazioni non governative straniere.
Tale percorso di riconoscimento interno e internazionale riflette quello che è stato compiuto nel medesimo periodo dalla più generale nozione di diritto soggettivo (quanli): più che altrove, cioè, in Cina prima ancora di parlare di diritti umani -ossia dei diritti fondamentali inviolabili- è necessario parlare di diritti tout court.
Tutti i diritti soggettivi, infatti -non soltanto quelli fondamentali, ma anche quelli personali e patrimoniali considerabili in qualche modo minori- presentano una caratteristica comune: sono tali soltanto se l’ordinamento garantisce ad essi una tutela giuridica. Non si può dunque parlare di diritti né di diritti umani laddove non vi sia un apparato istituzionale, fatto di norme, di tribunali e di giuristi tecnici (nel duplice senso di professionisti e studiosi del diritto), che li protegga, delimitandone i confini e sanzionandone le violazioni.
Ora, è opportuno ricordare che per la Cina la tutela giuridica dei diritti, fondamentali o meno che siano, è un fenomeno recentissimo, che risale al massimo a una trentina di anni fa. È vero che negli anni cinquanta, agli albori della Repubblica Popolare Cinese, era stato istituito un apparato giuridico moderno di stile sovietico, ma l’esperimento durò poco: dall’inizio degli anni sessanta sino alla fine degli anni settanta, ossia per tutta l’epoca del radicalismo maoista, la Cina fu un paese privo di leggi e di legalità. Il parlamento sospese le sue attività nel 1964 e le riattivò soltanto undici anni dopo, nel 1975. In quel lungo lasso di tempo non si approvò dunque nemmeno una atto normativo: in Cina allora le leggi erano il libretto rosso delle citazioni di Mao, i proclami del partito, gli editoriali del “Quotidiano del Popolo”. Anche i tribunali cessarono di operare all’inizio degli anni sessanta e per quasi un decennio l’attività giurisdizionale venne svolta in modo totalmente arbitrario dalle guardie rosse e dai loro comitati rivoluzionari. Giudici, avvocati e professori di materie giuridiche furono inviati in remote campagne a rieducarsi allo spirito comunista per mezzo del lavoro manuale. Le nozioni stesse di legalità e di diritto furono ferocemente criticate come residui della cultura controrivoluzionaria.
Non che si disconoscesse l’esigenza di una tutela degli interessi dei singoli e degli enti (tutti pubblici), ma tale tutela aveva natura eminentemente politica e non giuridica. “La politica al primo posto” era lo slogan per eccellenza di quegli anni: non erano i giuristi a doversi occupare dell’elaborazione e dell’applicazione delle regole della convivenza socialista, ma il popolo stesso, naturalmente guidato dal partito comunista.
Allora non si parlava quasi di diritti e se lo si faceva era generalmente per smascherare il carattere retorico dell’ideologia capitalistica. L’unico diritto formalmente riconosciuto a quei tempi ai cittadini cinesi era quello di “appoggiare la guida del partito”.
Una delle implicazioni più importanti dell’avvio della riforma economica fu proprio la rivalorizzazione dell’apparato giuridico formale dopo quelli che i cinesi oggi definiscono “i dieci anni di disordine”. Nel momento in cui, nel dicembre del 1978, il partito comunista decise di abbandonare la pianificazione economica centralizzata, di iniziare una graduale liberalizzazione e privatizzazione dell’attività produttiva e di ammettere l’ingresso sul territorio nazionale di investimenti esteri privati, dovette anche necessariamente intraprendere una completa revisione del suo atteggiamento nei confronti del diritto e delle istituzioni formali dello stato. La politica del partito, dissero allora gli ideologi della riforma, deve diventare politica dello stato e manifestarsi nella società per mezzo delle leggi dello stato.
Da quel momento sino ad oggi, il nuovo legislatore cinese ha innestato progressivamente nell’ordinamento -prima con grande cautela e poi, dopo l’inizio degli anni novanta sempre più speditamente- una disciplina via via più moderna dei rapporti economici e sociali, adottando numerosissime leggi e altri atti normativi in pressoché tutti i settori del diritto (primi tra i quali quelli più direttamente attinenti alla riforma del sistema economico) e riformando radicalmente la pubblica amministrazione, l’ordinamento giudiziario e il processo, le professioni legali e l’insegnamento giuridico. La cultura e la prassi del diritto e dei diritti vengono rivoluzionate, nell’ideologia ufficiale e nella mentalità dell’opinione pubblica, assumendo una centralità che mai avevano avuto nella lunga storia cinese.
Nel dirigere questo processo, vengono adattati alle tipicità cinesi la terminologia, le tecniche, gli istituti principali della western legal tradition. In parte si tratta di un fenomeno spontaneo, perché le istituzioni giuridiche elaborate in occidente sono connaturate al sistema industriale e postindustriale verso cui la Cina si dirige, e in parte si tratta invece di un fenomeno indotto dalle “sollecitazioni” -più o meno dirette, più o meno forti- delle istituzioni internazionali o delle potenze industriali con cui allaccia rapporti sempre più stretti.
In ogni caso, gli elementi più significativi di questa grande “rivoluzione giuridica” cinese sono stati due, tra loro strettamente interconnessi.
In primo luogo, è stato innescato un processo generale di formalizzazione e tecnicizzazione delle regole giuridiche, che sta faticosamente scalzando il principio del “primato della politica” di memoria maoista per sostituirlo con una “legalità socialista dalle specificità cinesi”. Non soltanto si sono scritte molte nuove leggi e si sono riattivati gli organi statali deputati ad applicarle, ma si è anche progressivamente responsabilizzata la pubblica amministrazione al loro rispetto, riducendone grandemente i margini di discrezionalità. E si è consentito lo sviluppo e la privatizzazione delle professioni legali, fenomeno questo che ha ulteriormente spinto il sistema giuridico cinese verso una crescente tecnicizzazione.
In secondo luogo, con il passare degli anni si è enormemente ridotto il controllo amministrativo sulla vita economica e sociale e sono stati parallelamente accresciuti gli spazi di libertà e di autonomia degli individui. L’effetto più appariscente, naturalmente, si è manifestato in relazione ai rapporti patrimoniali, che nel volgere di pochi anni sono stati interamente rivoluzionati dal crollo della pianificazione e dall’affermazione di meccanismi sempre più avanzati di mercato, ma tale fenomeno è facilmente riscontrabile anche nell’ambito dei rapporti personali e persino in quello dei rapporti tra i cittadini e la pubblica amministrazione.
I cittadini cinesi godono oggi di un’autonomia individuale che non ha precedenti nella storia millenaria del paese e tale autonomia è sempre più attentamente e completamente tutelata dalle leggi e dai tribunali dello stato: la nozione di diritto soggettivo non è dunque più una mera figura retorica, ma comincia a diventare fulcro del sistema giuridico e diffusa prassi quotidiana.
Ora dunque si può cominciare a parlare dei diritti fondamentali.


2. Diritti fondamentali e trasformazione sociale

Nella sua manifestazione storica, il tema dei diritti umani si è sviluppato nell’ultimo mezzo secolo principalmente sul piano internazionale, come un grande dibattito sui diritti inviolabili di tutti gli uomini e le donne, a prescindere dalla loro appartenenza nazionale o da qualunque altra appartenenza socio-antropologica. Tuttavia, esso è altrettanto strettamente legato alle tradizioni e alle vicende costituzionali dei singoli ordinamenti giuridici, che singolarmente definiscono e tutelano i diritti fondamentali dei cittadini, e questo vale in maggior misura nel caso di un ordinamento importante, complesso e “diverso” come quello cinese.
Pare dunque il caso di concentrarsi su queste ultime, per proporre infine alcune brevi considerazioni sulla collocazione della Cina nel contesto del dibattito internazionale sui diritti umani.
La Costituzione della Repubblica Popolare Cinese del 1982 garantisce ai cittadini cinesi un’ampia varietà di libertà e di diritti politici (elettorali, di espressione, stampa, riunione, associazione, manifestazione e critica della pubblica amministrazione e dei suoi funzionari), personali (inviolabilità della persona e della sua dignità, del domicilio, della corrispondenza, libertà religiosa) ed economici, sociali e culturali (al lavoro, al riposo, alla pensione, all’assistenza materiale, all’educazione, alla ricerca).
L’esercizio dei diritti e delle libertà dei cittadini, però, è condizionato all’interesse collettivo: «Nell’esercitare le proprie libertà e i propri diritti», dice l’art. 51 della Costituzione, «i cittadini della RPC non devono nuocere agli interessi statali, sociali e collettivi, né ai legittimi interessi o alla libertà di altri cittadini».
Questo limite costituzionale costituisce l’enunciazione formale di una differenza di fondo tra l’ordinamento cinese e quelli dei modelli democratici occidentali, ossia il non considerare i diritti individuali in termini assoluti, ma in relazione all’efficienza del sistema economico complessivo e alla crescita del benessere della collettività, soprattutto negli ambiti che sono oggetto delle più forti tensioni sociali e dove quindi la priorità dell’interesse pubblico si manifesta più pesantemente, anche a discapito degli interessi dei singoli. Ciò avviene in primo luogo in relazione ai diritti politici, che sono sì riconosciuti dalla Costituzione, ma non nel senso che alla categoria viene attribuito nei sistemi democratici occidentali, bensì in quello che hanno in un sistema -appartenente a una “famiglia” in via di rapida estinzione- di democrazia popolare socialista, nel quale l’apparato statale è soggetto all’indirizzo politico del partito comunista.
Poco importa, in questa sede, accennare alla trasformazione che il partito comunista cinese ha subito in questi anni, abbandonando la sua natura di classe per divenire di fatto un partito nazionalista; ciò che conta è che la leadership politica continua a non riconoscere la fonte della sua legittimazione nella volontà popolare, espressa attraverso organizzazioni politiche indipendenti e libere elezioni, ma nel proprio ruolo di avanguardia rivoluzionaria e nella prassi della dittatura democratica popolare, seppur mediata dalla formalizzazione legale delle regole.
La condizione di subordinazione dell’apparato statale al ruolo dirigente del partito ha tre principali effetti istituzionali, che hanno tutti una stretta attinenza al tema della tutela dei diritti umani.
In primo luogo, poiché tutte le funzioni statali devono essere esercitate unitariamente obbedendo alle linee guida dettate dal partito, l’apparato non può fondarsi sulla separazione o divisione dei poteri o su un meccanismo di checks and balances, ma deve riferirsi a un opposto principio unitaristico: il potere è tutto nelle mani del popolo, che lo esercita, sotto la guida del partito, per mezzo delle assemblee rappresentative, altrove in passato chiamate soviet. Ciò significa innanzitutto che non esiste un controllo di costituzionalità delle leggi da parte di una corte costituzionale o comunque di un organo diverso da quello legislativo. La legittimità costituzionale degli atti normativi la valuta il legislatore popolare stesso, che è dunque completamente sovrano. Inoltre, gli organi giudiziari sono subordinati a quelli politici. I magistrati sono nominati, controllati ed eventualmente destituiti dalle assemblee popolari ai vari livelli -da quelle comunali di base sino all’Assemblea Nazionale del Popolo- e non godono di alcuna garanzia di indipendenza o di inamovibilità. Tra l’altro, nonostante il processo di istituzionalizzazione dell’attività giurisdizionale sopra accennato, il partito comunista continua a esercitare varie forme di ingerenza, sia attraverso strumenti informali di pressione, sia per mezzo di appositi meccanismi istituzionali.
In secondo luogo, il sistema elettorale non prevede l’elezione a suffragio universale diretto dei deputati del parlamento nazionale e delle assemblee territoriali di livello maggiore, ma solo di quelli delle assemblee locali. E anche ai livelli più bassi, l’espressione della volontà popolare è per il momento condizionata dall’assenza di una genuina competizione elettorale e dalle interferenze che il partito esercita sulle commissioni elettorali locali o direttamente sui candidati. È vero che negli ultimi anni vi è stato qualche segnale di apertura nel senso di una maggiore libertà e competitività elettorale, ma sinora si è trattato di segnali piuttosto modesti e quantitativamente limitati.
Infine, rimane vietata la costituzione di partiti politici indipendenti, non perché ciò sia espressamente disposto dalla legge, quanto perché nei fatti il partito comunista intende conservare il più ferreo monopolio dell’attività politica organizzata.
Al frazionamento degli interessi sociali e politici del paese non ha dunque, almeno per ora, corrisposto alcuna forma di apertura a un modello multipartitico. All’opposto, ogni tentativo di formare organizzazioni politiche indipendenti non autorizzate è stato sinora represso anche con durezza. Gli unici partiti politici alternativi riconosciuti sono gli otto “partiti democratici”, diretti e controllati da un apposito ufficio del Comitato Centrale del PCC e privi di una reale autonomia politica (soprannominati infatti, per la loro funzione decorativa, “gli otto vasi da fiori”).
È peraltro da segnalare che, sebbene i cittadini cinesi abbiano tuttora scarsa possibilità di intervenire direttamente nella selezione e l’orientamento della dirigenza politica, essi hanno tuttavia crescente accesso a una serie di strumenti alternativi di comunicazione politica e di tutela dei propri interessi, di tipo formale e informale (e talvolta decisamente clientelare), piuttosto efficienti e comunque più affini alla tradizione culturale e politica nazionale rispetto ai meccanismi elettorali. Anche l’aumento quantitativo e la crescita qualitativa di associazioni e organizzazioni non governative operanti nei più svariati settori, pur nei limiti imposti dal severo controllo delle autorità sulle attività associative, costituisce un importante e innovativo fenomeno di coinvolgimento della società civile nel processo deliberativo.
Allargando la prospettiva di analisi, si possono riscontrare altre sostanziali limitazioni alla libertà di associazione teoricamente garantita dalla Costituzione. Un caso emblematico riguarda le organizzazioni sindacali. Non soltanto il diritto di sciopero è tra i pochi diritti non elencati dalla Costituzione, ma l’istituzione di sindacati diversi da quello ufficiale resta vietata, in omaggio alla pretesa -sempre più irrealistica man mano che procede le liberalizzazione e la privatizzazione dell’economia- che, in un paese nel quale il partito comunista è al governo, i lavoratori non abbiano alcun bisogno di forme di tutela ulteriori rispetto a quella offerta dal sindacato ufficiale. Ogni tentativo di formare organizzazioni autonome di difesa dei diritti dei lavoratori è sinora stato stroncato sul nascere.
Come è ben noto, anche i gruppi religiosi sono oggetto di repressione, ma qui il panorama è fatto di luci e di ombre. Da un lato infatti è innegabile che i cittadini godono di una libertà sempre maggiore di praticare i culti ammessi dallo stato, i quali a loro volta dispongono di un’autonomia politica, culturale e patrimoniale che non ha precedenti nella storia cinese contemporanea. D’altro canto, l’organizzazione e il culto delle religioni non riconosciute (ad esempio la setta Falun Gong, ma in modo diverso anche la Chiesa cattolica) vengono violentemente repressi, mentre quelli delle religioni delle minoranze lamaista tibetana e musulmana uigura -che pure sono religioni riconosciute- sono soggetti a gravose e inique restrizioni a causa del loro potenziale collegamento con le correnti separatistiche serpeggianti in quelle aree del paese.
Un altro settore nel quale si riflette pienamente la contraddizione tra la natura socialista originaria del diritto cinese e le aspettative create dalla trasformazione sociale in atto è quello della libertà di espressione, che rimane piuttosto ridotta, nonostante i significativi passi avanti compiuti ultimamente anche grazie alla diffusione di Internet. La libertà di stampa è garantita ai cittadini solo nei limiti rigorosi imposti, per mezzo della legislazione ordinaria, dalle finalità di propaganda e di formazione politica, scientifica e culturale cui, tradizionalmente, deve essere ispirata la comunicazione pubblica nei sistemi socialisti. Inoltre, l’attività editoriale è sinora rimasta affidata a soggetti statali o semi-statali sostanzialmente privi di autonomia, tanto nella scelta dei contenuti da pubblicare quanto nella gestione economica. Anche la rete è strettamente controllata. Tuttavia, in questo settore ancor più che in altri, la trasformazione in atto nella società civile cinese, accompagnata dalla diffusione delle nuove tecnologie informatiche (circa 250 milioni di cinesi hanno accesso a Internet) e da una sempre più chiara consapevolezza, anche da parte delle autorità politiche, dell’importanza economica di tale diffusione, sta contribuendo a smantellare molte delle limitazioni un tempo vigenti.
Così, se certamente è vero che temi sensibili come la questione di Taiwan o quella delle autonomie uigura o tibetana, o le dinamiche interne alla classe dirigente del PCC e la vita politica e personale dei dirigenti rimangono sottoposti a una rigida censura preventiva, che non di rado i periodici eccessivamente critici vengono chiusi (l’ultimo caso eclatante è stato quello del settimanale "Bingdian", supplemento di un quotidiano pechinese, che è stato chiuso dall’autorità di pubblica sicurezza nel 2006) e che giornalisti e bloggers che osino diffondere notizie sensibili rischiano sempre di essere incarcerati con l’accusa di violazione del segreto di Stato o reati analoghi (così, ad esempio, è accaduto ai giornalisti che per primi denunciarono l’insorgere dell’epidemia di SARS nel 2002), è anche vero che l’applicazione di tali leggi è molto più morbida rispetto al passato e che oggi in Cina si pubblicano contenuti la cui diffusione sarebbe stata sino a pochi anni fa inconcepibile. Sempre più spesso, tra l’altro, la rapida e relativamente libera diffusione delle informazioni fa sì che si getti luce su fatti, che vedono coinvolti funzionari del partito o pubblici amministratori locali, che fino a ieri non sarebbero stati resi pubblici. Temi come le drammatiche condizioni del lavoro in alcune aree rurali, le dimostrazioni contro le requisizioni fondiarie o gli incidenti sul lavoro divengono pubblici grazie ai blog e ad alcuni periodici di cronaca a larga diffusione come "Nanfang Zhoumo" o "Caijing".
Un altro tema nel quale appare con evidenza la natura leninista dello stato cinese è quello della libertà e della dignità personale. Nonostante le riforme del 1996-97 -che rispetto alla normativa previgente hanno significativamente ampliato i diritti di indagati, imputati e condannati- e nonostante il peso crescente delle difese tecniche degli avvocati, il diritto penale cinese rimane caratterizzato, oltre che dalla generale draconicità delle pene, dalla presenza di norme estremamente vaghe collegate al controllo politico, quali ad esempio quelle relative ai reati di opinione, a quelli a danno dei segreti di stato o a quelli genericamente definiti “contro la sicurezza pubblica e l’ordine economico socialista di mercato”, che vengono utilizzate in modo assolutamente discrezionale dai giudici e dai funzionari amministrativi. Ciò, senza nemmeno menzionare la grande diffusione dei casi di disapplicazione o violazione delle leggi da parte dei funzionari, favorita, soprattutto a livello locale, dalla subordinazione dei magistrati al potere politico.
Anche nel processo continuano a non essere contemplate alcune garanzie fondamentali, quale il diritto dell’imputato di non collaborare al processo; mancano altresì meccanismi di controllo sull’operato del pubblico ministero, e rimane possibile l’avocazione dei processi ritenuti particolarmente importanti. Caratteristica, inoltre, è la presenza di un sistema parallelo di sanzioni amministrative, anche detentive, gestito direttamente dagli organi della pubblica sicurezza nei casi di illeciti minori (consumo di stupefacenti, prostituzione, disturbo della quiete pubblica) senza alcun controllo da parte degli organi giudiziari.
L’idea per cui i diritti e le aspirazioni individuali devono comunque cedere all’interesse pubblico è ancora prevalente anche in materie personalissime: si pensi ad esempio al tema del diritto alla riproduzione, fortemente limitato dalla politica di contenimento demografico (“politica del figlio unico”), che impone alle coppie il dovere di praticare la pianificazione familiare, punisce con sanzioni pecuniarie le nascite fuori piano e viene accompagnata da strumenti di pressione psicologica e sociale gestiti arbitrariamente dai funzionari delle commissioni per la pianificazione familiare e del partito, spesso anche travalicando i limiti del lecito.
Tutto ciò detto, è innegabile che negli ultimi anni gli spazi di autonomia soggettiva sono enormemente cresciuti, e non soltanto in relazione alla materia patrimoniale. Ai cittadini cinesi è oggi concesso di compiere una serie di scelte fondamentali relative all’educazione, alla cultura, al lavoro, alla residenza, allo stile di vita in una condizione di libertà senza precedenti: si pensi, per fare un solo esempio, alla modifica della normativa sulla registrazione del matrimonio che, dal 2003, ha espunto dai requisiti obbligatori per la registrazione l’autorizzazione dell’unità produttiva di appartenenza dei nubendi.
Inoltre, come si è accennato, gradualmente gli organi dello stato diventano maggiormente responsabili nei confronti del pubblico. Le singole amministrazioni statali cominciano a dover rendere conto del loro operato non solo internamente sul piano politico, ma anche esternamente, ad altri organi da esse teoricamente indipendenti come i tribunali, sul piano tecnico-giuridico.

Anche la creazione di una categoria di professionisti privati del diritto ha importanti implicazioni in questo senso, costringendo l’intero sistema -e in primo luogo i giudici- a una più rigorosa aderenza alle norme di legge e a un più attento formalismo. Sebbene la situazione del patrocinio legale nei processi penali non sia affatto rosea -soprattutto nei casi politicamente più gravi, nei quali le garanzie di difesa sono disattese e un ruolo attivo degli avvocati difensori può significare la loro incriminazione per complicità o per reati quali la diffusione non autorizzata di informazioni riservate o l’istigazione a delinquere-, anche qui sarebbe errato non scorgere i segni di un lento ma reale cambiamento. Sono infatti sempre più numerosi gli avvocati che, anche soltanto limitandosi a chiedere una corretta applicazione della legge, stanno coraggiosamente assistendo imputati che sino a poco fa sarebbero stati condannati senza difesa. Probabilmente, è questo il più importante fenomeno attinente alla materia dei diritti umani in corso.
Il ruolo del diritto, nel suo senso oggettivo, nella rivendicazione degli interessi individuali diventa centrale. Di fronte alla graduale affermazione della legalità socialista, del suo apparato istituzionale e del suo vocabolario, all’integrazione internazionale della Cina e alla crescita del livello tecnico e culturale dei funzionari addetti all’applicazione della legge, i cittadini cinesi cominciano a fare sempre più spesso e in modo sempre più convinto ricorso agli strumenti legali per reagire contro gli abusi dei funzionari e le violazioni dei loro diritti. E in questo processo sono affiancati da una nuova, coraggiosa categoria sociale: quella degli avvocati e delle organizzazioni non governative che, alternando grandi successi processuali e mediatici alla severa repressione da parte dell’autorità, stanno creando un terreno nuovo per l’affermazione e il rispetto dei diritti fondamentali.


3. I diritti umani tra valori globali e valori asiatici

L’adozione di leggi e istituzioni moderne, insieme alla partecipazione a specifici e sempre più numerosi accordi multilaterali e all’avvio di una grande quantità di tavoli negoziali e di programmi di cooperazione internazionale, ha condotto in questi anni la Cina a confrontarsi e a familiarizzarsi con lo strumentario tecnico e terminologico dei diritti umani e con i presupposti etici che lo sorreggono.
Impegnata a divenire una protagonista della politica internazionale, anche in questo campo la Cina deve cercare dei punti di incontro con la comunità internazionale e si è sinora dimostrata disposta a dialogare alla ricerca di soluzioni condivise. Molto si è fatto e si sta facendo, ad esempio, in materia di pena di morte, di tortura, di garanzie processuali, di diritti dei lavoratori, di libertà di espressione, di sistemi elettorali. In tutte queste e in molte altre materie, il dialogo internazionale a livello ufficiale, accademico e associativo ha costituito un potente fattore propulsivo, politico e tecnico, per una serie di importanti riforme. Persino nei settori nei quali il controllo e la coercizione sono ancora forti e sui quali si concentrano la maggior parte delle critiche internazionali, è evidente che la tendenza a una sempre più definita e ampia tutela dei diritti soggettivi è dovuta anche alle pressioni internazionali. E tuttavia vi è un limite a tale processo di adattamento. Vi sono strumenti di gestione del potere che la dirigenza cinese non considera rinunciabili né negoziabili, neppure quando eventualmente contrastino con diritti soggettivi internazionalmente reputati fondamentali.
La posizione ufficiale cinese enfatizza la piena sovranità degli stati anche in questa materia ed esprime con nettezza la propria contrarietà alla “politica dei diritti umani”, contestando anche l’auspicabilità di un rafforzamento delle forme di tutela internazionale. La Cina nega inoltre fermamente la pretesa universalità dei diritti umani, esprimendo all’opposto sulla questione una posizione fortemente relativistica. Pur riconoscendo teoricamente l’universalità dei diritti dell’uomo, tale posizione sottolinea la necessità di considerare le specificità delle tradizioni politiche nazionali e regionali, mette in discussione il supposto primato occidentale nell’identificazione delle fattispecie dei diritti umani e dei modi della loro protezione e critica la centralità che alcune categorie di diritti assumono nelle culture giuridiche occidentali rispetto ad altri. Come ebbe a dire il capo delegazione cinese alla conferenza di Vienna sui diritti umani del 1993: «Il concetto di diritti umani è un prodotto dello sviluppo storico. [...] Pertanto non si può e non si deve pensare al sistema e al modello dei diritti umani proprio di certi paesi come l’unico appropriato e chiedere che tutti i paesi vi si conformino. Per i paesi in via di sviluppo, rafforzare e proteggere i diritti umani significa prima di tutto garantire la piena realizzazione dei diritti alla sussistenza e allo sviluppo».
Tuttavia la società cinese sta cambiando rapidamente. Il diritto allo sviluppo materiale è ormai pragmaticamente garantito dalla crescita economica, e anche quello alla sussistenza comincia ad essere scontato per la stragrande maggioranza delle fasce sociali. Ogni nuova legge amplia l’elenco dei diritti riconosciuti ai cittadini e gli spazi di autonomia economica, sociale e politica soggettiva e ogni nuova sentenza rafforza la prassi e la coscienza dei diritti, mentre d’altra parte crescono nuove aspettative e nuove ingiustizie e si creano dunque nuove esigenze di tutela giuridica.
Questa transizione è pienamente in corso e non è dato conoscerne l’esito futuro. Certo, al di là dei retaggi del socialismo reale e delle spinte capitaliste, è sempre più evidente nell’approccio cinese al fenomeno giuridico il richiamo, spesso venato di nazionalismo, ai “valori asiatici”, ossia ai presupposti morali e sociali che accomunano le civiltà dell’Asia orientale, che all’individualismo egocentrico, egoistico ed esibizionistico occidentale contrapporrebbero il primato degli interessi collettivi, la centralità dei doveri civici, la ricerca del consenso, il rispetto delle gerarchie, il ruolo socioeconomico determinante della burocrazia, il valore del lavoro, della parsimonia, del merito.
Reali, retorici o presunti che siano, su tali presupposti la nuova dirigenza cinese sta fondando un sistema politico-giuridico inedito, nel quale la legittimazione non dipende dal rispetto di un nucleo di diritti fondamentali inviolabili (e nemmeno da un mandato popolare), ma dall’efficienza economica che l’apparato di governo riesce a garantire. Il principio di legalità è un elemento fondamentale per tale efficienza, ma svolge una funzione meramente strumentale: nonostante la rivoluzione legale di questi anni, non è la politica ad essere confinata negli spazi che il diritto le attribuisce, ma il diritto ad essere strumento della politica.
L’espressione cinese fazhi, “governo della legge”, ampiamente utilizzata dalle fonti cinesi, significa governo per mezzo della legge, non dominio della legge e preminenza dei diritti fondamentali: la sua traduzione corretta è rule by law e non rule of law. La distinzione è cruciale. L’enfasi che si pone sul fazhi indica soltanto che vi è la volontà di trasformare un sistema a base eminentemente politica in uno nel quale le regole della convivenza sociale sono formalizzate mediante leggi prodotte dagli organi cui è attribuita la competenza legislativa e correttamente applicate dalla pubblica amministrazione e dai tribunali. Indica certamente anche un percorso del tutto nuovo nella retorica della comunicazione istituzionale, ma non indica necessariamente la ricezione del sistema di valori che, in occidente, definisce i contorni dell’intangibilità dei diritti individuali.
Il dialogo e il confronto con la Cina su questi temi sono fattori indispensabili per una globalizzazione politicamente sostenibile e le pressioni occidentali per un più attento rispetto dei diritti umani devono continuare e svilupparsi, amichevoli ma ferme, cercando di tenere lontane le forme servili di acquiescenza che tendono vieppiù a diffondersi, ma anche i preconcetti autoreferenziali che ancora spesso caratterizzano il nostro atteggiamento.
La Cina ci costringe a dismettere le nostre lenti eurocentriche. Sino a pochi anni fa potevamo forse limitarci a far finta di farlo, assecondando un vezzo terzomondistico politicamente corretto, senza tuttavia comprenderne le profonde implicazioni. Eravamo, allora, i depositari di un sistema efficiente e dominante. Quell’epoca è finita. L’emergere della potenza economica e politica cinese, di un sistema che minaccia di essere più efficiente del nostro, ci impone di abbandonare il nostro senso di superiorità per fare i conti -questa volta davvero- con la sfida delle differenze.
Il futuro globale dipenderà anche dalla nostra capacità di comprendere questa realtà e di adattarci ad essa, cercando di accettare l’alterità senza tradire i risultati di secoli di evoluzione del pensiero politico e giuridico occidentale.


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