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Dialogo interculturale e diritti umani:a sessant’anni dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo

Gianmaria Zamagni

1. La questione delle origini e il problema antropologico

Nella ricerca intorno ai diritti umani, una questione che è stata sondata e interpretata a più riprese, e che ha trovato risposte numerose e molto differenti tra di loro è quella che ha domandato della loro origine. Oltre che numerose, le opinioni sono in questo senso forse inconciliabili. Non posso enumerarle in questo mio intervento; posso però rimandare -a mero titolo d’esempio- all’introduzione del volume di Brian Tierney L’idea dei diritti naturali[1].
Tuttavia, a fronte delle varie tesi circa le origini dei diritti umani, vorrei qui proporre un’ipotesi interpretativa: il ricorso a quel patrimonio di valori è coinciso storicamente con epocali momenti di trasformazione, momenti che hanno comportato la crisi del concetto di “umanità” per l’irrompere di una nuova, e più ampia umanità rispetto a quella che si era fino ad allora conosciuta. Bastino qui pochi esempi: si consideri già la riflessione dello stoicismo romano nella fase di Roma imperiale[2], e ancor più la crisi del modello teocratico e monistico nell’età dei comuni che si veniva esprimendo nella canonistica medievale, e quella vera e propria scoperta dell’altro che è stata l’aggiunta di un nuovo continente umano nelle nostre cartografie “antropologiche” -ciò che avrebbe portato nella scolastica spagnola al dibattito di Valladolid[3]. E l’elenco potrebbe continuare, a mostrare istanze di crisi dei sistemi politici e di nuovo l’irrompere di un’irriducibile pluralità: le grandi rivoluzioni borghesi, la rivoluzione industriale e la conseguente condizione dei lavoratori (che portò il pontificato di Leone XIII a esprimersi nei termini di diritti individuali con la Rerum novarum), e soprattutto la tragedia della seconda guerra mondiale e della Shoah, di nuovo a porre la domanda: «considerate se questo è un uomo» (P. Levi). È naturalmente possibile giungere fino all’oggi, ai conflitti nella Jugoslavia e all’Unione europea, a Guantanamo e alla crisi del modello americano dell’era Bush. In questa ipotesi, la questione dei diritti umani si è venuta ponendo negli interstizi tra la crisi di un modello e l’irrompere di una nuova e più ampia (e naturalmente assai problematica) questione circa l’umanità.
Ma poi, esiste davvero qualcosa nella realtà che corrisponda al concetto “essere umano”? Questa, che potrebbe sembrare una sofisticata quæstio della speculazione medievale o analitica, pare acquistare oggi, nell’era della globalizzazione, una rinnovata importanza: i singoli esseri umani, che appartengono a diverse culture, possono ancora con qualche ragione essere detti far parte di un insieme superiore (l’“umanità”, appunto) che comprenda al proprio interno anche le loro differenze? Per chiarire la questione, poniamo in forma interrogativa le parole stesse di Samuel P. Huntington: «Arabi, Cinesi e occidentali, tuttavia, non fanno parte di alcuna entità culturale più vasta»? O ancora: «una civiltà è perciò il più vasto raggruppamento possibile e il massimo livello di identità culturale dopo quello che distingue gli umani dalle altre specie»?[4] La questione trovava una risposta negativa nel noto articolo del politologo di Harvard (che, per inciso, portava proprio l’Italia e la civiltà araba come esempio nient’affatto ingenuo della sua teoria del clash[5]).
Tuttavia la questione della differenza culturale è stata posta, in termini che mi sembrano in qualche misura comparabili, dalla discussione antropologica. Riguardo a questo problema, infatti, Lévi-Strauss invitava a «dubitare con saggezza, magari con malinconia, dell’avvento di un mondo in cui le culture, colte da passione reciproca, non aspirassero più che a celebrarsi a vicenda, in una confusione in cui ciascuna perderebbe il fascino che poteva avere per le altre, e le sue proprie ragioni di esistenza»[6]. Per descrivere le diverse culture, Lévi-Strauss usava un’analogia molto significativa: esse venivano dette essere «simili a treni che circolano più o meno in fretta, ognuno sul suo binario, e tutti in direzioni diverse»[7]. È necessario osservare che questa formulazione faceva di ciascuna di esse un insieme compatto e isolato, appunto come se si trattasse di solidi in movimento nello spazio, riassumibili all’interno di un paradigma meccanicista, quasi le culture fossero biglie colorate sul tappeto verde del tavolo da biliardo[8].


2. Cosmopolitismo, provincialismo, e il terzo escluso

Quello di Lévi-Strauss era naturalmente solo un modello che mostrava una reazione, pienamente comprensibile, al timore dell’omologazione in un mondo che egli evidentemente (e in questa fattispecie con piena ragione) sentiva divenire ogni giorno più piccolo e ravvicinato. Da un lato, tuttavia, negli ultimi anni la ricerca più avvertita (anche quella antropologica[9]) ha dovuto constatare quanto poco sovrapponibili siano i termini globalizzazione e omologazione: nel nostro mondo multipolare la modernità, come diviene sempre più evidente, non è più solo quella occidentale. I patrimoni culturali, inoltre, sono cosa molto diversa dall’innovazione tecnico-scientifica e, nonostante tutti gli idealismi del passato, non stiamo assistendo alla formazione di un’unica macro-cultura -ancor meno di un’unica macro-religione- che sia in grado di soppiantare le concrete forme storiche esistenti. Le culture e le religioni purtroppo, al contrario, si impongono oggi nuovamente all’attenzione anche per il loro potenziale conflittuale.
D’altra parte, infatti, un modello che rappresenti le culture come sistemi chiusi, come solidi compatti, mette già in luce il pericolo che queste possano venire a scontrarsi. La reazione alle parole di Lévi-Strauss, in questo senso, non si è fatta attendere. In particolare l’antropologo americano Clifford Geertz ha reagito scrivendo che
«L’immagine di un mondo pieno di genti così appassionatamente innamorate delle culture di ogni altro da aspirare solo a celebrarsi a vicenda non mi sembra un pericolo chiaro e attuale; invece l’immagine di un mondo pieno di gente che felicemente celebra i propri eroi e demonizza i propri nemici, ahimè, lo è. Non è necessario scegliere, anzi bisogna non scegliere tra cosmopolitismo privo di contenuti e provincialismo senza lacerazioni, poiché nessuno dei due è utile per vivere in un collage»[10]. In primo luogo occorre osservare, nel concetto di collage, che Geertz non si rappresenta le differenti culture come sistemi chiusi, ma come realtà permeabili e (sia pur in parte) sovrapponibili. È solo al prezzo di un’estrema semplificazione che si può parlare di culture come di solidi, in questo senso, perché nel concreto delle nostre società, già nelle nostre città, nelle nostre stesse vite, le appartenenze culturali (per lingua, valori, gruppi eccetera) sono molteplici, complesse, spesso persino contraddittorie, e dunque nient’affatto compatte, immutabili e sempre identiche a se stesse. Analogamente, non può venir dimenticato quanto anche le culture condividono tra loro, per una radice comune o per un prestito reciproco, quanto esse siano in definitiva semplicemente prodotti storici[11].
Nelle sue parole viene messa poi in luce una questione assai importante nell’età in cui viviamo: quella dei limiti del contestualismo -in altri termini, del relativismo- e dell’universalismo. L’antropologo americano invitava a rifiutare la scelta fra i due termini, “cosmopolitismo” e “provincialismo”, ai quali tertium non datur, ma nel proprio saggio egli non prospettava fra essi alcuna “terza via”. Da un lato, un’universalizzazione dei valori di una sola cultura che si dimostri insensibile alle differenze esistenti avrebbe evidenti caratteristiche totalitarie, ma d’altra parte la tesi dell’incommensurabilità culturale, consistente proprio nel credere che le culture possano vivere isolate, separate le une dalle altre «come treni su binari diversi», finisce per rendere pregiudizialmente inutile, e perciò a priori impossibile, qualunque dialogo interculturale[12]. Per uscire da questa impasse, se non vogliamo cioè che le culture e le grandi tradizioni religiose vengano del tutto trascurate, ovvero vengano lette “a senso unico” solo da chi studia, o asseconda, o addirittura rimanda con temeraria fiducia ai rapporti di forza che esistono tra di esse, occorrerà esaminare la possibilità di un confronto critico dei loro valori, intesi come ciò che fra le diverse culture può essere utilmente comparato.


3. L’aspetto performativo. L’Humanum

La parola stessa da cui siamo partiti, umanità, permette in italiano un’ulteriore riflessione. Essa ha infatti nella nostra lingua una significativa ambivalenza: non indica solo un oggetto (presunto, se vogliamo), l’insieme degli esseri umani, quanto una virtù, quella che consiste nell’essere umani. La parola è cioè al tempo stesso descrittiva e performativa. Essa già domanda, dunque, non solo quanto gli uomini appartengano a un unico insieme, ma quanto essi sappiano davvero essere umani.
Di contro alla tesi relativista-scettica circa un loro possibile confronto critico, le differenti culture, nel corso della propria storia, sono giunte a scoprire al loro interno, anzi proprio nel loro nucleo più intimo, dei principi -su tutti la dignità dell’essere umano e la compassione verso il sofferente- che, per quanto minimali, rappresentano un patrimonio comune essenziale[13]. È precisamente su questi principi che si fondano i diritti dell’uomo, espressione moderna di quella dignità e di quella capacità di compassione. Il Percorso etico tra culture di Pier Cesare Bori rappresenta così il tentativo di comprendere come nelle diverse culture e religioni che l’umanità ha maturato nel corso della propria storia esistano delle risorse in comune che vanno nella direzione di un progressivo riconoscimento e una sempre più chiara affermazione dell’inviolabilità della persona umana proprio all’interno di quel patrimonio di sapienza e dei propri cataloghi di doveri (uno su tutti, la regola d’oro: fai agli altri quello che vuoi che gli altri facciano anche a te). Il percorso teologico di Hans Küng è pervenuto a conclusioni che possono essere associate a quelle di Bori. La sua teologia delle religioni è giunta infatti dapprima ad individuare nel concetto di Humanum il più alto criterio di verità delle religioni, sulla base del quale esse possono essere definite vere:

«nella misura in cui una religione serve l’umanità [nel senso performativo della Menschlichkeit], in quanto nella sua dottrina di fede e morale, nei suoi riti e istituzioni aiuta gli uomini a progredire nella loro identità umana, nel loro senso e valore, e permette loro di raggiungere un’esistenza piena di senso e feconda, essa è una religione vera e buona[14]
In questo senso, l’Humanum ha fornito la base per l’approvazione, nel settembre del 1993, della Dichiarazione del parlamento delle religioni mondiali per un’etica mondiale[15]. Nel corso di quella discussione, i delegati di tutte le religioni hanno confermato «che nelle dottrine delle religioni si trova un comune patrimonio di valori fondamentali, che costituiscono il fondamento di un’etica mondiale»[16]. Il valore dell’Humanum, l’istanza etica fondamentale secondo la quale “ogni uomo deve essere trattato umanamente” venne percepita dai duecento delegati come «assolutamente pacifica». Infine, assieme all’accordo circa la regola d’oro, e circa quattro imperativi etici fondamentali (non uccidere, non rubare, non mentire, non commettere impurità), essi hanno esplicitamente confermato quanto quel patrimonio comune potesse essere significativo per il riconoscimento e la valorizzazione della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo:
«Noi siamo convinti della fondamentale unità della famiglia umana sul nostro pianeta terra. Richiamiamo perciò alla memoria la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, emanata dalle Nazioni Unite nel 1948. Quello che essa ha solennemente proclamato sul piano del diritto noi vogliamo qui confermare e approfondire alla luce dell’etica: la piena realizzazione dell’inviolabilità della persona umana, della libertà inalienabile, della fondamentale uguaglianza e della necessaria solidarietà e reciproca dipendenza tra tutti gli uomini»[17].
Nella Dichiarazione per un’etica mondiale l’adesione alla Carta del 1948 non è stata dunque, come si comprende, il frutto dell’universalizzazione astratta e totalitaria di un elenco di diritti occidentali, ma il riconoscimento della loro continuità con quelle istanze che i delegati hanno sentito come profondamente intrinseche alle proprie religioni. E questo episodio è solo l’ultimo a dire che, per quanto puntuale sia l’origine storica dei diritti dell’uomo, il valore che essi rappresentano ha trovato nel secolo appena concluso, oltre al plauso e all’adesione convinta di costituzioni e istituzioni, il punto di riferimento per chi, a qualunque cultura appartenesse, volesse veder riconosciuta la propria dignità.



[1] Per tutta la discussione rimando a B. TIERNEY, L’idea dei diritti naturali. Diritti naturali, legge naturale e diritto canonico 1150-1625, Il Mulino, Bologna 2002, “Introduzione”, pp. 15-26.
[2] Si veda, per esempio, quanto scriveva E. TROELTSCH, Diritto naturale e umanità nella politica mondiale, in ID., La democrazia improvvisata. La Germania dal 1918 al 1922, a cura di F. Tessitore, Guida, Napoli 1977, pp. 371-391, pp. 375 e ss.
[3] Cfr. P.C. BORI, Diritti umani e religioni, in G. FILORAMO (a cura di), Religioni e modernità. Nuove tematiche e prospettive, vol. VI, Einaudi, Torino 2008 (in corso di stampa).
[4] S.P. HUNTINGTON, The Clash of Civilizations?, in “Foreign Affairs”, 72 (1993), 3, pp. 22-49, p. 24; gli interrogativi sono ovviamente nostri.
[5] Ivi, pp. 23-24: «La cultura di un villaggio nel sud dell’Italia può certo essere diversa da quella di un villaggio nel nord dell’Italia, ma esse avranno in comune la cultura italiana, che li distingue dai villaggi tedeschi. Le comunità europee, a loro volta, condivideranno caratteristiche culturali che le distingueranno dalle comunità arabe o cinesi. […] Un residente di Roma potrebbe definirsi con vari gradi di intensità un romano, un italiano, un cattolico, un cristiano, un europeo, un occidentale. La civiltà alla quale appartiene è il più ampio livello di identificazione con cui si identifichi intensamente» (la traduzione e i corsivi sono di chi scrive).
[6] C. LÉVI-STRAUSS, Lo sguardo da lontano. Antropologia, cultura, scienza a raffronto, Einaudi, Torino 1984, p. xii.
[7] C. LÉVI-STRAUSS, Razza e cultura, in ID., Lo sguardo da lontano, cit., pp. 5-31, p. 13.
[8] L’allusione è al celebre articolo di G.A. ALMOND, S.J. GENCO, Clouds, Clocks and the Study of Politics, in “World Politics”, 29 (1977), n. 4, pp. 489-522.
[9] Globalizzazione non coincide affatto con omologazione, per esempio, nel libro di U. HANNERZ, La diversità culturale, Il Mulino, Bologna 2001, pp. 19 ss.
[10] C. GEERTZ, Gli usi della diversità, in ID., Antropologia e filosofia, Il Mulino, Bologna 2001, pp. 85-106, p. 105.
[11] Cfr. anche le obiezioni, rivolte a Huntington, di H. KÜNG, Religioni universali – Pace mondiale – Etica mondiale, in D. VENTURELLI, Religioni, etica mondiale, destinazione dell’uomo, Il Melangolo, Genova 2002, pp. 13-31, p. 21.
[12] Cfr. U. BECK, Che cos’è la globalizzazione. Rischi e prospettive della società planetaria, Carocci, Roma 1999, in part. Com’è possibile una critica interculturale, pp. 100-110.
[13] È questa la tesi di P.C. BORI, S. MARCHIGNOLI (a cura di), Per un percorso etico tra culture. Testi antichi di tradizione scritta, Carocci, Roma 2003, verso i quali sono naturalmente debitore.
[14] H. KÜNG, Progetto per un’etica mondiale, Rizzoli, Milano 1991, p. 120; su questo punto mi sia permesso rimandare a G. ZAMAGNI, La teologia delle religioni di Hans Küng. Dalla salvezza dei non cristiani all’etica mondiale (1964-1990), EDB, Bologna 2005.
[15] H. KÜNG, K.-J. KUSCHEL (a cura di), Per un’etica mondiale. La dichiarazione del Parlamento delle religioni mondiali, Rizzoli, Milano 1995.
[16] Ivi, p. 14.
[17] Ivi, p. 21.

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