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Il nuovo approccio della Cina alla realtà internazionale

Guido Samarani

1. La Cina nel contesto internazionale: alcune considerazioni storiche

Sin dal 1949 e per alcuni decenni, la politica estera della Repubblica Popolare Cinese (RPC) fu largamente influenzata da un approccio stato-centrico ai problemi della politica internazionale e della sicurezza nazionale, nel senso di un forte impegno finalizzato a contrastare quelli che venivano visti come sforzi, da parte americana e -pur in modo diverso- sovietica, di ridurre Pechino alla sottomissione geopolitica. Successivamente alla rottura con l’URSS e permanendo una sostanziale incomunicabilità tra Pechino e Washington, la relativa debolezza strategica cinese fu compensata attraverso il tentativo di sostenere e di esportare la rivoluzione nel Terzo Mondo e di contenere ove possibile l’espansionismo delle due superpotenze e dei loro alleati. In tal senso, le strategie regionali e globali della Cina furono formulate nella convinzione che la sua vulnerabilità al dominio delle superpotenze poteva essere contrastata rafforzando la propria determinazione e forza militare nazionali e cercando alternativamente una cooperazione con gli Stati Uniti o con l’Unione Sovietica.
Tuttavia, tale cooperazione -anche quando fu stretta, come nel caso dei rapporti con l’URSS negli anni Cinquanta- non fu mai tale da contraddire gli sforzi da parte cinese di mantenere un proprio profilo autonomo nel campo della politica interna ed estera.
Fu a partire dai primissimi anni Settanta che vennero poste le basi di un sostanziale mutamento nella “visione del mondo" e nell’approccio della Cina alla realtà internazionale. In quegli anni, infatti, la RPC entrò a far parte del Consiglio di Sicurezza dell’ONU quale membro permanente al posto di Taiwan (25 ottobre 1971), beneficiando del mutato atteggiamento da parte statunitense (rinuncia al diritto di veto).
In quegli anni Settanta in cui i rapporti sino-americani conobbero significativi sviluppi, le relazioni tra Cina e Unione Sovietica continuarono al contrario ad essere caratterizzate da un continuo peggioramento. In particolare, i negoziati per definire la questione alle frontiere furono più volte interrotti e ripresi, facendo registrare scarsi progressi: essi furono successivamente interrotti in seguito all’intervento sovietico in Afghanistan nel 1979, il quale spinse altresì l’amministrazione americana ad irrigidire la propria politica verso Mosca e a guardare con ancor più attenzione verso Pechino.
La crisi di Tian’anmen della primavera del 1989 portò ad un deciso congelamento delle relazioni con Washington e più in generale con l’Occidente, mentre ad essa si accompagnò -con la visita di Gorbachev a Pechino proprio nei mesi della crisi- l’avvio del processo di normalizzazione delle relazioni sino-sovietiche. Successivamente, la Guerra del Golfo del 1991 offrì alla Cina l’opportunità di migliorare la propria posizione internazionale -e in particolare i rapporti con l’Occidente- e di cercare di far cancellare le sanzioni imposte da molti paesi dopo Tian’anmen.
Pochi mesi dopo la fine della Guerra del Golfo, tuttavia, il collasso dell’Unione Sovietica pose fine in modo definitivo al sistema internazionale bipolare (USA-URSS): le conseguenze della fine dell’URSS furono importanti e molteplici per la Cina, ridisegnando le relazioni con gli USA ed aprendo una nuova pagina nelle relazioni con la Russia, “erede" potenziale del lascito sovietico.
In questi ultimissimi anni, vi è stato uno sforzo costante da parte sia di Pechino sia di Washington finalizzato a migliorare i rapporti bilaterali e rimuovere i problemi aperti; parallelamente, i rapporti con Mosca sono costantemente migliorati, indirizzandosi verso una vera e propria “partnership strategica" anche se non scevra da contrasti e da differenziazioni su questioni importanti.
Oggi, a 30 anni (1978-2008) dall’avvio del programma di riforme e in vista del prossimo anniversario (il sessantesimo, ottobre 2009) della fondazione della RPC, il ruolo internazionale della Cina è profondamente mutato e con esso sono enormemente cresciute le responsabilità di Pechino. Gli stessi eventi di queste settimane di marzo e aprile 2008 legati alle prossime Olimpiadi e alle critiche e contestazioni della politica cinese in Tibet che sono emerse durante il viaggio della fiaccola olimpica indicano come sussistano ancora non poche incomprensioni e differenze tra Pechino e numerosi paesi circa il rapporto tra “non interferenza negli affari interni" e “monitoraggio internazionale sui singoli paesi", tra “sovranità nazionale" e “responsabilità internazionale".
Il presente contributo intende muovere dagli ultimi anni del Novecento per cercare di delineare i passaggi più significativi del nuovo approccio cinese alla realtà internazionale emerso a cavallo tra il vecchio (XX) e il nuovo (XXI) secolo. In particolare, ci si soffermerà sull’ultimo decennio, segnato dalla scomparsa di Deng Xiaoping (1997) e dall’ascesa delle “nuove generazioni" nell’ambito della leadership cinese, imperniata dapprima su Jiang Zemin (1997-2003) e successivamente sull’attuale Segretario del Partito Comunista Cinese (PCC) Hu Jintao (dal 2003 ad oggi).
L’analisi si soffermerà innanzitutto sul processo di istituzionalizzazione nell’ambito della politica internazionale di Pechino, si concentrerà poi sulla affermazione della teoria della “ascesa pacifica" cinese nel nuovo secolo e infine cercherà di analizzare l’abbandono di tale teoria e la sua sostituzione con quella dello “sviluppo pacifico", alla luce in particolare del recente XVII Congresso nazionale del PCC (ottobre 2007) e della sessione annuale dell’Assemblea Nazionale Popolare (ANP, il Parlamento cinese, marzo 2008).


2. La politica estera tra istituzionalizzazione e "ascesa pacifica"

Rispetto al periodo maoista, l’epoca di Deng Xiaoping (1978-1997) ha visto significativi mutamenti per quanto riguarda i processi decisionali nel campo della politica estera, pur nel relativo permanere di certi elementi ereditati dal passato (centralizzazione e personalizzazione dei processi decisionali, elitismo). Benché Deng conservasse certamente un ruolo “speciale" nella definizione della politica internazionale della Cina, appare indubbio che la sua personalità e il suo stile di lavoro -per vari aspetti così dissimili da quelli di Mao-, uniti ai profondi mutamenti intervenuti nel contesto mondiale tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta (in particolare, la caduta del Muro di Berlino e la dissoluzione dell’URSS) e poi ancora agli inizi del nuovo secolo (in particolare, l’11 settembre e l’ingresso della RPC nel WTO), portarono ad una maggiore istituzionalizzazione della politica estera di Pechino e ad una maggiore collegialità decisionale in seno al Partito Comunista Cinese (PCC).
Successivamente alla morte di Deng e all’ascesa politica di Jiang Zemin[1], la politica estera cinese si avviò ancor più verso quella che è stata definita da David Lampton (D.M. Lampton, 2002), non senza parziali riserve da parte di certi studiosi (ad esempio Xuanli Liao, 2006), una tendenza alla professionalizzazione e alla decentralizzazione e una crescente attenzione nei confronti dei processi di globalizzazione.
È comunque indubbio che negli anni di Jiang Zemin l’influenza personale del leader venne sempre più stemperandosi e crebbe parallelamente il fattore collegiale nei processi decisionali, in particolare per quanto riguarda il ruolo decisionale svolto dall’Ufficio Politico del Comitato Centrale (CC) e dal suo Comitato Permanente[2]. Nel contempo, il progetto di separazione tra funzioni del partito e dello stato, che era stato al centro del dibattito politico per gran parte degli anni Ottanta, venne definitivamente accantonato, risultando nella riaffermazione del ruolo centrale del partito nel campo della politica estera attraverso in particolare il Gruppo dirigente ristretto sulla politica estera, che era stato creato nel 1958 con il compito di definire la strategia complessiva nel campo degli affari internazionali.
A differenza del passato, con Jiang Zemin il Gruppo venne per la prima volta guidato dallo stesso Segretario generale del partito, a riaffermare il primato del partito nel settore. Inoltre, la composizione dello stesso Gruppo venne sempre più articolandosi, includendo in modo più stabile e definito i responsabili ministeriali della Difesa e dell’Ufficio per gli affari internazionali dipendente dal Governo (D.M. Lampton, 2002).
Tuttavia, in seguito all’accesso della RPC al WTO, si è assistito negli ultimissimi anni ad una maggiore capacità di intervento ed una crescente influenza da parte degli organismi e delle agenzie governative nonché degli apparati burocratici centrali, in considerazione soprattutto dell’importanza fondamentale che la politica economica e commerciale sono andate assumendo nel contesto della strategia internazionale di Pechino.
Allo stesso tempo, a partire dagli anni Novanta, ha preso corpo a Pechino una maggiore consapevolezza della crescente importanza dell’immagine che il paese era in grado di proiettare all’esterno e del fatto che le scelte e gli atteggiamenti assunti sulle maggiori questioni mondiali venivano sempre più sottoposti ad un attento monitoraggio da parte di organismi internazionali e di singoli stati.
In particolare, la Cina ha preso coscienza del fatto che era indispensabile ricostruire la propria immagine internazionale dopo Tian’anmen: tale compito è stato affidato con indubbio successo all’esperienza diplomatica di Qian Qichen, considerato da molti come l’architetto del rilancio dell’azione diplomatica cinese nei primi anni Novanta attraverso una gestione altamente professionale e coerente della politica estera nazionale (R. Suettinger, 2004). Inoltre, si è fatta sempre più strada a Pechino la piena consapevolezza del fatto che non pochi paesi asiatici cominciavano ad interrogarsi sulle prospettive future della prepotente crescita economica cinese e sull’impatto che essa stava avendo sulla stabilità in Asia Orientale. Così, con la fine degli anni Novanta, è stato avviato un processo di aggiustamento della politica regionale al fine di riconquistare la fiducia di molti paesi confinanti e vicini, cercando di allontanare con forza l’idea di una possibile futura “minaccia cinese" (Bachman, 2003; Goldstein, 2005).
È in questo contesto generale che ha preso forma, nei primissimi anni del nuovo secolo, la teoria della “ascesa pacifica" (heping jueqi). Secondo alcuni studiosi (in particolare Glaser e Medeiros, 2007), tale teoria fu per la prima volta avanzata nel 2002 e fece il suo debutto ufficiale al Boao Forum (BFA) sull’Asia a fine 2003.
Come è noto, il BFA è un’organizzazione internazionale non governativa e non profit che è nata negli ultimi anni e che dal 2002 ha fissato la sede permanente della propria riunione annuale a Boao, nell’isola di Hainan (Cina meridionale). Le ragioni della creazione di questa organizzazione sono strettamente legate all’esigenza di offrire ai paesi asiatici uno strumento che vada oltre la compartecipazione, pur fondamentale, a organismi internazionali quali l’APEC (Asia Pacific Economic Forum) e il PECC (Pacific Economic Cooperation Council), dando voce «all’Asia in quanto tale, ai suoi leaders, ai suoi interessi e alle sue idee» (BFA, www.boaoforum.org)[3].
A Boao, nel 2003[4], il compito di esporre la tesi della “ascesa pacifica" fu affidato a Zheng Bijian[5], allora Presidente del China Reform Forum, un’organizzazione accademica non governativa i cui obiettivi sono lo studio di questioni interne ed internazionali (China Reform Forum, http://www.chinareform.org).
A parere di Zheng, la strada intrapresa dalla Cina nel nuovo secolo è tesa a combinare la crescita nazionale con la ricerca della pace internazionale: è dunque una “ascesa pacifica", che mira a compartecipare -e non a contrastare- al processo di globalizzazione economica. Quindi, lo sforzo di sviluppare l’economia e di elevare il tenore di vita della popolazione è strettamente legato, nell’ottica cinese, alla preservazione della stabilità dell’ordine internazionale e al mantenimento di positive relazioni con i paesi confinanti. La Cina -sottolineava ancora Zheng- non cerca un’espansione verso l’esterno: la sua ascesa è dunque diversa da quella passata del colonialismo e dell’imperialismo ed è fondata su quel nuovo concetto di “sicurezza" che era stato avanzato sin dal 1997 dagli specialistici cinesi, nell’ottica di acquisire la sicurezza collettiva nell’area dell’Asia Pacifico attraverso la cooperazione (China’s Peaceful Rise: Speeches of Zheng Bijian 1997-2004, 2005; Zheng Bijian, 2005).
Tra fine 2003 e i primissimi mesi del 2004 l’espressione “ascesa pacifica" divenne comune e diffusa nei principali discorsi dei leader cinesi, come dimostra ad esempio l’intervento di Hu Jintao alla Harvard University (“China Daily", 10 dicembre 2003, www.chinadaily.com). Ancora a settembre 2004, lo stesso Zheng Bijian riaffermava la centralità del concetto in un suo intervento ufficiale nel quale veniva ancora una volta messo in rilievo come “l’ascesa cinese" nasceva essenzialmente da esigenze interne ed era strettamente correlata al mantenimento di una situazione di pace nel contesto regionale ed internazionale. L’unico monito esplicito appariva riferito alla situazione di Taiwan, per la quale si faceva appello ad una soluzione pacifica, non senza avere tuttavia chiarito come ogni ipotesi di indipendenza o anche di sostegno militare esterno a tale ipotesi avrebbe aperto la strada alla concreta possibilità dell’uso della forza da parte di Pechino in quanto «atto legittimo teso a salvaguardare l’unità nazionale e l’integrità territoriale contro ogni attività separatista» (China’s Peaceful Rise: Speeches of Zheng Bijian 1997-2004, 2005, pp. 25-30).
Peraltro, proprio nel corso del 2004 la discussione sui contenuti e sullo stesso concetto di “ascesa pacifica" venne sviluppandosi in seno alla leadership e ai vari think tanks. Da una parte, certe critiche mettevano in luce come l’espressione “pacifica" poteva creare aspettative erronee da parte della comunità internazionale nel caso, ad esempio, di una crisi negli Stretti di Taiwan: tale timore venne peraltro accentuandosi proprio in quella fase in seguito alla vittoria (marzo 2004) alle elezioni presidenziali taiwanesi di Chen Shuibian, leader di una coalizione nel cui seno erano attive le istanze indipendentiste. Dall’altra, non pochi dubbi furono sollevati sul termine “ascesa", evidenziando come esso potesse apparire poco rassicurante o addirittura minaccioso per molti paesi vicini[6].
Furono così poste le basi per un mutamento, graduale ma deciso, nella formulazione teorica e nei contenuti, aprendo la strada alla nuova teoria dello “sviluppo pacifico".


3. Dall’"ascesa pacifica" allo "sviluppo pacifico"

A partire dalla fine del 2004-inizi 2005 il termine “ascesa pacifica" andò scomparendo dai discorsi ufficiali e, pur in una seconda fase, tese ad essere utilizzato sempre meno nelle principali pubblicazioni disponibili in libreria. Probabilmente, anche alla luce della sostanziale continuità dei punti essenziali della politica estera cinese in questi anni, il cambiamento non rifletteva tanto mutamenti strutturali nella strategia internazionale quanto semmai l’esigenza di effettuare degli aggiustamenti della stessa e di curare in modo più accurato l’immagine della Cina in Asia e nel mondo.
Così, a fine 2005 venne pubblicato un “libro bianco" del Governo cinese significativamente intitolato China’s Peaceful Development Road (http://www.china.org.cn/).
Il documento è composto da 5 parti: in esso, il legame tra crescita interna e pace internazionale ricorre costantemente. In particolare, nella prima parte si enfatizza come la via dello “sviluppo pacifico" si collochi pienamente nel solco storico dell’impegno della Cina per la pace internazionale e per la cooperazione tra i popoli. Il forte e costante impegno verso lo sviluppo economico e sociale -si evidenzia nella seconda e terza parte- necessita di un contesto pacifico e stabile in campo internazionale. Nelle ultime due parti e nella conclusione l’accento viene posto sul fatto che la Cina è pienamente consapevole di essere ancora largamente un paese in via di sviluppo e che uno dei nodi più difficili che ancora sta di fronte alla comunità internazionale, e in particolare ai paesi ricchi, è il forte e crescente divario tra Nord e Sud.
I contenuti e i toni del documento appaiono estremamente moderati e concilianti e rappresentano la base sulla quale si è sviluppata in questi ultimissimi anni la strategia internazionale di Pechino.
Per quanto concerne uno dei punti sui quali vari ambienti della comunità internazionale hanno sollevato rilievi critici rispetto alla posizione cinese, ossia il sostegno dato a quelli che sono stati definiti come “pariah states" (ad esempio, la Corea del Nord, Burma, il Sudan), è opinione di parte degli esperti -anche se non di tutti- che la RPC si stia muovendo pur lentamente nella direzione di una maggiore presa di coscienza di queste realtà, orientandosi verso una prassi che tende pur gradualmente a spostarsi dal tradizionale concetto di “non interferenza" a quello aggiornato di “intervento giustificato" (S. Kleine-Ahlbrandt, A. Small, 2008).
Anche sulla questione spesso dibattuta, soprattutto dagli analisti di Washington, di una possibile “collisione" futura tra Cina e USA, le opinioni dei think tanks internazionali non coincidono. Recentemente, l’autorevole Foreign Affairs ha ospitato un dibattito -peraltro ancora in corso- sul problema della crescita della Cina e dell’impatto che essa sta avendo e potrà avere sull’Occidente. A parere di G. J. Ikenberry[7], la Cina si sta sempre più affermando come una potenza globale e la sua ascesa porterà inevitabilmente alla fine dell’egemonia unipolare degli Stati Uniti. Tuttavia, egli ritiene che questa “transizione di poteri" non comporterà necessariamente uno scontro tra la potenza emergente e quella declinante e l’affermarsi di una situazione di tensioni e conflitti: al contrario, a parere di Ikenberry, l’attuale ordine internazionale mantiene una grande capacità di “accomodamento" delle potenze emergenti attraverso quel collaudato sistema di regole e norme che già ha permesso una crescente integrazione dell’ascesa cinese in questi ultimi anni. In altre parole, a parere dello studioso di Princeton, la Cina sta già operando attivamente “all’interno" e non “contro" il sistema internazionale esistente plasmato ed egemonizzato dagli USA e dai suoi alleati nel corso del Novecento (G.J. Ikenberry, 2008).
Al contrario, altri esperti (N. Barma, E. Ratner, S. Weber, 2008) contestano la tesi dell’inevitabile integrazione di Pechino nell’attuale sistema internazionale “occidentale" e sottolineano invece la forte possibilità che la Cina miri a costruire un ordine internazionale alternativo incentrato sui paesi del Terzo Mondo. A loro parere[8], appare piuttosto illusorio pensare che Pechino adotterà facilmente quei principi del liberal order sui quali gli Americani basano il loro approccio alla realtà internazionale; al contrario, è assai più credibile che la Cina cerchi, come ha fatto in questi anni, di integrarsi nell’attuale sistema internazionale cercando di utilizzare norme e regole a proprio favore.
In ogni caso, il ruolo fondamentale della tesi dello “sviluppo pacifico" nell’ambito della strategia mondiale della RPC appare ormai consolidato.
Nel recente Rapporto al XVII Congresso nazionale del PCC tenutosi ad ottobre 2007, il Segretario generale del partito, Hu Jintao, ha riaffermato alcuni punti fermi dell’attuale politica estera cinese:
1) la tendenza attuale nelle relazioni internazionali è caratterizzata dai temi dello sviluppo, della pace e della cooperazione, uniti ad una spinta verso il multipolarismo. Tuttavia, le crisi locali sono in crescita e numerosi squilibri -a cominciare dal più grave, quello tra Nord e Sud- permangono e si stanno aggravando. La Cina ha ormai puntato sulla scelta strategica dello sviluppo pacifico; essa inoltre crede fermamente nel diritto di tutti i paesi, grandi e piccoli, di poter scegliere autonomamente la propria strada, senza interferenze esterne;
2) la causa della riunificazione nazionale per via pacifica e l’esperienza, già messa in pratica nei casi di Hong Kong e Macao, del principio “un paese, due sistemi" costituiscono il pilastro attorno al quale la Cina si impegnerà in futuro a consolidare, da una parte, l’amministrazione di Hong Kong e Macao e, dall’altra, a portare a compimento in modo pacifico il processo di riunificazione di Taiwan alla madrepatria.
Per quanto riguarda specificamente i rapporti con Taipei, Hu Jintao conferma per l’ennesima volta la posizione di Pechino secondo cui esiste una sola Cina, l’unica soluzione possibile al problema taiwanese sta nel portare a compimento il processo di riunificazione in modo pacifico secondo il principio “un paese, due sistemi" e ogni attività secessionista ed indipendentista verrà respinta con fermezza e forza.
In un’altra parte del suo intervento, specificamente dedicato alla questione della “modernizzazione della difesa nazionale", il Segretario generale del PCC sottolinea come lo sforzo di adeguare sul piano strategico, tattico e della tecnologia bellica le forze armate è concepito come mero atto difensivo e non mira in alcun modo a politiche aggressive (Full text of Hu Jintao’s Report at the 17th Party Congress, http://www.xinhuanet.com/).
Ancor più recentemente (aprile 2008), Hu Jintao ha sottolineato, nel corso del suo intervento al Boao Forum 2008, che la teoria dello “sviluppo pacifico" rappresenta una chiara e convinta scelta strategica per la Cina basata su di una attenta e approfondita analisi della realtà della situazione nazionale e internazionale. In particolare, ha messo in evidenza la grande attenzione con cui la Cina segue le vicende dei paesi in via di sviluppo («Nel momento in cui ci stiamo sforzando di sviluppare il nostro paese, non possiamo non essere pronti a sostenere le legittime preoccupazioni degli altri paesi, in particolare dei paesi in via di sviluppo») e l’impegno di Pechino per «promuovere la crescita sostenuta e costante dell’economia mondiale» (China to maintain “peaceful development", http://www.english.gov.cn/).


4. "Uomini nuovi" per "politiche nuove"? Alcune considerazioni conclusive

La nuova dirigenza -imperniata su Hu Jintao, segretario del partito, e Wen Jiabao, primo ministro- ha impresso, secondo un giudizio largamente condiviso, nuovo dinamismo e attivismo alla politica estera della RPC. In particolare, sono stati evidenziati da molte parti il nuovo grado di flessibilità e di sofisticazione nell’approccio cinese alle relazioni bilaterali, alle organizzazioni internazionali e ai problemi legati alla sicurezza, a testimonianza di una politica estera caratterizzata da maggiore consapevolezza e concretezza.
Gli stessi esperti cinesi hanno confermato simili novità, sottolineando in particolare il graduale abbandono del passato approccio alle relazioni internazionali segnato da quello che certi commentatori hanno definito come un “petulante moralismo", ossia la visione secondo cui le umiliazioni subite in passato dalla Cina da parte delle maggiori potenze avevano aperto un enorme debito morale dell’Occidente e del Giappone nei confronti di Pechino e solo dopo che le maggiori potenze avessero riconosciuto pubblicamente e integralmente tutte le loro colpe e quindi pagato pienamente il loro debito, la Cina avrebbe potuto accettare di discutere questioni specifiche a carattere bilaterale e multilaterale.
Ora, al contrario, l’approccio internazionale da parte cinese appare sempre più segnato dalla crescente volontà di affrontare i problemi concreti piuttosto che irrigidirsi su questioni di principio e dall’impegno a promuovere politiche di sviluppo e ridurre i rischi di conflitto nel mondo, soprattutto nelle aree periferiche ai confini nazionali.
È possibile dunque affermare che oggi, soprattutto in seguito ai mutamenti introdotti a partire dal 2002-2003, la Cina è uno stato che ha grande rilevanza sullo scenario regionale e mondiale. È un paese rispettato, membro delle maggiori organizzazioni internazionali e intenzionato a minimizzare i problemi di politica estera al fine di concentrare il proprio impegno e sforzo sullo sviluppo economico.
Essa tende sempre più a percepire se stessa come una potenza ma è allo stesso tempo consapevole di mancare ancora -e chissà per quanto tempo a venire- di adeguate basi materiali per poter svolgere efficacemente tale ruolo, soprattutto a livello globale.
Oggi, nell’anno delle Olimpiadi e in vista degli importanti e delicati appuntamenti del sessantesimo della fondazione della RPC (2009) e dell’Expo universale di Shanghai (2010), la Cina punta sempre più sulle competenze, le conoscenze e la professionalizzazione al fine di formare una nuova leva di dirigenti capaci e al passo con i tempi nel campo della politica estera.
Gli “uomini nuovi" di Pechino che sono chiamati ad affrontare le sfide degli anni a venire sono stati selezionati in parte nel corso del 2007 e, soprattutto, durante questi ultimi mesi.
La scelta che è emersa dall’assise nazionale del PCC e dalla sessione autunnale dell’ANP -una scelta sicuramente significativa- è quella di un’equipe al vertice del Ministero degli Esteri (Ministro, Vice-Ministri e Assistenti del Ministro) caratterizzata da età relativamente giovane (50-55 anni in media), da un profilo educativo di alto livello (tutti sono laureati e alcuni sono in possesso di master e/o di Ph.D.), da un notevole grado di conoscenza della realtà internazionale (diversi hanno completato o integrato i propri studi in Occidente o comunque all’estero) e da una forte esperienza internazionale (hanno in generale operato nell’ambito della diplomazia cinese presso singoli paesi e/o organismi internazionali).
Di particolare interesse è sicuramente la figura del nuovo Ministro degli Esteri, Yang Jiechi[9]. Nato a Shanghai, Ph.D. in Storia, gran parte della sua attività ed esperienza diplomatiche sono legate agli Stai Uniti: dapprima come Secondo Segretario e poi Primo Segretario presso l’Ambasciata cinese a Washington, successivamente come Vice Direttore Generale del Dipartimento del Ministero degli Esteri per il Nord America e l’Oceania e infine, dal 2001 al 2005, come Ambasciatore straordinario e plenipotenziario presso gli USA (http://www.fmprc.gov.cn/).
Un segnale per una nuova politica verso gli USA? I prossimi mesi ed anni forniranno probabilmente delle risposte a questo e ad altri quesiti, relativi al ruolo che la Cina vorrà sempre più assumere, sul piano dei diritti ma anche su quello delle responsabilità, nella compartecipazione a formulare e definire il nuovo volto delle relazioni internazionali nel nuovo secolo.


Riferimenti bibliografici essenziali

- D. BACHMAN, New Leaders, New Foreign Policymaking Procedures?, in Gang Lin, Xiaobo Hu (eds.), China After Jiang, Stanford UP, Stanford 2003, pp. 115-135.
- N. BARMA, E. RATNER, S. WEBER, Chinese Ways, “Foreign Affairs", May/June 2008
- B.S. GLASER, E.S. MEDEIROS, The Changing Ecology of Foreign Policy-Making in China. The Ascendence and Demise of the Theory of “Peaceful Rise", “The China Quarterly", 190 (June 2007), pp. 291-310.
- G.J. IKENBERRY, The Rise of China and the Future of the West, “Foreign Affairs", January/February 2008.
- S. KLEINE, AHLBRANDT, A. SMALL, China’s New Dictatorship Diplomacy, “Foreign Affairs", January/February 2008.
- D.M. LAMPTON, The Making of Chinese Foreign and Security Policy, Stanford UP. Stanford 2002.
- XUANLI LIAO, Chinese Foreign Policy Think Tanks and China’s Policy Towards Japan, The Chinese University Press, Hong Kong 2006.
- R.L. SUETTINGER, Of Successors, Memories and Guidance: Qian Qichen Defines His Legacy, “China Leadership Monitor", 10 (Spring 2004).
- ZHENG BIJIAN, China’s “Peaceful Rise" to Great-Power Status, “Foreign Affairs", September/October 2005.
- China’s Peaceful Rise: Speeches of Zheng Bijian 1997-2004, Brookings Institution Press, Washington D.C 2005.
- Full Text of Hu Jintao’s Report at the 17th Party Congress, news.xinhuanet.com.
- The State Council White Paper on Peaceful Development Road, www.china.org.cn.
- China to maintain “peaceful development", www.english.gov.cn/.
- BFA,www.boaoforum.org. - “China Daily", www.chinadaily.com.
- China Reform Forum, www.chinareform.org.
- China Vitae, www.chinavitae.com.


E-mail:

[1] Come è noto Jiang Zemin divenne Segretario generale del PCC nel 1989, successivamente alla tragica conclusione della “crisi di Tian’anmen". Egli dunque guidò dapprima per vari anni la Cina sotto la “supervisione" di Deng, e successivamente quale unico leader (sino al 2002-2003).
[2] Il Comitato Permanente dell’Ufficio Politico è formato da un numero ristretto di membri dell’Ufficio Politico stesso e costituisce il nucleo politico dirigente del partito e del paese.
[3] La riunione annuale del BFA nel 2008 si è tenuta alla metà di aprile ed è stata dedicata al nodo delle politiche ambientali, ponendo al centro della discussione il tema Green Asia, Moving Towards Win-Win Through Changes.
[4] Di norma il Forum annuale si tiene in primavera: tuttavia, quello del 2003 fu posticipato a fine anno in seguito alla crisi della SARS.
[5] Prima di divenire Presidente del China Reform Forum, Zheng era stato tra l’altro Segretario di Hu Yaobang e Vicepresidente della Scuola di Partito del Comitato Centrale (CC) del PCC (China Vitae, www.chinavitae.com)
[6] Il primo dei due caratteri cinesi che indicano “ascesa" (jueqi) contiene infatti il radicale di “montagna": una presenza che nel linguaggio politico cinese, spesso così attento e sensibile alle forme simboliche, è di norma segno di qualcosa che sorge con forza e violenza dal nulla, come l’improvviso emergere di una montagna in un panorama quieto e piatto turba la stabilità e l’ordine esistente nella natura.
[7]. G. John Ikenberry è attualmente Professor of Politics and International Affairs alla Princeton University.
[8]. Barma, Ratner e Weber sono esperti della University of California (Berkeley).
[9] Dopo il citato Qian Qichen e prima dell’attuale Ministro, si sono succeduti al vertice della diplomazia cinese Tang Jiaxuan (dal 1998 al 2003) e Li Zhaozing (dal 2003 al 2007).
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