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Formare all’interdipendenza

Marco Milella

Formazione e sofferenza

Quando i processi formativi incontrano i temi della sofferenza, declinati in diverse e drammatiche modalità di dolore, la stessa capacità decisionale dei formatori sembra totalmente fallire. Spesso, in queste situazioni, le scelte sono talmente esposte all’influenza dell’imitazione che i singoli e i gruppi coinvolti non riescono sempre a discernere le possibilità di cui potrebbero disporre. In questi casi, la formazione e il formatore si trovano di fronte a correnti e flussi di problemi che possono sembrare, a prima vista, inusitati o, addirittura sovradimensionati, per una prospettiva di riflessione educativa. Eppure anche il modo in cui una persona patisce contribuisce a identificarla, a raccontare la sua storia e la sua formazione, chi è, chi è stata e chi sarà. Pure mentre soffriamo siamo, però, consapevoli (almeno in parte e in qualche modo) delle nostre e delle altrui modalità di patimento, nonché delle differenze tra i vissuti propri e altrui. Le persone percepiscono, o meglio, credono di percepire chi sono anche in base alle diversità con gli altri. Nondimeno il “come” soffriamo identifica il “chi” siamo. Ogni persona, infatti, si persuade di essere in un certo modo o in un altro e tutto ciò condiziona anche l’esistenza che è, appunto, in relazione con ciò che riteniamo di essere e, soprattutto, di diventare. In altri termini, le sofferenze sono condizionate dal modo con cui interpretiamo la nostra vita, il nostro essere e, quindi, la nostra stessa tribolazione. Le identità personali comprendono anche le nostre modalità di vivere e di patire: noi ci identifichiamo anche con quelle modalità. Modi di sentire, di concettualizzare, di concepire, di percepire, di pensare e di agire convergono e si intersecano nel costruire le premesse e le conseguenze del disagio. Non si può non soffrire, ma possiamo interpretare la nostra stessa pena. L’interpretazione, il significato e lo spessore qualitativo del dolore sono dati da ciò che crediamo di essere prima, durante e dopo il tormento.
Per interpretare e dare significato alla vita e al mondo, l’umanità ha inventato e costruito le culture e anche da queste ultime dipende ciò che le persone pensano di se stesse. È probabile, infatti, che, ricorsivamente, la reciproca percezione di se stessi e degli altri, come umanità, possa aver costituito la scintilla imprescindibile per imbastire le culture e per far sorgere quell’idea indispensabile per l’educazione che è l’intersoggettività[1]. I contatti tra le culture, inoltre, hanno messo e mettono in luce i limiti e le risorse sia delle credenze, sia dei modi di comportarsi e di agire. I modi di comportarsi e di agire sono influenzati dal modello di identificazione a cui crediamo di aderire, sia attraverso l’immedesimazione nel modello stesso, sia attraverso un discostarsi e un avvicinarsi a una nuova interpretazione di esso. Ogni visione e ogni credenza mantengono e rinnovano un sistema di convinzioni e di premesse a cui far riferimento per vivere anche la quotidianità[2]. Allo stesso modo, i rapporti interpersonali fanno emergere dubbi e domande sulle effettive possibilità – che ognuno dà a se stesso e agli altri – di riuscire in ciò che, consapevolmente o inconsapevolmente, ci prefiggiamo di raggiungere nella vita personale o di gruppo.
Ci sono rapporti alla base delle culture, alla base della creatività e della conflittualità umana, come alla base dell’insorgenza del disagio e alla base delle varie forme di prevenzione e cura dei suoi effetti. Nella puntualizzazione e nella qualificazione di questi rapporti si trova – spesso nascosta – una peculiarità formativa che necessita, prima di tutto, di una specificazione e poi di un’articolazione. Il passare attraverso il dolore può costituire già un implicito cammino formativo, laddove viene percepito proprio come “un passare attraverso” e non come un tetro offuscarsi e venire meno di possibilità vitali. Anche se, ad esempio, si considerassero riduttivamente (e non è questa l’ottica che si intende proporre) il disagio come una malattia e le risposte sociali (tra cui l’educazione e la prevenzione) come terapie, si può comunque riconoscere che, rispetto al processo di “passare attraverso” la vita e le sue connessioni, “malattia” e “cura” sono il continuum di una stessa evoluzione o meglio, co-evoluzione. La sofferenza, il suo lenimento e la guarigione eventuale appaiono, così, come parti interagenti di un unico processo.
In questo senso, proprio per il rispetto che le sofferenze meritano, bisogna cercare di evitare i rischi di abbinare qualsiasi percorso formativo, educativo e preventivo del disagio, alla propagazione di false illusioni. In altri termini, si ritiene che intorno al disagio si affollino, sia pure comprensibilmente, troppi stati d’animo che vagano alla deriva passando e ripassando tra oscillazioni di impotente disperazione e di speranza illusoria[3]. Non soltanto, entro certi limiti, per i disagi non ci sono antidoti, ma anche i tentativi di identificare le forme di sofferenza come malattie e le forme di intervento come cure, rischiano costantemente di rinforzare – almeno indirettamente – il malanno piuttosto che eliminarlo[4].
In questa prospettiva, diviene centrale il rapporto tra dolore e rimedio. Questo nesso, infatti, contestualizza la cornice esistenziale dell’uno e dell’altro; in questa relazione e in questi interstizi si possono cercare le tracce di una possibile percezione processuale della vita che cerchi di rendere conto, da un punto di vista formativo profondo e denso, anche degli esiti personali, delle risposte soggettive e dei significati più creativi di fronte all’esperienza del disagio.
Innanzitutto, va sottolineato che, a volte, le condizioni di dolore che reclamano un rimedio non si pongono l’obiettivo di cambiare quelle stesse condizioni, ma di “cancellare” la sofferenza senza accorgersi che la si sta “semplicemente” e atrocemente spostando verso livelli anche più minacciosi. Indubbiamente, l’idea di rimedio sorge di fronte a un dolore, ma non è detto che sia efficace se non riesce ad emanciparsi dall’alone, dall’inquadramento che il dolore continua a proiettare anche sui tentativi di soluzione. Il circolo vizioso nasce perché, spesso, siamo abituati e anche educati a cercare gli stati di benessere all’interno della stessa prospettiva che costruisce gli stati di malessere. In questo modo, tra malessere e benessere non c’è la ricerca di un salto di qualità e ogni presunta panacea, dopo una parabola più o meno lunga, rischia di riportare a uno stato di difficoltà peggiore di quello di partenza.


Dolore e apprendimento

Educare, prevenire, formare di fronte al disagio, quindi di fronte alla vita, vuol dire non cadere nella trappola di considerare il malessere come uno stato da cui si può semplicemente “guarire”, senza averne fatto esperienza, uno stato da dimenticare, senza aver imparato qualcosa da esso.
Se l’umanità apprende, sempre e comunque, dalla vita e se imparare si può addirittura identificare con la stessa[5], anche chi soffre apprende. Il “come” e il fine per cui si apprende, quando si prova dolore, non è qualcosa da cui possiamo prescindere se si vuole legare, come già si è tentato di fare, relazione e formazione, vita e narrazione, sapere e agire[6]. La sofferenza si presenta nel tempo e condiziona la percezione del tempo. Essa costituisce una situazione che cambia la dimensione soggettiva della temporalità. Ciò che porta o causa sofferenza diventa uno spartiacque tra il benessere e il malessere. “Prima” esisteva “qualcosa” che viene ricordato come uno stato di beatitudine, “dopo” irrompe sulla scena esistenziale “qualcosa d’altro” di tragico che permea tutte le esperienze e tutti i vissuti. Il desiderio di stare di nuovo bene, di ritrovare, velocemente, un equilibrio si situa tra questo “prima” e questo “dopo”, nell’augurarsi che il tempo possa far ritornare il “prima” e annullare il “dopo”. Eppure ogni “dopo” trova la sua origine in un “prima” e soltanto un’interpretazione del presente su un piano diverso, da quello del passato, rispetta l’irreversibilità e l’evoluzione dei processi vitali. Da ciò scaturisce la possibilità di interpretare sempre nuovamente anche gli eventi e gli episodi più tristi dell’esistenza.
Apprendere soffrendo significa, appunto, fuoriuscire dall’illusione di riconquistare il benessere perduto senza attraversare tutto il percorso che il disagio necessariamente comporta. Tale illusione, inoltre, non aiuta a prevenire la ripetizione e non aiuta a riconoscere che anche l’esperienza che consideriamo più usuale, più trita e ritrita, al di là dell’abitudine, avviene sempre per la prima volta. Spesso si desidera tornare indietro nel tempo per “guarire”, per essere come si era prima di star male: così pensando, non ci si rende conto che, soprattutto per i disagi esistenziali, si rischia di “voler” (anche inconsapevolmente) rivivere quelle condizioni che non solo hanno preceduto la sofferenza, ma probabilmente l’hanno causata o, quanto meno, la contenevano in nuce. Fare esperienza, imparare qualcosa anche dal dolore implica quel “passare attraverso” che riconosce l’irripetibilità di ogni momento della vita. Ciò significa che non si può tornare al “prima” dell’inizio delle sofferenze, si può soltanto “andare avanti”, percependo e formando(si) a percepire il dissolvimento del malessere non come un “ritorno” al passato, ma come un suo travalicamento: non si può tornare a star bene; a volte, però, si può cominciare a stare meglio, ma non come prima di aver vissuto il malessere. In altri termini, ci si può esercitare ad attraversare ciò che viviamo e abbiamo vissuto per integrare e assimilare l’esperienza del disagio.
Soprattutto quando si impara a contatto con il dolore, non si può rincorrere una volontà di distacco anche da se stessi per chiamarsi fuori da ciò che si è vissuto. La remissione anche di un unico sintomo non ci autorizza a smettere di interrogarci sul suo significato e soprattutto sulla responsabilità formativa che possiamo prenderci nel costruire quello stesso significato[7]. In base a quest’ultimo, infatti, strutturiamo le nostre aspettative per il futuro. Ciò significa che a seconda del valore che diamo all’esperienza del dolore, elaboriamo la nostra percezione del futuro. Tale percezione agisce potentemente sui nostri comportamenti del presente. Anche in questo caso, se ci fidiamo profondamente di ciò che ci aspettiamo per il futuro, cominciamo già a comportarci in maniera consona e confacente alle nostre credenze.
Esiste, dunque, un problema interpretativo, personale e di gruppo, anche del dolore e la formulazione del problema stesso allude a questioni di sviluppo, di evoluzione e co-evoluzione, di formazione personale e culturale. Uno sguardo formativo sul dolore è uno sguardo, comunque – anche se impietosamente – prospettico. Percepiamo e apprendiamo per raggiungere (anche inconsapevolmente) uno o più fini che si manifestano spesso in condotte, in comportamenti e in azioni. Non si può, quindi, considerare il disagio un fenomeno meramente indesiderato. Quest’operazione tecnicistica spinge a ricercare un’unica causa, ragione di quell’accadere. E una volta stabilita questa causa, essa viene isolata per individuare ciò che la possa eliminare, il più separatamente possibile dal resto della storia della persona. In questo modo, le caratteristiche narrative e relazionali della percezione e delle esperienze umane sono negate: sembra quasi che più precisa sia l’operazione di isolamento, più il rimedio possa essere, chirurgicamente, mirato ed efficace.
La de-contestualizzazione viene usata per “curare” il disagio, mentre continua a riprodurre le condizioni della sofferenza stessa. Se si vuole, allora, coniugare la prevenzione con la formazione, bisogna affrontare un ambito meta-formativo e meta-preventivo nel quale inquadrare la serie di azioni condotte. La de-contestualizzazione è, infatti, collegata con la concezione che per ogni sofferenza esista un’unica causa indipendente e astratta da uno o più contesti.


Prevedibilità e imprevedibilità

Una delle sollecitazioni più forti che spinge a decontestualizzare è data dal desiderio e dal potere di previsione che si acquista isolando un fenomeno e la sua presunta causa. Nello stesso tempo, rendere scisso dalle connessioni collaterali il dolore può servire a favorire una de-responsabilizzazione; quasi che il peso della sofferenza possa essere suddiviso tra i diversi specialisti che se ne occupano.
Tra prevenzione e cura, da una parte, e prevedibilità (scomposizione e analisi del disagio) dall’altra, si può creare una commistione a volte grottesca. L’impotenza nel prevenire, nell’educare e nel curare sembra quasi trovare sfogo nel prevedere, nel preannunciare, sotto forma di ipotesi di lavoro o di moniti educativi, le sventure incipienti. Il desiderio di prevedere il dolore rischia di rivelarsi, in questo modo, come un alleviamento della sensazione d’impotenza del formatore o del “guaritore”.
L’umanità, in generale, vuole prevedere per rassicurarsi e in particolare desidera prevedere il dolore. Questo desiderio di previsione non è relativo alla sofferenza astratta, ma alla consapevolezza personale del dolore. Ad ogni patimento, quindi, vanno unite le modalità, di cui si è già fatto menzione, con cui ne siamo consapevoli, con cui lo valutiamo e lo mettiamo in rapporto con la vita e con la nostra concezione della vita. Le capacità di previsione umane, proprio perché connesse alla consapevolezza e all’auto-consapevolezza possono provocare, infatti, – esse stesse – (può sembrare strano a dirsi) effetti inaspettati. Per esempio, tutto ciò che il comportamento sociale cerca di prevedere crea, allo stesso tempo, forme imprevedibili di azione o di “reazione”. È questo il caso delle leggi che istituiscono una serie di cornici per i comportamenti e sanciscono anche ciò che è permesso e ciò che non lo è. Non è detto, però, che questa distinzione dei comportamenti aumenti necessariamente le possibilità di prevedere il modo di fare indesiderato. Ancora più calzante e inerente alle tematiche di cui ci si sta occupando è il caso della pretesa di risultati educativi rigidi e falsamente oggettivi, da parte di alcuni percorsi formativi che si qualificano come rigorosamente scientifici, perché presentano pacchetti preconfezionati con obiettivi e fini stabiliti a priori.
In questo processo di “creazione” indiretta di forme di imprevedibilità, nate paradossalmente dalla volontà di prevedere, è possibile intravedere un parallelismo con il progresso tecnico-scientifico che ha inventato, ad esempio, farmaci per curare l’umanità e di cui, sempre più frequentemente, l’umanità abusa. Cercare di prevedere rende ragione e costruisce le dimensioni esistenziali del dolore, per esempio soppesandone la sopportabilità. Anche i farmaci possono essere considerati come un rimedio che tenta di riparare l’imprevedibilità. Essa, comunque, è una condizione ineliminabile e sempre presente nella vita delle persone e la tentazione di cercare rimedi alla sofferenza riguarda, quindi, tutta l’esistenza umana. In quest’ottica, la concezione di rimedio si esplica nella produzione di un risultato gradito, auspicato e previsto, oppure nell’eliminazione di una conseguenza sgradevole e imprevista. Così facendo, però, si cancella il rischio non tanto di un fallimento del rimedio stesso, quanto di un meta-fallimento, ossia di un errore mascherato, appunto, da rimedio. In altri termini, il vantaggio immediato di un risultato può portare, in seguito, a un disastro peggiore. Ogni “tappa” di pseudo-progresso nella lotta al disagio, basata sul controllo dell’imprevedibilità può essere così salutato, sul momento, come utile e definitivo, salvo poi rivelarsi un ennesimo ritorno al punto di partenza. Inoltre, ogni rimedio non sarebbe neanche concepibile, se non all’interno di una serie di sistemi sociali che ne condividono il significato e la valenza. Gli obiettivi dei rimedi, infatti, non sono scissi dalle condizioni contestuali che ne permettono il sorgere[8].
Prevenire e curare sono, allora, azioni che presuppongono sempre la dimensione del gruppo (inteso, più specificamente, come contesto relazionale). Anche per questo motivo, qualora fossero decontestualizzate, si ridurrebbero soltanto a concetti autoconvalidantisi, privi di carattere formativo e auto-formativo. Preventivo e curativo è, quindi, tutto ciò che si pone il problema del contesto a cui riferirsi senza dimenticare che tale questione non è indifferente al punto di osservazione adottato.


Consapevolezza dell’interdipendenza

Si è già ricordato che ogni rimedio serve o a produrre un risultato o a impedirne un altro. L’assunzione di droghe, per esempio, assolve ad uno stesso fine: quello di far perdere o far cambiare uno stato di coscienza. Questo stato di coscienza riguarda sia l’assuntore, sia chi lo circonda[9]. «Gli psicofarmaci, come le droghe in genere, hanno una funzione fondamentale: attutire la presenza del dolore sia in chi soffre sia in chi assiste allo spettacolo della sofferenza. Nel primo caso lo psicofarmaco isola il soggetto dalla causa del proprio dolore indebolendo la presenza del suo effetto, nel secondo il dolore viene occultato»[10].
Negli ultimi decenni c’è stata una ripresa di vigore negli studi e nei dibattiti sulla coscienza[11]. Ipotesi meccanicistiche tendono a identificare il funzionamento del cervello e il contenuto dei pensieri con la coscienza. Le conseguenze di questa ipotesi si tradurrebbero in un’impossibilità o almeno in una deprivazione delle potenzialità relazionali di un contesto di gruppo. In questo caso, il tossicodipendente, che “manomette” con una o più sostanze il funzionamento del cervello, non condividerebbe e non imiterebbe “correttamente”, a causa di questa manomissione, i contenuti comuni di consapevolezza e i sentimenti usuali. Se, invece, si ritiene che la consapevolezza sia influenzata anche dagli effetti delle idee che un singolo, un gruppo, una cultura possono avere sulla coscienza, l’ottica in cui collocare la questione è diversa. Il problema diviene, appunto, quali premesse e verso quale ecologia delle idee di coscienza orientarsi. In questa prospettiva, il tossicodipendente più che manomettere i contenuti comuni di coscienza e fuoriuscire dal comune sentire, mette in discussione ciò che viene considerata una consapevolezza comune e condivisa e rischia di minare le credenze più comuni circa la stessa identità umana.
Nello “stare fuori” dal presunto sentire comune risiede un vedere, un far vedere e anche un vedersi, scomodo e inopportuno per chi sceglie di affidare le proprie certezze alla presunta continuità e coerenza del proprio sentire cosciente. In effetti, il semplice passaggio dalla veglia al sonno e viceversa comprende diversi cambiamenti di stati di coscienza, ma essi non vengono percepiti come pericolosi, anche perché sembrano non minare la continuità dell’identità di colui che si addormenta e dopo si risveglia. In altri termini, è probabile che ci comportiamo senza sospetto verso tutto ciò che ci fa continuare a credere che siamo sempre gli stessi e che a un unico stato di vigilanza (in realtà impossibile da vivere) corrisponda un’identità personale unica e sempre uguale a se stessa (anch’essa impossibile da realizzare). Chi cerca di modificare consapevolmente i propri stati di coscienza svela, indirettamente, ma paradossalmente anche teatralmente, la fragilità e la peculiarità di una condizione comune: quella di credere di sapere totalmente e aprioristicamente chi siamo e di dover, invece, re-inventare se stessi per scoprire o riscoprire diverse sfaccettature e frammenti dell’identità. Per quanto specialistiche possano essere la definizione e la diagnosi della sofferenza umana, non possono mai spezzare quel collegamento originario tra le paure, i disagi comuni dell’umanità e le varie manifestazioni degli stessi nei singoli o in gruppi di sofferenti etichettati insieme dalla presunta somiglianza della pena.
Chi vive il disagio rischia di essere percepito come chi evoca il sempre possibile disagio degli altri e come colui che abbandona un terreno comune dove spesso la stessa sofferenza che si teme è presente, ma non viene dichiarata, anzi è sottoposta ad un tacito accordo che prevede che si finga di non percepirla e di non viverla. In questo senso, il disagiato è colui che abbandona una costruzione (una fiction) e una percezione consueta. Per la maggioranza, il disagiato (ad esempio il tossicodipendente) è un disertore che, allontanandosi dalle comuni forme di vivere sociale, attenta implicitamente alla loro stessa esistenza. Questa diserzione prevede, anche, una forma di devastazione della “finzione” comune (una tendenza a renderla deserto) che può essere precedente, contemporanea o successiva all’abbandono dei modi più comuni di vivere, senza che poi si trovi la forza di sostituirli con qualcosa di più autentico. Manca o non viene percepita, infatti, in questi casi, una prospettiva formativa e auto-formativa, alternativa a quella omologante, che favorisca l’individuazione della propria dimensione esistenziale.
L’abbandono manifesta problemi pregressi della comunità o ne crea di nuovi: colui che fuoriesce diviene un pericolo anche perché può essere visto come un modello fuorviante rispetto a quelli proposti direttamente e intenzionalmente. Il distacco e la differenza tra i modelli di imitazione proposti dall’educazione e quelli deprecati non è, però, così netta e chiara come si vorrebbe, a volte, far credere. Al contrario, va sottolineato che le fasce più emarginate e disagiate esistono non a se stanti, ma come il “lato oscuro”, quello che bisogna occultare alla vista, del “normale” modo di interagire e occupare il tempo dell’esistenza. E di questo lato oscuro il segno più immediato, che annuncia e accompagna le sofferenze, è la percezione della solitudine, intesa non come scelta personale esplorativa, ma come stigma del rigetto sociale, come imposizione oppressiva di un comune sentire che esclude chi non mostri di con-sentire. L’accordo che fonda il “consentire” riguarda soprattutto le modalità di costruzione sociale, di fiction interattiva[12] nella quale siamo immersi quotidianamente e nella quale il gioco delle parti richiede che lo si viva comunemente facendo finta che non sia un gioco.
Credere veramente che i modi dominanti di pensare e vivere siano formativi, può essere altrettanto pericoloso che il trasgredirli platealmente, attirandosi il ludibrio pubblico. Un esempio di ciò si trova nella concezione del successo e dell’insuccesso: essere persuasi veramente di doversi realizzare senza rapporti di interdipendenza significa candidarsi ad aumentare, non solo quantitativamente, le conseguenze dolorose degli inevitabili fallimenti a cui è impossibile non andare incontro[13].
Nei sistemi sociali e relazionali, che costruiamo e viviamo, infatti, dobbiamo affrontare continuamente l’incontro tra i bisogni personali e le dipendenze interpersonali che possono servire a soddisfarli. Naturalmente, l’importanza delle relazioni interpersonali non si può ridurre all’idea di uno scambio di “merce affettiva” che, per di più, avrebbe come corrispettivo economico il parametro unico della quantità. Anche se possiamo comportarci come se ciò fosse vero, non esiste una quantità giornaliera o mensile di “sentimenti” o di approcci relazionali che possano riempire affettivamente una vita.
L’interdipendenza, allora, non è mai già data, è una via, è un insieme di scelte mai definitive che permette di considerare gli altri non come un serbatoio – più o meno raggiungibile – dove possiamo attingere ciò che si vuole “ottenere” o “ricevere” spontaneamente. Ottenere e ricevere, in questo caso, non possono ridursi a un’idea che assimili lo scambio di merci con l’interazione relazionale. È molto probabile che nel primo è presente – simbolicamente e no – anche la seconda, ma affinché lo scambio acquisti continuità e dia vita a un clima e a un contesto duraturo e orientato, come dovrebbe essere quello formativo, non basta arrivare a un mero coordinamento del dare e avere. L’interdipendenza relazionale, man mano che cresce qualitativamente, si sottrae al tentativo angusto di limitarla a una mera dimensione di transazione, lasciando emergere, invece, la complessità, la delicatezza, il mistero e ancora una volta l’imprevedibilità che la connotano[14]. L’interdipendenza, in questo modo, si configura non in senso bidirezionale, ma come un processo circolare nel quale, a un miglioramento del clima relazionale, corrisponde una diminuzione del bisogno di tranquillizzanti spiegazioni razionali. Il tendere a rendere e a rendersi consapevoli di questa interdipendenza la può qualificare, nel contempo, come già formativa.


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[1] Cfr. J. S. BRUNER, La cultura dell’educazione, tr. it. Feltrinelli, Milano 1997.
[2] Non bisogna dimenticare che le credenze possono suscitare emozioni e che queste ultime sono influenzate dal modo come sono definite; a questo punto il circolo si è chiuso: la percezione e la definizione delle emozioni dipende infatti dalle credenze e dalle diverse culture in cui queste credenze si sviluppano. Per il rapporto tra emozioni e culture: cfr. J. ELSTER, Sensazioni forti. Emozioni, razionalità e dipendenza, tr. it. Il Mulino, Bologna 2001.
[3] A questo proposito, si pensi, a titolo esemplificativo, alle promesse e alle speranze di trovare “cure” rapide, radicali e “definitive” della tossicodipendenza nei ricoveri ospedalieri di disintossicazione e con gli interventi farmacologici.
[4] La “storia” della tossicodipendenza può essere un esempio emblematico di questo circolo vizioso: «Ciò che rende la tossicodipendenza un paradosso psicosociale nasce non solo dall’assenza di antidoti, ma specialmente dal fatto che ogni tentativo di cura pare destinato a rinforzare il malanno anziché eliminarlo: la morfina venne usata per curare la dipendenza dal fumo d’oppio e la sintesi dell’eroina fu trionfalmente salutata perché garantiva la disassuefazione dalla morfina» (I. TESTONI, Psicologia del nichilismo. La tossicodipendenza come rimedio, Angeli, Milano 1997, p.16). Anche attualmente la tossicodipendenza «vince contro i rimedi che la combattono e dà vita agli stessi rimedi, in quanto il fenomeno anziché decrescere aumenta – insieme alla volontà di eliminarlo – sia nella moltiplicazione delle forme d’uso, che nella clonazione delle specializzazioni di studio» (ivi, p.31).
[5] Cfr. K. LORENZ, Vivere è imparare, tr. it. Borla, Roma 1986.
[6] Cfr. M. MILELLA, La rete nascosta. Per una relazionalità formativa, Cleup, Padova 1998; ID., Percorsi tra narrazione e tras-formazione, Cleup, Padova 2000; ID., Saperi della cultura e agire formativo, Morlacchi, Perugia 2003.
[7] Fra gli effetti collaterali e controproducenti del progresso delle tecnologie mediche c’è anche un costante processo di rimozione dei significati della malattia nell’orizzonte esistenziale delle persone coinvolte. Tutto ciò porta Gadamer a sostenere: «Imparare ad ammettere la malattia: forse questo è uno dei più grandi cambiamenti del nostro mondo civile, che pone nuovi compiti ed è stato provocato dai progressi della medicina. Deve pur significare qualcosa il fatto che il medico oggi sappia apparentemente far svanire per incanto così tante malattie, al punto che esse scompaiono con facilità senza aver insegnato nulla al paziente» (H.G. GADAMER, Dove si nasconde la salute, tr. it. Cortina, Milano 1994, p. 100).
[8] La possibilità di raggiungere uno scopo è subordinata al mezzo impiegato e alla sua idoneità tecnica. Anche per questo motivo, lo strumento tecnico acquista e offre potere a chi lo costruisce e a chi lo utilizza adeguatamente. Se la scienza e la tecnologia consentono di aumentare la potenza degli strumenti, essi, però, non si sviluppano e non funzionano, per esempio, solo grazie alla fisica e alla matematica, ma specialmente per l’interpretazione e il significato che la società, che si serve della stessa tecnologia scientifica, dà a essa. Nessuno strumento, infatti, sarebbe fruibile se non vi fosse un sistema politico, economico, educativo, sanitario, etc. che ha fatto e fa da contesto allo sviluppo storico degli “utensili” di qualsiasi genere, compresi i cosiddetti psicofarmaci.
[9] Gli stati di coscienza sono molto influenzati dalle dinamiche di gruppo perché ogni soggetto può individuare il potere e il limite della propria percezione in ciò che sente essere percepito dagli altri.
[10] I. TESTONI, Psicologia del nichilismo. La tossicodipendenza come rimedio, cit., p. 48.
[11] Per quanto riguarda il rapporto tra formazione e coscienza: cfr. M. MILELLA, La rete nascosta, cit., pp. 157-165.
[12] A proposito dei giochi interattivi delle interazioni sociali, si possono ricordare gli studi e le ricerche di Goffman. Cfr. E. GOFFMAN, Modelli di interazione, tr. it. Il Mulino, Bologna 1971; ID., Forme del parlare, tr. it. Il Mulino, Bologna 1987.
[13] «Il sostegno migliore che gli esseri umani possano trovare per se stessi consiste, secondo me, nell’imparare ad accettare davvero la condizione di reciproca dipendenza che caratterizza l’esistenza di tutti» (H.G. GADAMER, Dove si nasconde la salute, cit., p. 89).
[14] In maniera forse provocatoria, a questo proposito Bateson fa notare che «se vogliamo introdurre un po’ di rigore nella trattazione dell’interazione umana, dovremmo cominciare a evitare la logica. La direzione più promettente di cui disponiamo al momento diventa allora l’esame di quei modelli concettuali in cui le sequenze di eventi possono venire descritte in termini di circuiti e catene causali» (G. BATESON, I cambiamenti nelle relazioni umane e nella psicologia individuale [1952], in “Aut Aut”, n. 313-314, 2003, p. 5).
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