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L’Immagine smemorata

Stella Carnevali
Di tutti quelli che ricordano la Gioconda solo una minima parte è stata al Louvre a conoscerla. La maggioranza ricorda non il quadro originale, ma la sua riproduzione su di un poster, sulla copertina di un quaderno, nel libro di testo, in una cartolina, in uno spot televisivo e nelle altre infinite riproduzioni che della più famosa opera d’arte sono state fatte.
La riproducibilità delle opere d’arte che ha inizio via via che si perfeziona l’invenzione della fotografia mette a disposizione di un sempre più crescente numero di persone la possibilità di vedere quadri e sculture di artisti dei quali si poteva conoscere la fama ma non le opere, ben custodite in collezioni pubbliche e private nelle più diverse parti del mondo e, dunque, a disposizione di pochi privilegiati.
Perché usare il verbo vedere e non conoscere? Perché si conosce ciò che ha un’anima, ciò che è originale, ciò che trasmette hic et nunc la sua emozione. È Walter Benjamin che ne parla introducendo il concetto di aura insita nell’opera originale che, in quanto tale, è irriproducibile. Siamo dinanzi alla prima globalizzazione ante litteram che, sebbene ospiti in sé il peccato originale di diffondere delle copie, ha anche il merito di far vedere, certo non conoscere, ma vedere un’informazione preziosa che raggiunge ad esempio gli studenti nei libri di testo della storia dell’arte.
La globalizzazione nell’accezione odierna ha poco più di trent’anni. Anche nei dizionari della lingua italiana fino agli anni Settanta veniva spiegata solo nell’ambito scientifico del processo cognitivo riferito alla psicologia evolutiva. Il termine più generalistico riferito a tutti quei processi economici, sociali e di costume che diventano omologati in tutti i Paesi sviluppati, nasce come definizione di un certo tipo di economia di cui sono nemici coloro che vogliono conservare la propria identità locale. È così che tra i due estremi viene creata la parola glocal, un moderatismo lessicale che ritiene possibile il coniugio tra ciò che è globale, cioè uguale in tutto l’Occidente, e ciò che è nicchia locale o antiche radici.
Nel senso contemporaneo il processo di globalizzazione ha in realtà inizio con Gutenberg nel 1450 anche se l’alfabetizzazione occidentale, compiendosi solo con il Novecento, lascia il fenomeno inosservato. La maternità spetta dunque all’invenzione della fotografia grazie alla quale ogni immagine diventa riproducibile all’infinito e distribuita ovunque.
E’ qui il caso di dire, come eccezione, che la parola scritta è solo un ausilio alla conoscenza dell’opera d’arte, ma non è indispensabile. La didascalia aiuta ma a volte disturba l’impatto con l’opera. Certo la copia è come una svendita dell’unico originale. Svendita aggravata dal fatto che la riproduzione altera sempre le dimensioni e i colori dell’originale. La copia usa l’opera per fini anche completamente diversi da quelli della pura e semplice diffusione e dunque da quelli per cui è stata creata. Estrapola, ingrandisce, ruba dei dettagli, ne fa un complemento d’arredo, insomma spesso diventa una scusa aristocratica e raffinata per proporre altro come nel caso della pubblicità delle merci.
Pure ci si chiede, soprattutto dopo l’avvento del cinema prima e della televisione poi se il concetto d’immagine, avendo subito questo stravolgimento tecnologico, ma anche culturale, non sia da considerare nel suo insieme senza separatezze di stili e senza gerarchie artistiche; quello che avviene con la manipolazione delle opere originali da parte dei media riproduttori, infatti, potrebbe essere inteso anche come una contaminazione, come una possibilità interattiva che trasforma l’originale stesso in un altro originale, altro dal precedente. Quando viene creato un film ad esempio qual è la fase in cui l’opera diventa originale, cioè assume l’aura? Quando viene girato? Dunque è l’istante della recitazione che diventa irriproducibile? Se una tale scena viene girata più volte qual è di queste, quella con l’aura? Si sa che la confezione dell’opera cinematografica in modo definitivo avviene in sede di montaggio dove il regista taglia aggiusta, modifica anche la cronologia delle scene previste nella sceneggiatura, altre decide di toglierle per sempre. Dunque l’opera originale è quella finale? E le copie perdono l’aura?
«Il senso di disagio dell’interprete di fronte alla macchina da presa, così come viene descritta da Pirandello, è in sé della stessa specie del senso di disagio dell’uomo di fronte alla sua immagine allo specchio. Ora, l’immagine speculare può essere staccata da lui, è diventata trasportabile. Dove viene trasportata? Davanti al pubblico […] Questa circostanza come potrebbe non contribuire all’imbarazzo, a quella nuova angoscia che secondo Pirandello si impadroniscono dell’interprete di fronte alle riprese? Il cinema risponde al declino dell’aura costruendo artificiosamente la personalità fuori dagli studios: il culto del divo, promosso dal capitale cinematografico, cerca di conservare quella magia della personalità che da tempo è ridotta alla magia fasulla, propria del suo carattere di merce»[1].
Questo un brano sull’argomento di Walter Benjamin che non intende condurci a valutazioni negative né del cinema né, a minor ragione, della televisione, ma che analizza il cambiamento epocale che avviene compiutamente nel Novecento quando la tecnologia inventa la riproducibilità delle immagini. È da paragonarsi alla rivoluzione di Gutenberg con la quale la parola scritta diventa riproducibile all’infinito? È sufficiente ricordare McLhuan e il villaggio globale dove tutti potenzialmente ascoltano nel mondo, allo stesso istante, le stesse notizie? Oppure c’è da chiedersi anche se nutrirsi di immagini, comunicare per immagini, subire le immagini, pensare per immagini stia cambiando non solo la cultura dell’uomo, ma anche le proprietà di funzionamento del cervello? Il fenomeno è comunque irreversibile. Questo è quello che accade nel nostro tempo, questa è la nostra realtà. Di sicuro non c’è stato il tempo per digerire i cambiamenti, le scoperte, le invenzioni che, per uno scherzo della storia, si sono concentrate perlopiù nel Novecento e mentre le giovanissime generazioni sono più disinvolte, quelle di mezzo sposano il disagio di Pirandello rispetto alla propria identità, rispetto a ciò che è vero e ciò che è virtuale, o forse non c’è una distinzione. Quando si affronta il tema del virtuale si tende e connotare negativamente quello che è considerato un mondo artificiale, finto, che può scomparire da un momento all’altro, invece fino a che c’è, esso esiste. Digerire questo rospo è difficile, pure occorre chiedersi perché il pensiero dell’uomo dovrebbe seguire solo gli schemi consolidati della comunicazione classica come la parola scritta o parlata. Sì, è vero, il fotogramma televisivo scivola via veloce e a volte, più o meno consapevolmente, non viene nemmeno colto. L’occhio però sceglie sempre, in modo soggettivo, ma sceglie sempre il meglio per sé senza curarsi di distinguere tra una mostra di arti figurative, un film o qualunque altra cosa alla televisione. Certo c’è occhio e occhio.
E poi l’artista non è quello che vede oltre, che utilizza materiali, non sempre pennelli e tubetti, per dire la sua, a volte incomprensibile, visione del mondo? Non è infatti così recente, né raro assistere ad artisti che allestiscono mostre totalmente mediatiche o contaminate. Ne costituisce esempio la mostra La Rocca Elettronica di Fabrizio Plessi realizzata alla Rocca Paolina di Perugia nel 1995. Ebbe un tale successo che il titolo con cui viene ricordata è Plessi, cioè il cognome dell’artista, quasi che la parola plessi fosse sinonimo dei moduli che si snodavano lungo la rocca. Grazie ad un video seriale in cui scorreva dell’acqua, si creava un effetto di cascata cui contribuiva anche la colonna sonora. O gli altri moduli titolati Mare di Marmo. Per l’artista non c’è alcuna differenza tra i materiali come il metallo la pietra o il video. Uno scultore elettronico? Sì, come Michelangelo lo è stato con il marmo, direbbero alcuni.
Nell’installazione L’anima della Pietra pone a contrasto una pietra scolpita con un video che la rappresenta per trattare il rapporto tra finzione e realtà. Ma se quello che ci si aspetta di vedere è un’opera d’arte e se quello che si conserva di essa è l’immagine così come l’abbiamo vista, che differenza c’è tra la pietra e la sua rappresentazione? Nessuna.
La Mediart ha già la sua storia, ha i suoi stili ed anche le sue datazioni. Se all’inizio era diretta senza veli al consumo delle merci, oggi la merce da vendere è una conseguenza indiretta, quasi irrilevante. I nuovi talenti, i nuovi artisti sono quelli che creano ogni giorno delle brevissime storie meravigliose, sogni ad occhi aperti dove tutto è bello e perfetto. Sono i nuovi talenti degli spot pubblicitari, vere opere d’arte della mediaticità contemporanea nei confronti dei quali non ha più senso sottolineare che vengono creati per enfatizzare la mercanzia. Lo spot è onirico, è dinamico, narra una storia, chiude il cerchio intorno ad una felicità che sembra a portata di mano. Per alcuni sembra, per altri lo è. Lo spot è un’opera d’arte completa perché oltre alle tre dimensioni può aggiungere la quarta, il tempo, ed anche la quinta, la colonna sonora. Qui il pennello tradizionale è sostituito dal Pixel che è un pennello a cinque dimensioni.
La scala dei valori, peraltro non solo contemporanei, è sempre la stessa: il potere, il sesso, il denaro, in quest’ordine. I creatori di queste opere non dispongono del proprio talento ma vengono usati per realizzare loro malgrado prodotti altri dal loro ingegno.
E queste opere non sono copie perché non hanno a riferimento alcun originale da imitare, non sono irripetibili, non hanno né l’aura né l’anima e non in quanto virtuali, ma perché sono esse stesse vittime del proprio inganno perché la felicità non esiste, esiste la vita.
L’arte mediatica degli spot non sconvolge, non scandalizza, non apre contraddizioni, non sovverte consolidate convenzioni. È un’arte consolatoria, garantisce sogni possibili, è politicamente corretta. Ma è un’arte, un’arte che condiziona, che fa opinione, un’arte che produce comportamenti omologati e condivisi. Chissà perché a molti dà fastidio considerare gli uomini uguali e non si sdegnano quando li si considera omologati.
Il rammarico, anche pirandelliano, dell’altro da sé o della straniazione, ha gettato radici più profonde, è entrato nelle segrete stanze dell’inconscio perché la tendenza culturale, soprattutto giovanile, non è tanto quella di vedere filmato, ripreso o fotografato l’altro da sé, quanto il fatto che questo altro da sé, questo straniato, sia visto dalla piazza mediatica. È questa la nuova identità sociale ambita, presupposto del sono visto, non conosciuto, visto, dunque sono. Nello specchio di Pirandello si riflette la piazza mediatica che non si imbarazza affatto.
Ma l’arte si stanca, l’arte si annoia, l’artista ha bisogno di rompere quello che c’è per creare quello che non c’è e dunque non sarà lunga l’attesa per la nascita di nuovi modi, di altri stili, di altri pensieri. Anche se al centro resterà sempre l’immagine, dipinta, scolpita, mediatica, materica, virtuale o reale.
I grandi committenti del Rinascimento chiedevano agli artisti di rappresentare il loro potere, religioso o terreno. L’artista, per vivere d’arte, ha dovuto sottomettere il suo talento ai mecenati prima, ai mercanti d’arte poi, ed oggi semplicemente alle bizzarrie del mercato che sembra più interessato allo scalpore che può suscitare un’opera, piuttosto che al talento.
Pochi hanno potuto dannarsi come Van Gogh o fuggire come Gauguin.
Perché dovrebbe dunque avere tanto significato l’arte contemporanea? Perché far cimentare o illudere le giovani generazioni a rischio di bruciarle? Perché resta viva l’esigenza di verificare quale testimonianza è passata dai maestri agli allievi? Perché saper disegnare, saper dipingere, saper scolpire è ancora un talento riconosciuto come una dote dell’uomo che non è possibile riprodurre artificialmente. Perché quei geni non sono ancora permeabili alla conoscenza, non sono ancora manipolabili.
Chi si mette a dipingere non ha, almeno all’inizio, un progetto in testa, lo fa come chi si mette a cantare perché ha una bella voce. È spinto dalla passione di sporcarsi le mani con l’arte, di sentire il sudore che gocciola sullo scalpello, lo stress di quando il software non è all’altezza della fantasia umana, insomma di non poter vivere senza creare o ricreare quell’immagine che pulsa nel cervello.
Questo non è omologabile ed infatti diventa hic et nunc l’opera d’arte originale, unica e irriproducibile.
Essa ha un’aura ed un’anima, come l’uomo.

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[1] Dal saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica di Walter Benjamin.
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