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I muri al tempo della globalizzazione

Valter Coralluzzo

Che uno dei tratti salienti dell’epoca attuale possa essere individuato nella dialettica tra globalizzazione e frammentazione è risaputo. Da tempo, infatti, la dinamica evolutiva del sistema delle relazioni internazionali è influenzata da due diverse tendenze: da un lato, la tendenza all’estensione dei vincoli di interdipendenza tra società, economie e culture prima separate, all’integrazione dell’umanità in un unico “sistema-mondo”, alla «coincidenza dello spazio socialmente percepito come significativo per la nostra esistenza quotidiana con la superficie dell’intero pianeta»[1]; dall’altro, la tendenza alla proliferazione dei terreni di scontro tra i soggetti (statali, subnazionali e transnazionali) che competono per spartirsi le spoglie della guerra fredda, alla rinascita di nazionalismi aggressivi forieri di traumatici riallineamenti geopolitici suscettibili di precipitare intere regioni del mondo in un allucinante medioevo di violenza, alla polverizzazione delle identità individuali e collettive in una miriade di appartenenze particolari (etniche, nazionali, religiose) da cui origina quello che Clifford Geertz chiama «un mondo in frammenti»[2]. Viene spontaneo considerare queste due tendenze come opposte e inconciliabili, e in parte lo sono; esse, tuttavia, trovano un significativo punto di contatto nella progressiva erosione delle prerogative sovrane dello stato-nazione: nel primo caso, l’erosione ha luogo dall’alto, nel senso che i processi di mondializzazione dell’economia, travalicando le divisioni tra gli stati e creando uno spazio omogeneo aperto alla libera circolazione delle merci e dei capitali, spostano il centro dei reali processi di decisione altrove; nel secondo caso, invece, l’erosione ha luogo dal basso, nel senso che i processi di frammentazione causano nuove divisioni (o fanno riaffiorare quelle vecchie, che la logica del bipolarismo aveva mascherato senza eliminare) e ridisegnano i confini tra i gruppi umani secondo nuovi criteri, dando forma a un mondo in cui «la ripoliticizzazione di gruppi etnici, nazionali o religiosi fissa contrapposizioni trasversali rispetto a quelle statuali, o perché ritaglia all’interno dei confini di uno stato identità parziali, o perché con effetti ancora più destabilizzanti unisce tra loro cittadini di stati diversi»[3].
Con ogni probabilità, ha ragione Benjamin Barber quando, in apertura del suo libro più noto, intitolato significativamente Guerra santa contro McMondo. Neoliberismo e fondamentalismo si spartiscono il pianeta, afferma che ci dobbiamo preparare a convivere per lungo tempo con queste due tendenze, armati della consapevolezza che esse, pur operando con eguale forza in direzioni opposte – «l’una guidata da odi particolaristici», l’altra «da mercati globali»; «l’una ricreando antichi confini subnazionali ed etnici dall’interno», l’altra «rendendo i confini nazionali permeabili dall’esterno»[4] –, sono accomunate dall’essere entrambe causa di un’accentuata debolezza dello stato e delle istituzioni democratiche[5], ma soprattutto sono legate da una «paradossale interdipendenza»[6]. Il fatto è che quel complesso insieme di fenomeni (non soltanto economici e tecnico-scientifici, ma anche politici, sociali e culturali) a cui si è soliti dare il nome di “globalizzazione” è veicolo, a un tempo, di integrazione e frammentazione, omogeneizzazione e diversificazione, universalizzazione e particolarizzazione. Come mette bene in evidenza Roland Robertson, la globalizzazione «implica la ricostruzione, in un certo senso la produzione, del senso dell’‘essere a casa’, della ‘comunità’, della ‘località’», sicché il “locale”, piuttosto che «come un contrappunto al globale», dev’essere visto «come un aspetto della globalizzazione»[7]. Più precisamente, la tesi di Robertson è che il localismo, il nazionalismo, il fondamentalismo, la chiusura nell’ambito della propria comunità etnica sono associati ai processi di costruzione della cultura globale, ovvero sono un prodotto dei (e nel contempo una reazione ai) processi di globalizzazione, i quali, a causa degli effetti di sradicamento, di decontestualizzazione e di compressione spazio-temporale che provocano, creano in molti individui la necessità della ricerca e dell’affermazione della propria identità etnica, delle proprie peculiarità culturali, delle proprie tradizioni religiose e civili, ciò che spesso conduce al rifiuto della relazione con l’Altro e, nel caso peggiore, alla sua negazione.
Ben si comprende, quindi, perché, come osserva Marc Augé, «in un mondo ‘supermoderno’, soggetto alla triplice accelerazione delle conoscenze, delle tecnologie e dei mercati, si accentua ogni giorno di più il divario tra la rappresentazione di una globalità senza frontiere – che permetterebbe a merci, esseri umani, immagini e messaggi di circolare senza limitazioni – e la realtà di un pianeta diviso, frammentato, nel quale le divisioni negate dall’ideologia del sistema si ritrovano al centro stesso di quel medesimo sistema»[8]. Così come risalta ogni giorno di più la stridente contraddizione da cui sono afflitte, in misura crescente, le nostre affluenti società democratiche: quella tra una cultura ufficiale cosmopolitica, ispirata a valori di inclusione, universalismo e multiculturalismo, che però rimane patrimonio di pochi, e una cultura popolare diffusa che, pur apprezzando i vantaggi offerti dal mercato globale, sembra inclinare verso «il particolarismo quotidiano e irriducibile della tribù»[9], facendo propri umori e malumori di sapore sciovinista, nazionalista e xenofobo (quando non apertamente razzista), che traggono alimento dai timori per il futuro, dai disagi esistenziali causati dall’incertezza economica, dalle preoccupazioni suscitate da ondate migratorie transnazionali percepite come una pericolosa “invasione”, per contrastare la quale non ci si perita di reclamare a gran voce l’adozione di politiche di immigrazione, di naturalizzazione e di accoglienza dei rifugiati e dei richiedenti asilo sempre più restrittive[10]. Se è vero che «viviamo in un’era di idee fluttuanti e di confini aperti»[11], è altrettanto vero che sta crescendo il numero di coloro che, paventando le conseguenze nefaste della omologazione planetaria connessa al prevalere di una concezione della globalità come massa uniforme e indifferenziata, come annullamento di tutte le individualità, tendono a rinchiudersi in se stessi, a far prevalere le ragioni dell’appartenenza (a una patria, a qualche gruppo identificabile) su quelle dell’universalismo e del cosmopolitismo, a concepire la propria comunità come una monade, che si pretende di mantenere immune dal “contagio” prodotto dal contatto con l’Altro, dal confronto con l’altrui diversità – ciò che suona paradossale, dato che il concetto di “immunità” è antitetico a quello di “comunità”. Tocca infine tener conto del cosiddetto “paradosso” o “dilemma” dell’integrazione, consistente nel fatto che ogni processo di integrazione, se da un lato comporta la caduta degli steccati interni all’area che si integra, dall’altro fa sorgere nuove barriere, come quella che si instaura tra chi è dentro e chi è fuori, tra coloro che partecipano al processo e coloro che ne sono esclusi e temono ch’esso finisca per rivolgersi contro di loro: dove i primi vedono essenzialmente un “mercato” vantaggioso per tutti, i secondi tendono a vedere una “fortezza” destinata a perpetuare i privilegi di pochi[12].
Alla luce delle precedenti considerazioni, non stupisce più di tanto che al tempo della globalizzazione, ovunque nel mondo, su scale differenti, si traccino nuovi confini, si delineino nuove frontiere, sorgano nuovi steccati e nuove barriere. Sennonché gli steccati virtuali e le barriere immateriali si possono trasformare in muri, in costruzioni solide, tangibili, resistenti, la cui esistenza costituisce, agli occhi di coloro che si mantengono fedeli a ideali di inclusione, democrazia e cosmopolitismo, un’autentica vergogna, un’offesa intollerabile ai valori della civiltà. Il “muro” per antonomasia era quello di Berlino: eretto nel 1961, per quasi un trentennio esso ha materialmente simboleggiato la struttura antagonistica del sistema internazionale bipolare, rendendo visibile la “cortina di ferro” a cui aveva alluso Churchill nel 1946. Alla sua demolizione, assurta a emblema della fine della guerra fredda, dettero festosamente inizio, durante la memorabile notte tra il 9 e il 10 novembre 1989, migliaia di cittadini berlinesi, il cui slogan ricorrente era: «Mai più muri, mai più guerre». Quella, infatti, era la speranza di tutti: che dopo la caduta del muro di Berlino potesse aprirsi un’epoca di pace e di cooperazione internazionale nella quale i vecchi muri – da quello costruito lungo la linea di demarcazione che separa le due Coree a quello che taglia in due l’isola di Cipro, dalla barriera protettiva (una rete d’acciaio elettrificata alta poco più di due metri e lunga circa 500 chilometri) eretta dallo stato africano del Botswana al confine con lo Zimbabwe al “muro di sabbia” voluto da re Hassan II del Marocco per contrastare la guerriglia saharawi e annettere de facto buona parte del Sahara occidentale – sarebbero stati abbattuti e non ci sarebbe stato bisogno di costruirne di nuovi.
Purtroppo, le cose sono andate assai diversamente. Intanto, quello post-bipolare si è presto rivelato un mondo tutt’altro che pacifico: una recente ricerca, condotta da un gruppo di studiosi dell’Università di Uppsala[13], mostra come, a fronte dei 231 conflitti armati complessivamente rilevabili a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, nei 17 anni compresi tra il 1989 e il 2005 siano stati combattuti ben 121 conflitti armati, così suddivisi: 90 conflitti infranazionali (combattuti tra il governo di uno stato e uno o più gruppi interni di opposizione), 24 conflitti infranazionali internazionalizzati (simili ai primi, tranne che per l’intervento armato di altri stati) e 7 guerre internazionali (combattute tra due o più stati). Inoltre, sembra proprio che nei mutati scenari del dopo-guerra fredda i muri siano tornati in gran voga e abbiano trovato condizioni assai favorevoli alla loro proliferazione. Come ben sottolinea Anna Maria Medici, «inaspettatamente, i decenni successivi alla caduta del muro di Berlino potrebbero finire per essere ricordati come un momento di grande fortuna per muri e barriere d’ogni tipo, risultato tangibile di un’ansia di separatezza che è un primo (e brutale) riflesso dell’ossessione per la sicurezza impostasi nella lunga transizione del post-guerra fredda»[14]; un’ossessione che gli attentati terroristici dell’11 settembre 2001 (e gli altri che sono seguiti, in ogni parte del mondo) non hanno fatto che aggravare, contribuendo a radicare, nella percezione individuale e collettiva, quella sensazione di vulnerabilità in cui molti ravvisano ormai il tratto distintivo della nuova condizione esistenziale della umanità.
In genere, «i muri sorgono per due motivi: paura e desiderio di controllo»[15]. Quelli sorti in questi ultimi anni sono riconducibili a due grandi tipologie: da un lato, si sono realizzate fortificazioni lungo le “linee del fronte” di guerre recenti (come quelle in Iraq e in Afghanistan) e di conflitti territoriali di antica data che da sempre covano sotto la cenere (come quelli indo-pakistano e irlandese) o che stanno attraversando una fase di recrudescenza (come quello israelo-palestinese); dall’altro, sono state erette numerose barriere di contenimento dell’immigrazione clandestina, soprattutto là dove il sistema internazionale sprigiona le più forti tensioni economiche, sociali e demografiche.
Per ciò che riguarda i “muri” del primo tipo, balza subito agli occhi che di «tracciati di frontiera che presentano una concreta tensione alla fortificazione»[16] se ne contano molti nel corso della storia: si pensi soltanto alla Grande Muraglia cinese, al Vallo di Adriano in Britannia, al limes dell’impero romano, alla francese linea Maginot. Oggi, il caso più noto e controverso è senz’altro quello della “barriera di sicurezza” israeliana, la cui filiazione dalla strategia offensiva del “muro di ferro” teorizzata negli anni Venti da Jabotinski[17] è solo apparente, costituendo essa, piuttosto, la traduzione pratica della formula della cosiddetta “separazione unilaterale” di Israele dai territori palestinesi, per mezzo della quale lo stato ebraico intenderebbe, per un verso, proteggere la sua popolazione dalle sanguinose incursioni degli attentatori suicidi e, per un altro verso, preservare la sua identità etnica, minacciata da tendenze demografiche assai favorevoli agli arabi. Naturalmente, da parte palestinese si guarda al “muro di separazione” israeliano – la cui costruzione è iniziata nel giugno 2002 ad opera del governo Sharon e che consisterà, per la maggior parte dei 720 chilometri della sua prevista estensione, in una recinzione d’acciaio alta tre metri, collegata a sistemi elettronici di controllo e di allarme, intervallata da blocchi di cemento armato alti otto metri, torrette di guardia e varchi presidiati – non come a una misura di difesa temporanea, bensì come a un progetto che rivela la volontà di annessione di nuovi territori, e quindi le mire espansionistiche, dello stato di Israele[18]. A quest’ultimo si imputa di aver modificato il tracciato del muro, rispetto al progetto originario che ne prevedeva la costruzione lungo i confini fissati nel 1967 (la cosiddetta “linea verde”), in modo tale da incorporare i principali insediamenti ebraici e ampie porzioni dei Territori occupati, pregiudicando così i negoziati futuri e rendendo praticamente impossibile l’attuazione di una soluzione fondata sulla coesistenza di due stati, per non parlare dei danni materiali arrecati dalla barriera ai palestinesi, in termini di «villaggi divisi, coltivazioni distrutte, separazione del bestiame dai pascoli e dei proprietari dagli appezzamenti di terreno coltivati, confisca di molte proprietà» – danni che la stessa Alta Corte di Giustizia israeliana ha giudicato sproporzionati, intimando la modifica del tracciato di 30 chilometri della barriera, affinché esso risulti meno invasivo dei diritti della popolazione palestinese[19].
Ma vi sono anche altri esempi recenti di barriere difensive di carattere essenzialmente militare: dal muro di 5 chilometri di perimetro che gli americani stanno costruendo a Baghdad, nella roccaforte sunnita di Adhamiya, allo scopo di impedire gli attacchi degli squadroni della morte sciiti provenienti dal vicino quartiere di Sadr City, ai muraglioni di cemento a prova di autobomba che, sempre a Baghdad, circondano la cosiddetta Green Zone, dove sono concentrati i comandi militari, il governo iracheno e le rappresentanze diplomatiche; dalla linea fortificata che l’India ha completato nel 2004 nel territorio del Kashmir, disputato con il Pakistan, al vallo minato di 2.400 chilometri che il governo di Islamabad ha in progetto di costruire lungo il confine afghano, per ostacolare i movimenti dei taliban, dei terroristi di Al Qaeda e dei narcotrafficanti; dal muro voluto dall’Uzbekistan al confine con il Kirghizistan dopo l’attentato di matrice islamica avvenuto nel 1999 nella capitale Tashkent, alla recinzione di sicurezza eretta dall’Egitto a Sharm el-Sheikh dopo gli attacchi terroristici che nel 2005 hanno colpito questa rinomata località turistica sul Mar Rosso; dalla serie di muri e reticolati che, a più riprese, sono stati eretti in diverse aree di Belfast, per separare la popolazione cattolica da quella protestante, allo “schermo di sicurezza” di decine di chilometri con cui l’Arabia Saudita, nel 2004, ha tentato di mettere fine all’infiltrazione di terroristi islamisti e contrabbandieri d’armi provenienti dallo Yemen (barriera che dopo l’accordo raggiunto dai governi yemenita e saudita dovrebbe essere smantellata)[20].
Per ciò che riguarda, invece, i muri anti-immigrazione – che sono «muri protezionistici […] fatti per ostruire il diritto di entrata agli stranieri o rendere la loro vicinanza invisibile o meno visibile»[21], diversamente dal muro di Berlino, che privava i cittadini della Germania comunista del diritto di uscita –, i casi esemplari sono due: il primo è quello del cosiddetto “muro della tortilla” al confine tra Stati Uniti e Messico, con cui da parte statunitense si è cercato, a partire dai primi anni Novanta, di arginare l’ondata sempre più impetuosa degli immigrati clandestini messicani e latinoamericani in genere[22]; il secondo è quello del Sistema Integrado de Vigilancia Exterior (sive) creato recentemente dalla Spagna per respingere gli immigrati nordafricani che si riversano sul litorale andaluso e nell’arcipelago delle Canarie, ma soprattutto nelle enclave di Ceuta e Melilla, dove, in prossimità della frontiera con il Marocco, sono state costruite possenti barriere di filo spinato (quella che circonda la roccia di Ceuta si chiama nueva valla, si estende per una decina di chilometri ed è dotata di torri di avvistamento ultramoderne). Di fatto, però, l’intero Mediterraneo occidentale (in special modo il Canale di Sicilia) si è trasformato, nell’ultimo decennio, in un immenso “muro d’acqua”, sempre più spesso fatale per le migliaia di migranti clandestini che dalle coste africane si imbarcano per raggiungere Italia e Spagna, prime tappe del viaggio della speranza verso un’Europa che, mentre a parole «aspira a diventare il faro della moralità cosmopolita e dei valori democratici», in pratica «pattuglia i propri confini per difendere la sua civilizzazione o per fabbricare la sua europeità»[23], mostrandosi sorda alle ragioni del “diritto ospitale”[24].
Assimilabile alla logica dei muri anti-immigrazione è poi la logica dell’autosegregazione a scopo difensivo, a cui si ispira la nuova metodologia urbanistica delle gated communities, consistenti in quartieri e comprensori protetti, per lo più situati in aree urbane critiche sotto il profilo della sicurezza, all’interno dei quali una comunità, spesso caratterizzata da una forte omogeneità socio-economica, si autonomizza dal contesto esterno, percepito come minaccioso, dotandosi di servizi propri. In effetti, si sente rivendicare sempre più spesso, in molti paesi, una sorta di “diritto alla recinzione”, che implicherebbe la possibilità per chiunque (individuo, gruppo o comunità) di “tirarsi fuori” dal suo territorio, segregandosi in uno spazio idealizzato[25]. Ed è interessante osservare come «il modello, oggi in voga soprattutto in quelle aree del pianeta dove la sperequazione sociale è più marcata, dei comprensori residenziali urbani isolati dai quartieri poveri e travagliati grazie a muri e vigilantes»[26] tenda a essere replicato anche su scala globale, per esempio da coloro che, come Max Singer e Aaron Wildavsky, ritengono che la realtà politica internazionale possa essere interpretata nei termini di una “scissione ontologica” tra due “mondi” reciprocamente impermeabili: quello delle “zone di pace” (corrispondenti grosso modo alla comunità euroatlantica), in cui si godono i benefici dello sviluppo economico, della stabilità politica e della democrazia, e quello delle “zone di conflitto” (in particolare Africa, Asia e America latina), caratterizzate da sottosviluppo, instabilità, autoritarismo e conflitti violenti[27].
Alla categoria dei «muri eretti in contesti circoscritti, come estrema difesa dalla criminalità o, persino, dalla marginalità sociale»[28], appartengono pure la barriera di ferro (alta tre metri e lunga 84) sorta nel 2006 a Padova, intorno a via Anelli, divenuta un pericoloso ricettacolo di immigrati extracomunitari, prostitute, spacciatori e tossicodipendenti, e il muro (alto due metri e lungo 65) costruito nel 1999 (e poi abbattuto) a Usti, nella Repubblica Ceca, il cui scopo era quello di separare la comunità rom dal resto della popolazione – allo stesso modo in cui, nel corso dell’età moderna, in molte città d’Europa, si provvide a isolare gli ebrei costringendoli a risiedere nei ghetti. Merita inoltre segnalare il caso di quei muri “coreografici” che sono finalizzati essenzialmente a occultare la realtà, nascondendola alla vista: per esempio, durante i mondiali di calcio in Argentina del 1978, i militari costruirono un grande muro nella città di Rosario, affinché il mondo non potesse vedere Villa las Flores, uno dei quartieri più depressi dell’intero paese, con migliaia di persone in balia dell’indigenza più assoluta. Infine, non si può tacere il fatto che il ricorso ai “muri”, sia pure temporanei e removibili, sembra essere diventato uno dei principali strumenti di tutela dell’ordine pubblico, soprattutto in occasione di manifestazioni di massa come quelle del movimento no-global: basti pensare che in occasione dell’ultimo vertice del G8, tenutosi nel giugno 2007 a Heiligendamm, la più elegante località balneare della Germania, intorno al Grand Hotel Kempinski, sede degli incontri, è stata eretta, per una lunghezza di 12 chilometri, una inferriata alta due metri e mezzo e sorretta da 4.600 blocchi di cemento di 900 chili ciascuno (subito ribattezzata dai manifestanti “die Mauer”, il Muro, quasi a voler richiamare quello caduto di Berlino)[29].
Al termine di questo percorso, piuttosto deprimente, intorno ai muri del mondo, sorge spontanea la più classica delle domande: che fare? La cosa più importante è che impariamo a considerare l’Altro, lo sconosciuto, lo straniero, come un amico (almeno potenziale) con cui fraternizzare, di cui apprezzare la diversità come un arricchimento, invece di trattarlo alla stregua di un nemico pericoloso da cui difenderci o al quale imporre la nostra civiltà. Per dirla con Antonio Gambino, dobbiamo imparare «ad accettare come eguali coloro che si percepiscono come diversi, e a riconoscere il diritto di essere diversi a coloro che si accettano come uguali»[30], senza interporre muri virtuali o materiali di alcun tipo. Certo, può sembrare un’utopia. Ma come osserva giustamente Serge Latouche, «poiché non c’è speranza di fondare alcunché di durevole sulla truffa di una pseudo-universalità imposta dalla violenza e perpetuata dalla negazione dell’Altro, vale la pena di fare la scommessa che ci sia uno spazio comune di coesistenza fraterna da scoprire e da costruire»[31]. E in questo spazio non ci dovrà più essere posto per i muri; piuttosto, si dovranno costruire ponti, come nel bellissimo sogno di Shimon Peres, che una decina d’anni fa vagheggiava un nuovo Medio Oriente “modello Rialto”, immaginando che la frontiera di Israele potesse trasformarsi «in un ponte veneziano, cioè in un luogo su cui impiantare affari, invece di fili spinati e mine, odio e divisione»[32].


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[1] M. REVELLI, La globalizzazione. Definizioni e conseguenze, in “Teoria politica”, XVIII, n. 3, 2002, p. 46.
[2] C. GEERTZ, Mondo globale, mondi locali. Cultura e politica alla fine del ventesimo secolo, il Mulino, Bologna 1999, p. 11.
[3] ispi, 1992. La pace illusoria, Istituto per gli Studi di Politica Internazionale, Milano 1992, p. 13.
[4] B.R. BARBER, Guerra santa contro McMondo. Neoliberismo e fondamentalismo si spartiscono il pianeta, Nuova Pratiche Editrice, Milano 1998, pp. 14-15.
[5] «La Jihad – scrive Barber – persegue una politica di identità nel sangue, il McMondo un’incruenta economia di profitto. In quanto appartiene, per mancanza di alternative, al McMondo, ognuno è consumatore; in quanto è alla ricerca di un referente della sua identità, ognuno appartiene a qualche tribù. Ma nessuno è un cittadino. Senza cittadini come può esistere una democrazia?» (ivi, p. 16).
[6] Ivi, p. 14.
[7] R. ROBERTSON, Glocalization: Time-Space and Homogeneity-Heterogeneity, in M. Featherstone, S. Lash, R. Robertson (eds.), Global Modernities, Sage, London 1995, p. 30.
[8] M. AUGÉ, Cosa resta delle frontiere, in “La Repubblica”, 8 maggio 2007, p. 49.
[9] B.R. BARBER, Guerra santa contro McMondo, cit., p. 16.
[10] Si veda su questo punto N. Urbinati, Ai confini della democrazia. Opportunità e rischi dell’universalismo democratico, Donzelli, Roma 2007, pp. 87-92.
[11] L.B. PLAKS, I nuovi muri in Europa: rom/gitani – il popolo escluso dalle transizioni postcomuniste, in S. BIANCHINI, M. DASSÙ (a cura di), Guida ai paesi dell’Europa centrale orientale e balcanica. Annuario politico-economico 2000, il Mulino, Bologna 2000, p. 21.
[12] ispi, 1992. La pace illusoria, cit., pp. 19-20.
[13] Si veda L. HARBOM, S. HÖGBLADH, P. WALLENSTEEN, Armed Conflict and Peace Agreements, in “Journal of Peace Research”, vol. 43, n. 5, 2006.
[14] A.M. MEDICI, Il muro di Sharon e altre vergogne, in “Il Ponte”, LX, n. 4, 2004, p. 30.
[15] C. BOWDEN, L’altro muro, in “National Geographic”, vol. 19, n. 5, 2007, p. 86.
[16] A.M. MEDICI, Il muro di Sharon e altre vergogne, cit., p. 32.
[17] A questa strategia fa riferimento anche il “nuovo storico” israeliano A. SHLAÏM nel saggio Il muro di ferro. Israele e il mondo arabo, edizione italiana a cura di A. Zago, Casa editrice il Ponte, Bologna 2003.
[18] Sulle diverse interpretazioni di questo controverso progetto si vedano: E. DUSI, La tentazione di Salomone: un muro per dividere israeliani e palestinesi?, in Quaderni Speciali di “Limes”, supplemento al n. 4, 2001; D. BURGARETTA, Il recinto di separazione secondo gli israeliani, in “Limes”, n. 5, 2003; Y. Elizur, Israel Banks on a Fence, in “Foreign Affairs”, vol. 82, n. 2, 2003.
[19] G.M. QUER, Democrazia e diritti umani in Israele. Un modello per un mondo che cambia, Proedi Editore, Milano 2006, pp. 69-70.
[20] G. PORZIO, Tutti i muri del mondo, in “Panorama”, 24 maggio 2007, pp. 144-146.
[21] N. URBINATI, Ai confini della democrazia, cit., p. 87.
[22] «A dispetto della bonarietà del nome, si tratta di un muro metallico ed ‘elettronico’ molto sofisticato, a tratti realizzato con lamine d’acciaio alte oltre tre metri, dotato di telecamere a infrarossi, radar e di ogni utile tecnologia […], compreso il rilevamento di immagini satellitari» (A.M. MEDICI, Il muro di Sharon e altre vergogne, cit., p. 31, nota 2).
[23] N. URBINATI, Ai confini della democrazia, cit., p. 89.
[24] Si veda T. MARCI, La società e lo straniero: per un diritto ospitale nell’età della globalizzazione, Angeli, Milano 2003.
[25] L’ideale che induce all’autosegregazione può anche essere ripugnante: è il caso degli afrikaner che, dopo la fine dell’apartheid in Sudafrica, progettarono Orania, una cittadina per soli bianchi dove poter continuare a vivere in regime di separazione razziale.
[26] A. Caffarena, Dopo la politica internazionale, in M. Deaglio, G.S. Frankel, P.G. Monateri, A. Caffarena, Economia senza cittadini?, Guerini e Associati, Milano 2002, p. 129.
[27] Si veda M. Singer, A. Wildavsky, The Real World Order. Zones of Peace, Zones of Turmoil, Chatham House, Chatham (nj) 1993.
[28] A.M. MEDICI, Il muro di Sharon e altre vergogne, cit., p. 36.
[29] S. VASTANO, Il Muro della Merkel, in “L’Espresso”, 31 maggio 2007, pp. 93-94.
[30] A. GAMBINO, Gli altri e noi: la sfida del multiculturalismo, il Mulino, Bologna 1996, pp. 73-74.
[31] S. Latouche, L’occidentalizzazione del mondo. Saggio sul significato, la portata e i limiti dell’uniformazione planetaria, Bollati Boringhieri, Torino 1992, p. 149.
[32] S. PERES, Il mio sogno: Israele come Rialto, il ponte degli affari, in “Limes”, n. 4, 1995, p. 35.
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