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Il ruolo delle istituzioni economiche internazionali e alcune proposte di riforma

Andrea Baranes

Nascita delle istituzioni di Bretton Woods

La Banca Mondiale (BM) ed il Fondo Monetario Internazionale (FMI) nascono durante la conferenza di Bretton Woods, organizzata nel 1944 dal Presidente degli Stati Uniti Roosevelt e dagli Alleati per fissare il nuovo ordine economico internazionale al termine della seconda guerra mondiale. Nel corso della conferenza doveva nascere anche una terza istituzione, l’International Trade Organization (ITO), con lo scopo di regolamentare il commercio mondiale. A causa dell’opposizione in primo luogo degli USA, i Paesi partecipanti si limitarono a sviluppare un accordo sulle tariffe sul commercio (GATT), che solo mezzo secolo più tardi, nel 1994, darà vita all’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC o WTO nel più conosciuto acronimo inglese).
Il FMI doveva assicurare la stabilità delle valute mondiali, fissando una parità tra oro e dollaro, al quale erano poi ancorate tutte le altre valute (il Gold exchange standard), e fornire prestiti di breve durata ai Paesi in momentanea difficoltà monetaria.
La Banca Mondiale nasce con il nome di Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo per aiutare i Paesi usciti distrutti dal conflitto mondiale, in primo luogo quelli europei. Questa istituzione entrò quasi da subito in una crisi di identità, visto che il suo compito fu assicurato principalmente dal piano Marshall di aiuti USA all’Europa. Alla ricerca di una propria identità, e costantemente in bilico tra l’operare come un’istituzione finanziaria o una per lo sviluppo, la Banca ha rapidamente girato la propria attenzione ai Paesi del Sud del mondo.
Viene coniata in questo contesto la stessa espressione di “Paesi in via di sviluppo”: si teorizza la necessità di fornire a queste nazioni i capitali necessari per costruire infrastrutture e per aumentare le produzioni agricola e industriale, in modo da aumentare il loro commercio e favorire lo sviluppo. Uno sviluppo da subito inteso quindi esclusivamente come crescita economica.
Negli anni della guerra fredda, i prestiti concessi assumono una forte valenza strategica e geopolitica. Le istituzioni di Bretton Woods, con sede a Washington, divengono uno strumento utilizzato per estendere e rafforzare l’influenza delle potenze occidentali. Nel 1956 la BM finanzia la diga di Akosombo in Ghana, lo stesso anno dell’appoggio sovietico alla diga di Assuan nell’Egitto di Nasser. Nessun prestito viene accordato al Governo democraticamente eletto di Goulart, in Brasile, mentre dopo il colpo di stato militare del 1964 i prestiti iniziarono ad arrivare. Lo stesso comportamento si ripete in Cile, negando ogni finanziamento al Governo Allende e finanziando invece il regime di Pinochet dopo il 1973. Nel 1965 la BM va addirittura contro una risoluzione dell’ONU, accordando un prestito al Governo sudafricano durante l’embargo causato dalle politiche di apartheid. Questo comportamento caratterizza in particolare la lunga presidenza alla Banca Mondiale (1968–1981) di Robert Mc Namara, già segretario alla difesa Usa durante la guerra in Vietnam.


Ruolo e responsabilità di Banca e Fondo

Nello stesso periodo accadono alcuni fatti sulla scena internazionale che cambieranno radicalmente il ruolo delle due istituzioni. Nel 1971 gli Stati Uniti si trovano in una situazione di difficoltà monetaria, legata in primo luogo al costo della stessa guerra in Vietnam. Il Dipartimento del Tesoro non può più assicurare la parità ed il cambio oro–dollaro, ed il presidente Nixon decide unilateralmente di interromperla. Il FMI viene quindi a perdere uno dei suoi principali compiti su scala internazionale.
Il 1973 è poi l’anno della prima grande crisi petrolifera, con due effetti speculari: i paesi importatori di petrolio si trovano in difficoltà per via del costo dell’approvvigionamento, mentre una quantità enorme di petrodollari si riversa sui paesi produttori e esportatori, e da questi nelle principali banche private. Queste ultime si trovano quindi con un forte eccesso di liquidità da impiegare sui mercati internazionali, ed in particolare per prestiti nei paesi del Sud, offrendo finanziamenti a condizioni molto vantaggiose. Questa politica viene sposata da BM e FMI, che incoraggiano i paesi del Sud a contrarre debiti per finanziare “lo sviluppo”. In campo agricolo, la BM lancia la “rivoluzione verde”: una serie di prestiti ai Paesi più poveri per aumentare la produzione agricola, modernizzarla, e trasformarla: non più beni di sussistenza, ma prodotti per l’esportazione, da rivendere sul mercato internazionale. Questo aumento della produzione ed il miglioramento delle infrastrutture avrebbero dovuto permettere un rapido aumento del commercio e delle esportazioni, con conseguente arricchimento dei Paesi poveri.
Le conseguenze sono state molto diverse: il rapido aumento dell’offerta di prodotti agricoli e di altre materie prime, a fronte di una domanda internazionale sostanzialmente immutata, comporta un crollo dei prezzi, mentre il prezzo del petrolio continua ad aumentare. Molti prestiti vengono inoltre concessi per attività improduttive (a partire dai finanziamenti per l’acquisto di armi) e si manifestano diffusi fenomeni di corruzione. In queste condizioni, molti Paesi del Sud non riescono a restituire i prestiti contratti con le istituzioni di Bretton Woods e le banche private. È l’inizio della crisi del debito estero, che ancora oggi, a oltre trent’anni di distanza, continua a strangolare le economie dei Paesi più poveri.


Il nuovo ordine economico mondiale

In questo quadro internazionale, FMI e BM si dicono disponibili a rinegoziare i prestiti o a concederne di nuovi per subentrare come creditori alle banche private, ponendo però delle condizioni ben precise. È necessario che i paesi del Sud assicurino il pagamento dei debiti contratti, sottoscrivendo tutta una serie di misure macroeconomiche - i famigerati “piani di aggiustamento strutturale”. Questi piani, imposti indiscriminatamente a tutti i Paesi poveri ed indebitati, prevedono tagli alla spesa pubblica, a partire dai servizi essenziali ma “improduttivi” quali sanità ed istruzione, per utilizzare le risorse liberate per pagare il debito ed i suoi interessi. L’agricoltura viene ulteriormente spostata dalla produzione per i consumi locali ai prodotti per l’esportazione, per ottenere valuta pregiata accettata sui mercati finanziari. Si incentiva analogamente l’estrazione e lo sfruttamento delle materie prime e l’apertura dei mercati.
Tra il 1981 e il 1994 la BM concede 238 finanziamenti in 75 Paesi destinati a favorire le liberalizzazioni commerciali. Le istituzioni di Bretton Woods spingono per la privatizzazione di settori quali quello energetico, delle risorse naturali, dell’assistenza sanitaria, dell’educazione pubblica, dell’assistenza scolastica, e più in generale di parti essenziali ma considerate “poco produttive” dello stato sociale dei Paesi del Sud. La motivazione ufficiale diventa la “lotta alla povertà”, basandosi sull’assioma, mai dimostrato e anzi fallimentare alla prova dei fatti, che solo il libero mercato e un minore intervento pubblico potranno garantire benessere alle popolazioni.
Le istituzioni di Bretton Woods diventano i cani da guardia dell’applicazione delle dottrine neoliberiste, conosciute anche con il nome di “Washington Consensus” . Le due istituzioni fissano le regole e le modalità per ogni revisione o cancellazione del debito, pur essendo direttamente tra i maggiori creditori: giocatori e arbitri della stessa partita. Una partita giocata sulla pelle dei Paesi più poveri, incastrati in una spirale di debito e povertà, di smantellamento dei propri servizi pubblici ed essenziali, di perdita della propria sovranità ed autosufficienza alimentare, e ridotti a meri produttori di materie prime da destinare ai paesi occidentali, i quali ne fissano anche i prezzi tramite le principali piazze finanziarie.


La nascita della WTO

In questo quadro si inserisce nel 1994 la nascita della WTO, al di fuori del sistema ONU, a differenza della Banca mondiale e del FMI, che almeno formalmente ne fanno parte. La base ideologica del libero commercio, su cui si fonda la WTO, risiede in una teoria economica vecchia di due secoli, il cosiddetto principio del vantaggio assoluto e del vantaggio comparato, secondo la quale ogni Paese dovrebbe specializzarsi nelle produzioni in cui possiede un vantaggio rispetto agli altri, ovvero che riesce ad ottenere con i minori costi di produzione. L’apertura dei mercati permetterebbe di ottenere prodotti e servizi al costo più basso. In gergo economico, il libero commercio garantirebbe un’allocazione ottimale delle risorse su scala internazionale.
L’esasperazione di questo principio porta a considerare qualunque intervento pubblico come una distorsione dei mercati da limitare o rimuovere. Anche le normative riguardanti i diritti sociali e ambientali possono essere considerate come un vincolo ingiustificato alla libera circolazione di merci e servizi. L’unico obiettivo diventa quello di tagliare il più possibile i costi di produzione per conquistare nuovi mercati. È una vera e propria corsa al ribasso in materia di tutele legislative ambientali, sociali e per i diritti dei lavoratori, alla quale tutti i Paesi devono partecipare per vincere la competizione internazionale e per attrarre imprese e capitali.
In questa situazione, le fasce più deboli delle popolazioni vengono escluse dal “mercato” dell’acqua o degli altri servizi essenziali, mentre gli stati sono chiamati a rinunciare al controllo su aspetti fondamentali della vita pubblica e si aprono gigantesche possibilità di profitto per le grandi imprese multinazionali. Tutti hanno bisogno di acqua e cibo per vivere, tutti hanno diritto all’istruzione e tutti prima poi devono avere accesso alle cure mediche. Trasformare questi diritti fondamentali per la vita in merce significa garantire mercati enormi e duraturi per le imprese private.


Le conseguenze degli accordi di libero commercio della WTO

L’esperienza storica delle attuali potenze economiche smentisce la validità dei principi del libero commercio. I Paesi occidentali hanno perseguito per secoli politiche protezionistiche, volte a tutelare il mercato e la produzione locale, e aperto i loro mercati unicamente in una seconda fase. Non è un caso che i Paesi del Sud che conoscono oggi il maggiore sviluppo economico, a partire dalla Cina, sono quelli che sono riusciti a proteggere le loro economie fino al momento di potere competere sul piano internazionale.
Gli impatti degli accordi della WTO sono particolarmente pesanti per i Paesi più deboli. Le loro fragili economie non hanno la possibilità di confrontarsi con i giganti occidentali, senza contare che il loro peso e le loro capacità negoziali sono limitati. Il negoziato agricolo mostra in maniera lampante come il tanto decantato mito del libero commercio sia applicato solo se e quando conviene: gli enormi sussidi all’esportazione che continuano a essere garantiti da USA e UE in primo luogo testimoniano di una liberalizzazione più veloce dove le potenze economiche si sentono più forti (prodotti industriali e servizi), mentre rimane un protezionismo più o meno mascherato dove sono più deboli (agricoltura). Le conseguenze negative iniziano a manifestarsi anche nel ricco Nord. Nel 2004, alla scadenza dell’accordo multifibre, che ha regolamentato per decenni il settore tessile, l’Italia è stata colpita da una dura crisi del settore, crisi che ha colpito diversi altri Paesi produttori, dagli Usa al Bangladesh al Marocco, mentre la liberalizzazione ha comportato un impressionante aumento delle importazioni cinesi. Viene da domandarsi se la colpa sia della sola Cina o piuttosto di un sistema di regole commerciali ingiuste, che esasperano la concorrenza a livello internazionale.
Delle regole imposte dai Paesi occidentali che fino a pochi anni fa potevano contare su una superiorità tecnologica e di capitali assoluta e che la Cina come le altre nuove potenze del Sud stanno oggi applicando alla lettera, come avviene per il Brasile in campo agricolo o per l’India nel settore dei servizi, a partire da quelli informatici. A perdere, ancora una volta, in questo mutato panorama politico, sono in primo luogo i Paesi più poveri del mondo, a partire da quelli africani. Quasi una beffa per loro, che hanno sempre dovuto subire le richieste delle potenze occidentali, e che ora si trovano a fronteggiare dei “nemici” anche nel Sud del mondo. A perdere, in realtà sono anche i milioni di contadini brasiliani esclusi da vantaggi ad esclusivo appannaggio delle grandi imprese dell’agrobusiness e dei grandi latifondisti. Lo stesso discorso potrebbe ripetersi riguardo lo sfruttamento e la perdita di diritti per i lavoratori, tanto nei Paesi del Sud quanto nel Nord. Se la promessa della WTO era quella di creare un sistema in cui vincevano tutti, un win-win game, stiamo assistendo ad una situazione in cui sembrano perdere tutti, se si eccettuano i pochissimi grandi attori, a partire dalle grandi imprese multinazionali, in grado di trarre profitto da una competizione sfrenata. Più in generale, a perdere è l’intero pianeta, costretto a subire le conseguenze ambientali di una dottrina economica che non considera la finitezza delle risorse e che postula come fine a sé stante una continua e illimitata crescita del commercio, dei trasporti e dei consumi.


La crisi di un modello e delle sue istituzioni rappresentative

Dopo trent’anni di applicazione indiscriminata, il modello neoliberista appare assolutamente fallimentare, non solo da un punto di vista ambientale, sociale, della democrazia e dei diritti fondamentali dei popoli, ma anche da quello meramente economico. I segnali della crisi colpiscono direttamente anche le stesse istituzioni, schiacciate sotto il loro stesso peso e sotto la pretesa di porsi come una sorta di ministeri globali della finanza, dell’economia e del commercio. Nei suoi dodici anni di vita, la WTO ha già dovuto affrontare diversi fallimenti, a partire dalla celebre conferenza di Seattle del 1999, secondo diversi osservatori vera e propria data di nascita, o per lo meno presa di coscienza, del movimento altermondialista. Se dalla fine del 2005 la WTO appare in una crisi profonda e forse irreversibile, come tutta risposta si stanno intensificando le pressioni per concludere accordi di libero scambio a livello regionale e bilaterale se possibile ancora più aggressivi, come gli Accordi di Partenariato Economico che l’Unione europea sta negoziando con le sue ex colonie di Africa, Caraibi e Pacifico.
Anche le istituzioni di Bretton Woods sembrano avere perso credibilità e legittimità, in particolare a seguito dell’evidente fallimento del FMI nell’intervenire durante la crisi finanziaria che ha colpito il Sud Est asiatico alla fine degli anni ’90. Invece di rimettersi in discussione, BM e FMI hanno sostenuto che i fallimenti fossero da imputare essenzialmente agli stessi paesi destinatari, ed in particolare alla corruzione ed inefficienza dei governi, ovvero alla mancanza di una “good governance”. Ancora nel 2001 due dei principali economisti della Banca Mondiale hanno pubblicato un rapporto secondo il quale la liberalizzazione del commercio avrebbe permesso da sola di fare uscire dalla povertà 600 milioni di persone. In questo quadro, le due istituzioni hanno provato a lanciare l’idea di una partnership tra pubblico e privato per realizzare i progetti di “sviluppo” – le PPP – Private-Public-Partnership, e quindi promosso sempre più spesso negli ultimi anni i finanziamenti diretti alle multinazionali e ai megaprogetti nel campo dell’estrazione delle materie prime, del petrolio o delle grandi dighe. Progetti caratterizzati da pesanti ricadute sul piano ambientale e sociale, e che continuano spesso a essere approvati in base a criteri che appaiono più legati ad interessi strategici che non alle reali necessità dei Paesi più poveri.
La Banca Mondiale ha pubblicato negli ultimi anni delle linee guida per valutare gli impatti sociali e ambientali dei propri finanziamenti. Delle linee guida già di per se deboli e incomplete, e che non sono mai state implementate con la dovuta attenzione. Anche riguardo al debito estero le due istituzioni hanno provato a lanciare negli ultimi anni alcune iniziative relative alla cancellazione del debito dei Paesi più poveri e altamente indebitati. (Hipc – ovvero High Indebted Poor Countries e Hipc rafforzata), iniziative che si sono rivelate un sostanziale fallimento e una ripetizione degli errori del passato.


Alcune possibili alternative

Le tre istituzioni non solo non hanno contribuito a risolvere i problemi per i quali erano state create, ma hanno al contrario delle enormi responsabilità per quanto riguarda alcune delle principali ingiustizie che affliggono gli abitanti del pianeta. In queste condizioni viene da domandarsi se sia possibile una loro radicale riforma. Riguardo alla WTO, il primo passo deve consistere in una rigida cura dimagrante, sottraendole le competenze e la giurisdizione su tutto quanto non sia strettamente di pertinenza commerciale. Il passo successivo ruota intorno alla stessa definizione di commercio e alla possibilità di implementare nuovi meccanismi per il commercio internazionale. Meccanismi che pongano al centro le esigenze sociali, ambientali e i diritti dei popoli, e nei quali il commercio torni ad essere uno strumento per realizzare questi scopi e non un fine in se stesso.
Alcune proposte che vanno in questa direzione prevedono di sottrarre alcuni prodotti di particolare importanza (sensitive products) per un dato Paese alle regole del libero commercio. Ogni Paese e ogni popolazione deve avere la possibilità di decidere in piena autonomia il proprio percorso di sviluppo, dedicandosi in primo luogo al soddisfacimento dei propri bisogni essenziali e allo sviluppo dei mercati locali, quindi di quelli regionali (in particolare favorendo il commercio Sud–Sud), e poi solo in ultimo di quelli internazionali. Più in generale ogni Paese dovrebbe poter definire autonomamente il suo modello di sviluppo in base alle proprie normative e tradizioni culturali, ovvero quelle che sono state indicate come le preferenze collettive (collective preferences) che un popolo considera come base imprescindibile della propria storia. Sarebbe quindi possibile definire in un quadro multilaterale delle collective preferences valide a livello globale, una sorta di minimo comune denominatore per ridefinire alla base lo scopo e la portata del commercio internazionale.
Un’altra proposta prevede di mettere in piedi dei meccanismi per favorire l’accesso al mercato di alcuni prodotti provenienti dai Paesi del Sud e realizzati nel rispetto di alcuni principi fondamentali in campo ambientale, dei diritti umani o del lavoro, nella direzione originariamente elaborata in sede UNCTAD di un “sistema globale delle preferenze” o Global System of Preferences, mirato a compensare con trattamenti commerciali preferenziali le disuguaglianze esistenti tra diverse regioni. Per le istituzioni di Bretton Woods sono state elaborate diverse proposte di riforma nel corso degli anni. Delle istituzioni quali una Banca Mondiale ed un Fondo Monetario Internazionale potrebbero essere utili ed anzi auspicabili. Lo sarebbero se in primo luogo recuperassero la funzione originaria attribuita loro dal grande economista John Maynard Keynes, che guidava la conferenza di Bretton Woods nel lontano 1944: un istituzione finanziata dai governi di tutto il mondo per combattere la povertà, un’altra pensata per favorire la stabilità monetaria internazionale, sotto la giurisdizione dell’ONU.
Paradossalmente, le azioni del FMI hanno avuto fino ad oggi un effetto opposto a quello di perseguire la stabilità finanziaria e di porre sotto controllo lo strapotere della finanza, con pesanti responsabilità in materia di liberalizzazione dei flussi finanziari e nella questione del debito estero. Oltre ad un cambio radicale di rotta nelle proprie politiche, per Banca e Fondo appare ancora più urgente una profonda riforma dei propri meccanismi decisionali in direzione di una maggiore democrazia e trasparenza. È inaccettabile che, senza alcuna eccezione in oltre sessant’anni di vita, il presidente della Banca sia stato uno statunitense e quello del FMI un europeo, così com’è inaccettabile un meccanismo decisionale fondato sul principio “un dollaro un voto” che esclude i Paesi più poveri e deboli, gli stessi verso cui dovrebbero essere dirette le operazioni delle due istituzioni.


Conclusioni

Le emergenze sociali e ambientali e il fallimento delle dottrine neoliberiste degli ultimi trent’anni impongono una radicale riforma dell’intera architettura internazionale, che parta dalle tre istituzioni che hanno incarnato queste dottrine. Il primo passo deve consistere in un cambio profondo di mentalità. Oggi sono il commercio, l’economia e la finanza a guidare le scelte politiche e le decisioni dei governi. È necessario ribaltare questo approccio, tornando a considerare queste attività come mezzi per raggiungere il benessere e non come fini in se stessi, e riportando i diritti umani, sociali e l’ambiente al centro dell’agenda politica.
È necessario e urgente implementare strumenti politici democratici e trasparenti di controllo sulle sfere commerciale, economica e finanziaria. Questo passa attraverso un rafforzamento del sistema dell’ONU, ad esempio dando seguito alla proposta emersa al termine della Conferenza su Finanza per lo Sviluppo del 2002 a Monterey di creare un “Consiglio di sicurezza economico e sociale” interno all’ONU, che potesse esercitare un controllo sulle istituzioni finanziarie, garantendo la coerenza del loro operato in materia di sviluppo, lotta alla povertà e tutela ambientale.
Un’altra proposta molto interessante per il prossimo futuro riguarda l’implementazione di meccanismi di tassazione internazionale, a partire dalla celebre “Tobin Tax” da applicare sulle transazioni valutarie per limitare le speculazioni e l’instabilità dei mercati finanziari. Le tasse globali rappresentano lo strumento migliore per fare fronte all’impossibilità dei singoli stati nazione di affrontare i problemi globali, ma anche per rimettere in discussione la governance globale e per tutelare e finanziare i Beni Pubblici Globali. Si tratta di strumenti pensati per limitare alcuni effetti negativi (pensiamo all’inquinamento, ai paradisi fiscali e a molti altri) associati ai processi di globalizzazione, e per una redistribuzione tra i suoi grandi vincitori o tra chi ha le maggiori responsabilità per i suoi impatti sociali e ambientali negativi e le fasce più deboli della popolazione mondiale, su cui questi impatti ricadono direttamente.
In tutte queste proposte, i problemi maggiori non risiedono nelle difficoltà tecniche, ma quasi unicamente nella volontà politica, in primo luogo dei governi delle maggiori potenze economiche. In ultima analisi Banca mondiale, FMI, WTO seguono le indicazioni e le decisioni prese dai principali governi, in primo luogo di USA ed Unione europea. È su questi ultimi che ricade la responsabilità di intraprendere le necessarie, urgenti e profonde riforme dei meccanismi e degli stessi principi commerciali, economici e finanziari.
A dispetto di trent’anni di crisi e fallimenti, Banca mondiale, FMI e WTO rappresentano a tutt’oggi i tre bastioni su cui poggia la dottrina neoliberista. Queste istituzioni sono oggi chiamate, anche dalla società civile di tutto il mondo, ad operare una scelta: rivedere urgentemente e radicalmente le proprie politiche, il loro modo di agire e le loro finalità, o essere destinate al fallimento sotto il peso delle loro stesse responsabilità, passate e presenti.

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