Già nell’editoriale del primo numero della rivista, quando si ricordava come al centro del percorso di essa sarebbero stati collocati i temi connessi alla “globalizzazione” nelle sue varie dimensioni, veniva suggerita una chiave di lettura nella quale era implicata una preoccupazione, culturale e politica insieme: che di fronte ai grandi e talvolta drammatici dilemmi di questo processo si registrasse un deficit della politica. Infatti nessuna delle sfide epocali che oggi ci troviamo dinanzi può essere risolta senza che la politica sia reinvestita in pieno di una responsabilità diretta e forte, senza cioè che riacquisti quella capacità di mediazione e di indirizzo delle dinamiche sociali, economiche, finanziare, che in questo momento sembrano invece operare senza vincoli di sorta e senza essere collocate in un disegno programmatico condiviso, sia a livello nazionale che sovranazionale.
Non può certo essere consegnata alla necessaria stringatezza di un editoriale l’indicazione specifica relativa ai modi, ai mezzi, ai contenuti determinati attraverso cui tale idea non deflattiva del ruolo della politica potrebbe diventare prassi concretamente operante. Su questo si possono peraltro trovare utili indicazioni negli articoli dei primi tre numeri. Eppure lo spessore della questione, nella sua sostanza, è chiaramente percepibile non appena si rifletta su quanto sta accadendo in questo scorcio di inizio millennio.
La retroazione dei fallimenti registrati, all’interno delle democrazie occidentali, dallo “Stato sociale” nella forma sperimentata a partire dal secondo dopoguerra, ha dato forza, a partire circa dagli anni ’80 in poi del secolo appena trascorso, alle spinte “neoliberiste” e ha restituito vigore alla convinzione che entro i meccanismi del mercato fosse da ricercare il principio di autoregolazione dello sviluppo economico e dei rapporti sociali. Oggi non meraviglia neppure più il fatto che un governo italiano di centro-sinistra debba ritenere doveroso premunirsi, all’interno e verso i partners europei, dalla critica di aver “interferito” in una scelta cruciale come quella del passaggio di controllo azionario nel settore vitale delle telecomunicazioni; quasi che con “politica delle liberalizzazioni” si debba intendere una sorta di laissez faire in cui ognuno opera in piena libertà senza essere vincolato da un indirizzo politico che salvaguardi gli interessi nazionali, quelli dei fruitori del servizio, quelli di tutti gli azionisti e soprattutto quelli dell’equità e dell’efficienza nel risultato finale.
Allo stesso tempo si è venuta sempre più evidenziando, a livello internazionale, la fragilità degli organismi teoricamente deputati alla realizzazione di un quadro globale improntato ai principi della pace, della cooperazione, del sostegno ai popoli più poveri della terra. Non si è trattato soltanto della circostanza per cui le nazioni più potenti hanno continuato a far valere – se necessario con tutti i mezzi, compresa la guerra – i propri interessi e la propria supremazia, ma del fatto che, nell’agire così, la loro forza è stata sempre messa al servizio dei poteri economico-finanziari i cui legami hanno proceduto con rapidità ed efficacia incomparabilmente superiori a quelli che nello stesso periodo caratterizzavano le fragili interconnessioni politiche tra gli Stati. Se collocata entro tale cornice di riferimento, ogni critica alla guerra in Iraq compiuta in nome della pur giusta ripulsa del neo-integralismo ideologico “occidentalista” della presidenza Bush va almeno in gran parte fuori segno. In un certo senso, se questa fosse la ragione del conflitto, ci troveremmo ancora a disputare sul piano di principi etico-politici, anche se ci sarebbe molto da obiettare sul modo in cui Bush e il suo entourage li intendono e in cui si propongono di tutelarli. Ma il neo-integralismo “occidentalista” è chiamato a legittimare altro, cioè il conflitto sulle fonti energetiche in questa parte cruciale del mondo. E, in assenza della capacità di affrontare tale conflitto attraverso le vie di un’accorta strategia diplomatica (strumento che oggi, con molto ritardo, pure negli ambienti repubblicani viene recuperato di fronte al disastro in atto), così come in assenza di una mediazione politica internazionale autenticamente tale, tutto si svolge con gli unici mezzi che restano se questa mediazione manca: la guerra.
Abbiamo molte ragioni per esibire, di fronte al terrorismo, la nostra “rabbia” e per ostentare il nostro “orgoglio”, come scriveva Oriana Fallaci; ma questo vale solo a condizione che rabbia ed orgoglio siano generati all’interno di una inflessibile coerenza rispetto ai principi costitutivi della democrazia occidentale. E ciò non è avvenuto, se è vero che questi principi sono stati messi al servizio di interessi che rischiano di trasformarli in moneta spicciola della volontà egemonica degli Stati Uniti. L’indignazione deve investire tanto il fanatismo terrorista quanto l’errata risposta ad esso: a questo ci chiama la nostra coerenza con i valori della libertà duramente difesi contro i totalitarismi. Altrimenti le “giornate della memoria” trascorrono invano. Un principio di equità preso sul serio implica la comprensione che non si può rendere giustizia alle vittime delle Due Torri senza renderla anche a quelle del neo-imperialismo messo in atto dalle potenze economicamente dominanti del mondo: la fame, la povertà, l’esportazione forzata di modelli di civiltà che violentano e cancellano senza distinzioni le tradizioni dei popoli diversi da quelli dell’Occidente mettendo in atto un insidioso neo-razzismo (si veda la seconda sezione di questo numero) gridano vendetta esattamente come il ricordo di quanti sono rimasti schiacciati sotto le macerie dei grattacieli schiantati dai terroristi. Non si vince il terrorismo senza realizzare sviluppo solidale e senza il rispetto delle culture diverse dalla nostra; e ad attutire questa considerazione non basta dire, come peraltro è vero, che il terrorismo ha anche radici sue proprie e non può essere ridotto unicamente a reazione contro i fenomeni appena ricordati. I fattori che vanno tenuti presenti nella lotta contro il terrorismo sono molti e diversi; ma l’uno non annulla l’altro.
Ne La pace perpetua Kant vedeva nello «spirito commerciale» e nella «forza del denaro» una prima, elementare, ma importante spinta per «promuovere la nobile pace», la quale però non aveva certo per lui in questo «spirito» e in questa «forza» il suo fondamento «morale», potendolo ricevere solo invece dalla «ragione morale» come «legislatrice». La storia, si direbbe, ha inflitto a questa speranza una dura smentita, arrestando il processo a quelle che avrebbero dovuto esserne le origini, i presupposti minimi, e facendo di un mezzo possibile (la forza del denaro) il fine. L’auspicabile governo politico della globalizzazione sembra, invece di avvicinarsi, allontanarsi ogni giorno di più e un gaudente cosmopolitismo del mercato planetario (almeno per chi ha le risorse per goderne) gestito delle più grandi potenze economiche del pianeta pare essere diventata la direzione di marcia apparentemente inarrestabile, mentre la prospettiva del cosmopolitismo politico basato sull’uguaglianza dei popoli e sul rispetto dei diritti umani rimane come ridondante richiamo ideologico di classi politiche che sembrano ormai incapaci di prendere in mano sul serio i processi che dovrebbero guidare e dei quali invece sono rimasti prigionieri.
Gli esiti cui assistiamo nel campo, per esempio, delle risorse energetiche (argomento della terza sezione di questo numero) è rivelativo: il vuoto di direzione politica, di intese concertate efficaci sul piano interno e internazionale, di adeguate scelte concernenti i tempi e i modi degli interventi possibili, rischia di creare una crisi epocale e senza ritorno, di cui le generazioni future pagheranno i prezzi più alti. Quello che si potrebbe definire l’appalto che la politica ha ormai largamente concesso all’economia come motore e guida dello sviluppo implica anche infatti questo risvolto, cioè l’indebolimento della volontà e della capacità di previsione e di cura per chi verrà dopo di noi: previsione e cura fondate e indirizzate secondo imperativi morali e non secondo disegni dettati unicamente o prevalentemente dalla coppia motivazionale costituita da interesse-profitto. È utopistico pensare che la logica del mercato mondiale, qualora sia lasciata a se stessa, possa assolvere quei compiti che la eccedono; e la eccedono perché dell’interesse e del profitto implicano sovente il sacrificio, cioè il rinvio della realizzazione immediata dell’uno e dell’altro, nonché la riformulazione della gerarchia delle priorità nella produzione e nella distribuzione dei beni.
Dire questo non implica affatto esprimere un giudizio negativo in senso moralistico della logica in questione; molti esempi stanno infatti a dimostrare le potenzialità di un intervento economico che sappia coniugare interesse e giustizia e che si sviluppi nel senso dell’equità. Ma la massima attuazione di queste potenzialità si ha solo quando gli obiettivi dell’economia, nel campo dei singoli paesi e in campo sopranazionale, sono inseriti nel contesto di un disegno di crescita e di compatibilità che unicamente la politica può e deve dettare. Il nesso tra economia e politica va stretto recuperando la veneranda, ma non per questo obsoleta, idea che la realizzazione del bene comune è finalità propria della politica, in quanto spazio che consente la mediazione degli interessi particolari in vista di ciò che torna a vantaggio della comunità nella sua interezza. Certo, questa è oggi una partita che deve essere giocata sempre più a livello globale e non solo nazionale. Ma il fatto paradossale è che, nel momento stesso in cui il recupero di questo modo di concepire e praticare la politica si rivela urgente quanto mai prima, la politica appare, nella gran parte dei casi, incapace di sottrarsi alla pressione degli interessi particolari.
Il che non comporta certo affermare che non esistano sforzi anche significativi orientati in diversa direzione, ma significa comunque riconoscere che la bilancia pende ancora chiaramente dalla parte sbagliata. Basta guardare al modo in cui sono stati affrontati, anche in questi ultimi mesi, i problemi dell’ambiente (conferenza di Bankok e G8 di Heiligendamm) per rendersene conto. E nel conto va messo anche che i paesi economicamente emergenti, come la Cina – che saranno i soggetti portanti dello sviluppo nei prossimi anni – hanno abbracciato la logica del profitto come obiettivo prioritario, creando, nel caso cinese, un legame inedito ma significativo tra comunismo nazionalistico-autoritario in politica e accettazione delle dinamiche capitalistiche in economia.
Un certo ottimismo “liberale” di marca occidentale interpreta questo fenomeno alla luce della convinzione che prima o poi la liberalizzazione dell’economia e i vincoli internazionali porteranno con sé anche la democratizzazione politica. Ma la Cina è anche l’esempio (non nuovo) di come un’economia che si sviluppa – pur in misura ancora parziale – in senso capitalistico non sia incompatibile con un sistema politico autocratico. L’ingresso in grande stile di questo paese nell’arena economica internazionale è stato dovuto per ora alla sua crescente competitività sul mercato, alle sue risorse, allo sfruttamento intensivo della forza lavoro interna – insomma a tutto quanto ha dato luogo a una crescita così forte e a buon mercato che comincia ad allarmare la concorrenza –, mentre l’autoritarismo interno, di fatto, non ha pesato che in modo relativo sulle considerazioni che hanno indirizzato e permesso la nuova collocazione nello scacchiere mondiale dell’ex impero maoista. Sorge spontanea la domanda se sia velleitario congetturare che i criteri di ammissibilità in tale scacchiere potrebbero, in linea di principio e in un auspicabile futuro non troppo lontano, essere diversi o che potrebbero diventarlo. Chi censura tale domanda come non “realistica” deve assumersi la responsabilità di riconoscere che ogni volontà di indirizzare diversamente le relazioni tra i paesi del mondo è velleitaria; ma, con questo stesso gesto, si priva della possibilità di stigmatizzare lo scempio della dignità umana e delle risorse naturali che si va consumando da decenni a questa parte. Di fronte a tali fenomeni si autocondanna a tacere o ad approvarli. Il prezzo del realismo politico, per chi vuol pagarlo veramente, è alto.
Per ora, quanto sta avvenendo è comunque significativo di ciò che conta e di ciò che non conta (o conta meno) nei rapporti tra le potenze. Il fatto è però che, qualche secolo dopo Kant, siamo autorizzati dalla storia a pensare ragionevolmente che la «forza del denaro», piuttosto che costituire la «garanzia» che la «natura come grande artefice» predispone per il traino del diritto cosmopolitico, potrebbe esserne la tomba. E allora sì che la “rabbia” sarebbe giustificata, e lo sarebbe in un senso autenticamente compatibile con la nostra tradizione di libertà, di democrazia, di solidarietà.
R. G.
IN QUESTO NUMERO
Il terzo numero di Cosmopolis si apre con una sezione dedicata al tema dello sviluppo del pianeta: il saggio di Pietro Barcellona ci introduce all’imminente crisi che l’ecosistema della Terra sta per affrontare, sottolineando la necessità di formulare soluzioni che modifichino il frenetico ritmo del progresso tecnologico e consumistico che segna la vita dell’uomo occidentale. In questo senso, l’autore si propone di recuperare l’idea del limite come essenziale legame in grado di conferire all’uomo responsabilità nei confronti delle generazioni future. Di necessità di porre limiti parla anche Mauro Bonaiuti, il quale ci ricorda il “paradosso del benessere” che caratterizza il mondo occidentale: nonostante la crescita del PIL, dei consumi e dei redditi, il benessere sociale, oggi, si va sempre più riducendo. Bonaiuti propone in quest’ottica di sostituire al mito dello sviluppo la logica della decrescita, che oppone la qualità della vita all’efficienza, la cooperazione alla competizione sfrenata e la dimensione locale “piccola” e decentrata alla vastità di istituzioni, imprese e mercati. Il contributo di Francesco Gesualdi, sulla stessa linea, ci pone di fronte ad uno dei dilemmi più angoscianti della nostra epoca: accelerare la crescita economica per uscire dalla povertà o diminuire la crescita per salvare il pianeta? L’autore sostiene la percorribilità di una strada che coniughi equità e sostenibilità: la conversione alla sobrietà, ossia all’accettazione di uno stile di vita, personale e collettivo, più parsimonioso, più lento, più inserito nei cicli naturali, in grado di lasciare ai poveri le risorse e gli spazi ambientali dei quali hanno bisogno. Di povertà e globalizzazione tratta anche il saggio di Bruno Amoroso, che ridiscute il significato di questi complessi e talvolta controversi concetti e ci introduce ad alcuni dei più recenti dibattiti sull’argomento. Il contributo di Jean-Jaques Salomon ci invita a riflettere sul ruolo storico della scienza e sulle sue responsabilità morali, guardando criticamente alla possibilità di una soluzione tecnologico-scientifica ai problemi legati allo sviluppo. In questa sezione troviamo anche un confronto tra Elahe Zomorodi e Mehdi Aminrazavi, dal quale emergono le riflessioni del filosofo iraniano a proposito di salvaguardia dell’ambiente ed ecologia, ma anche di questione razziale e sviluppo tecnologico. Il contributo di Vandana Shiva ci invita a riflettere sui problemi connessi all’impatto delle biotecnologie sulla cultura indiana, soffermandosi sulla complessa questione della privatizzazione dei semi e della loro possibilità di brevetto. Con il saggio di Roberto Vecchi e Martina Mancini ci spostiamo in Brasile, nelle favelas periferiche, realtà che, pur nella loro drammaticità, costituiscono oggi un magmatico spazio di creatività e cultura. Il contributo di Guido Samarani, invece, ci porta in Cina, paese nel quale, oggi, la transizione da un’economia socialista pianificata ad una economia di mercato sembra quasi completamente compiuta, ma che si trova di fronte ad una sfida non meno complessa e ardua di quella sinora portata avanti: il passaggio dal tema della “transizione” a quello dello “sviluppo”, infatti, comporta la necessità di creare istituzioni efficienti e stabili, di far fronte alle nuove domande sociali e, soprattutto, di proteggere e tutelare i settori più vulnerabili della popolazione cinese. Il contributo di Luca Martinelli e Marco Bersani ci svincola da una rigida collocazione geografica introducendoci ad un tema che trascende i confini: quello della privatizzazione dell’acqua e dell’urgente necessità di tutelare un bene comune ed un diritto universale e fondamentale. Il contributo di Andrea Baranes, infine, ci mostra come le emergenze sociali ed ambientali ed il fallimento delle dottrine neoliberiste degli ultimi trent’anni impongano una radicale riforma dell’intera architettura internazionale, a partire da tre grandi istituzioni: WTO, Banca Mondiale e FMI. Nella seconda sezione vengono affrontati la realtà delle differenze ed il controverso e ambiguo concetto di “razza”: il saggio di Thomas Casadei ci mostra come sia possibile utilizzare la nozione di razza quale duplice “strumento diagnostico”. Se infatti da un lato, sottolinea Casadei, parlare di “razza” non è scientifico, e dunque adottare un discorso incentrato sulla razza come dimensione biologica significa cadere irrimediabilmente entro la rete del “razzismo”, dall’altro lato l’esclusione di tale termine può avere effetti ideologici che possono mascherare precise modalità di dominio e sopraffazione: è proprio a partire da questa costitutiva ambivalenza, da questo apparente paradosso, che si muovono i saggi presentati in questa sezione. Di questione razziale nel discorso pubblico statunitense ci parlano sia Patricia J. Williams, con un saggio sull’ascesa alla Casa Bianca del Senatore Democratico Obama, sia Massimo Gelardi, che racconta l’America della Post Civil Rights Era, nella quale, paradossalmente, la discriminazione razziale si nutre della sua negazione. Anche Riccardo Gori-Montanelli si occupa di una questione squisitamente statunitense quale quella dell’“affirmative action”, riguardante gli interventi a favore di gruppi razziali svantaggiati portati avanti dal governo americano. Se dall’intervista a Carole Pateman affiora un complesso e problematico intersecarsi della questione razziale con quella di genere, Étienne Balibar discute di un ritorno del concetto di razza nell’ambito del discorso pubblico, declinato sia negli Stati Uniti sia nel contesto europeo. Con il contributo di Ilaria Maria Sala lasciamo l’America per occuparci delle politiche razziali e del problema della definizione delle differenti etnie nel variegato panorama del continente asiatico. A partire dall’esame di situazioni concrete legate alla questione razziale in Brasile, invece, Eduardo Rabenhorst analizza nel suo contributo le numerose e rilevanti difficoltà di consolidamento di un vero e proprio pluralismo politico. La terza sezione è dedicata al tema del riscaldamento globale, analizzandone anche le implicazioni etiche e politiche. In essa Dimitri D’Andrea si sofferma sugli aspetti tecnici, ma anche cognitivi e socio-politici del fenomeno del riscaldamento globale. Anche Luigi Pellizzoni guarda al problema del cambiamento climatico come ad un “oggetto culturale”, affrontando il tema dell’incertezza che circonda tale fenomeno e quello dello scottante rapporto che si instaura tra scienza e politica. Se il saggio di Bruno Carli si sofferma criticamente sull’approccio e sul metodo con il quale la scienza affronta il problema del cambiamento del clima e sulle inevitabili e urgenti scelte che la politica è chiamata a compiere, Giampiero Maracchi ricostruisce storicamente gli effetti delle attività umane sui cambiamenti climatici, denunciando le responsabilità di un modello economico globale fondato sull’idea di sviluppo illimitato. Sergio Filippo Magni, invece, si concentra sul problema della responsabilità che investe le generazioni, a partire dall’assunto per il quale la scelta di una determinata azione, oggi, può avere non soltanto buone o cattive conseguenze sulle persone che esisteranno, ma anche effetti su quali e quante persone vivranno dopo di noi. Anche Dale Jamieson parla del cambiamento climatico come di un fenomeno che investe la sfera della moralità e, in seconda battuta, l’ambito politico-sociale. Roberto Gatti, infine, per la sezione “Tra le righe”, torna sul tema del rapporto tra religione e sfera pubblica democratica al quale era stata dedicata la sezione di apertura del secondo numero, ripercorrendo criticamente le posizioni dell’ultimo Habermas.