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Editoriale

Il volto ambiguo della globalizzazione:
dinamiche e patologie dell'interdipendenza


La diffusione di un certo mito della globalizzazione, che fino a pochi anni fa sembrava destinato ad imporsi senza rilevanti resistenze su scala planetaria, ha subito in questi ultimi anni una significativa, e per molti versi drammatica, battuta di arresto. Si tratta di un mito che, pur essendo incentrato su una visione unilaterale, si regge su una fitta trama di saperi e strategie di potere. La sua configurazione è stata per anni al centro del dibattito pubblico ed è, quindi, nota: la globalizzazione come processo, autopropulsivo e ineluttabile, di trasformazione del pianeta in un unico “villaggio” governato dalle leggi del libero mercato, concepite, allo stesso tempo, come fonte di benessere economico e condizione della libertà politica. Una prospettiva semplicistica, che tuttavia si situa all’interno di una complessa costellazione di paradigmi teorici, valori, progetti, norme e pratiche. Basti qui richiamarne le componenti principali: il primato dell’homo oeconomicus e della razionalità strumentale ad esso correlata; la liberal-democrazia di tipo proceduralistico quale migliore forma di governo da estendere su scala planetaria per garantire l’universale godimento dei diritti umani, attraverso l’apertura del mercato mondiale o, dove fosse necessario, con la forza delle armi; la progressiva privatizzazione delle conoscenze quale propulsore dell’innovazione tecnologica e, dunque, quale garanzia delle ricadute sociali del progresso scientifico; un’idea di sviluppo incentrata sulla mera crescita quantitativa; la fede prometeica che vi sia sempre, o che comunque vi sarà in futuro, una soluzione di tipo tecnologico ai problemi, spesso estremamente gravi, creati da tale modello di sviluppo.
Una visione, com’è evidente, con la pretesa di essere, allo stesso tempo, descrittiva e prescrittiva, di illustrare i cambiamenti in atto e di indicare le mete verso cui muovere: per molti versi una filosofia della storia di tipo sostanzialmente messianico nel cuore dell’epoca in cui era stata sancita la fine della storia e delle ideologie messianiche. Suo corollario è stata una certa arroganza, con venature spesso razziste, portata a leggere le resistenze - di natura economica, culturale e politica - all’imporsi di tale mito quale mere reazioni di tipo regressivo frapposte al “progresso” da forme di civiltà percepite di fatto, ossia al di là della retorica politically correct, come arretrate, quando non inferiori.
Il tentativo di imporre questa immagine-programma ha prodotto risultati che sono sotto gli occhi di tutti: non soltanto generalmente non si è stati in grado di governare e ridurre i principali fattori di crisi sociale, politica, ambientale ed economica affrontati (alcuni dei quali, naturalmente, hanno origini lontane), ma sovente si è provocato il loro consolidamento o addirittura la loro radicalizzazione: basti pensare alla deriva irachena, alla crescita dell’integralismo islamico, al conflitto israelo-palestinese, all’insorgere di cambiamenti climatici che sfuggono sempre di più alla capacità umana di gestione tecnologica della natura o all’aumento delle disuguaglianze tra le diverse aree del pianeta, con l’enorme potenziale di conflittualità che esso contiene.
In ambienti culturali e politici diversi è stata avviata una riflessione critica volta ad elaborare un approccio capace di cogliere tutta la complessità dei processi in corso, nel tentativo di elaborare risposte efficaci e condivise. Cosmopolis intende fornire un contributo a tale riflessione nella convinzione, esplicitata nella presentazione del primo numero, che i suddetti fattori di crisi vadano considerati non tanto come una minaccia per l’Occidente, bensì come un’occasione di autocritica. Quest’ultima, da un lato, presuppone un recupero della riserva etica, politica e spirituale che è interna alla propria identità e che non si lascia ridurre a ciò che si intende mettere in discussione; recupero che comporta la capacità di stabilire un rapporto virtuoso tra tradizione e innovazione, quindi la disponibilità a ridiscutere costantemente il profilo di tale identità. Dall’altro, implica un’apertura a ciò che è esterno, per intessere un confronto autentico con il diverso. Nessuna autosoppressione, come temono coloro che negli ultimi anni si sono autoproclamati “difensori” dell’Occidente, bensì riscoperta e valorizzazione della sua intima complessità, nella convinzione che esso possegga alcune indispensabili risorse per costruire un mondo globalizzato diverso da quello prefigurato dal paradigma finora dominante. Ma questo non può bastare: restare confinati nell’ambito di una riflessività meramente autoreferenziale significherebbe proporre semplicemente una forma più raffinata dello stesso autismo identitario che si intende superare.
Non si tratta di rinunciare ai valori in cui crediamo, ma di metterli in gioco, e dunque alla prova, nel rapporto con le altre culture. Il rischio da evitare è quello di considerarci “misura della civiltà”, espellendo ogni spirito critico dal codice genetico dell’Occidente e proponendo quest’ultimo come modello cui uniformarsi su scala planetaria. Il correlato di un simile approccio è il rifiuto della “contaminazione” culturale, del cosiddetto “meticciato”, un rifiuto che finisce, di fatto, per riprodurre quella concezione chiusa, pura, statica dell’identità che caratterizza l’integralismo religioso che si intende combattere. È paradossale, inoltre, che l’appello a difendere la nostra identità, intesa in questa accezione riduttiva, venga spesso sollevato da uomini politici e intellettuali liberali favorevoli agli attuali processi di globalizzazione. Ma la crescita dell’interdipendenza planetaria, che accompagna tali processi, è separabile dall’aumento della “contaminazione” tra culture? Non è contraddittorio che si sostenga la prima e si combatta, invece, la seconda? È probabile che un’interdipendenza senza l’apertura al dialogo autentico produca uno scontro tra culture e, in ultima istanza, dei violenti conflitti. È a partire da tali interrogativi che vengono proposti, in questo secondo numero di Cosmopolis, diversi articoli sul tema del rapporto tra politica, conflitti e comunicazione interculturale.
“Interdipendenza” è, a ragione, considerata da molti la parola chiave della nostra epoca. Se particolare enfasi è stata posta, però, su quella di tipo funzionale che sempre di più caratterizza le relazioni economiche, minore attenzione è stata prestata all’interdipendenza delle dimensioni esistenziali che connotano la vita delle persone. Il mito cui abbiamo fatto riferimento in precedenza è correlato ad una profonda disarticolazione dell’esistenza in ambiti separati (politica, etica, religione, ecc.), la quale è oggi messa in discussione, allo stesso tempo, dall’esterno e dall’interno dell’Occidente. In primo luogo, dal rapporto con persone appartenenti a culture per le quali vi è un continuum tra le diverse sfere della vita individuale e collettiva. Inoltre dalla centralità assunta, nell’agenda politica dei governi democratici, da questioni (come, ad esempio, quelle relative alle coppie di fatto, alla fecondazione assistita o agli interventi sull’embrione) che hanno portato consistenti settori delle moderne società secolarizzate a postulare la necessità di ristabilire un forte vincolo tra etica, religione e politica. Ed è proprio con una sezione sul rapporto tra religione e sfera pubblica che si apre questo numero di Cosmopolis, nella convinzione che su tale questione la ricerca di punti di convergenza tra i diversi orientamenti culturali possa produrre dei risultati soltanto sulla base non solo della conoscenza e del rispetto reciproci, ma anche di un profondo ripensamento di atteggiamenti irrigiditi e spesso astratti. A tal fine appaiono inadeguate a far fronte alla crescente complessità delle nostre società, e dei problemi che esse sono chiamate ad affrontare, sia le posizioni nostalgiche di una politica di tipo confessionale, sia quelle che, partendo da un principio di laicità incentrato sull’idea che le decisioni politiche debbano essere neutrali da un punto di vista etico, considerano come indebita ingerenza nella sfera politica (e come attacco alla laicità di quest’ultima) ogni tentativo di dare rilevanza pubblica ad orientamenti etici con basi religiose. Forse, di fronte a questioni come quelle richiamate precedentemente, il rispetto delle diversità e dell’autonomia individuale diventa possibile non trincerandosi, come spesso avviene, dietro la presunta neutralità etica della politica, ma assumendo in maniera chiara le opzioni etiche - che inevitabilmente sostengono determinate scelte politiche, anche molte di quelle che si autocomprendono come laiche - quale oggetto di discussione e deliberazione pubblica. La laicità non andrebbe, quindi, concepita come una sorta di fortezza eretta per difendere la sfera pubblica dalle intromissioni dei valori etici (di radice religiosa e non), ma come un atteggiamento caratterizzato dalla disponibilità al confronto e dallo spirito critico, sulla base del buon uso della ragione come medium universale di un’intesa difficile ma possibile.
In riferimento al rapporto tra le diverse dimensioni esistenziali che connotano la vita delle persone, la sfida risiede forse nella capacità di pensare un’interdipendenza che non degeneri in fusione e una differenziazione che non sfoci nella disarticolazione. Un tentativo che non può non presupporre la consapevolezza del fatto che nel nostro atteggiamento verso la politica è spesso in gioco, in maniera diretta o indiretta, anche il modo in cui ci interroghiamo sulle cosiddette “questioni ultime”: ad esempio, le risposte che diamo al problema del senso dell’esistenza e a quello del male, la maniera in cui pensiamo alla morte ed elaboriamo il lutto o l’immagine che abbiamo della felicità cui aspiriamo. Ed è proprio a quest’ultimo tema che Cosmopolis ha dedicato la seconda delle tre sezioni del numero. Scriveva Nietzsche: «Profondo è il mondo -: e più profondo di quanto mai abbia pensato il giorno». Ciò che nasce e si sviluppa nella luce della sfera pubblica affonda spesso le proprie radici nell’invisibile profondità della mente e del cuore umani: è solo non rimuovendo gli interrogativi che sorgono in questa regione “oscura” che diventa possibile un approccio non superficiale alle questioni pubbliche.


Vincenzo Sorrentino


Questo numero è dedicato agli studenti di Teheran

IN QUESTO NUMERO

“Religione e sfera pubblica” è il titolo della sezione che apre il secondo numero e le interviste a Raimon Panikkar e Günter Gebhardt ne rappresentano l’ideale punto di partenza. Il primo contributo infatti ci introduce nel mondo delle “religioni”, proponendo un pluralismo religioso che non dimentica l’unicità della verità: un’ipotesi interculturale che può aiutarci a far fronte ad alcune grandi sfide del terzo millennio. Gebhardt ci illustra, invece, la sua proposta di “etica globale”, un insieme di assunti etici di base su cui possano concordare le diverse religioni della terra, e fornisce una risposta all’obiezione che in questo modo si rischi di ridurre la fede a mera religione civile. Marco Ventura analizza il rapporto religione-democrazia, evidenziandone la correlazione, all’interno di un quadro che salvaguardi la laicità dello stato. Massimo Campanini si occupa invece del rapporto tra Islam e democrazia, tramite una dettagliata ricostruzione storico-politica che apre alle sfide del futuro. Fuori dall’Occidente ci portano anche le riflessioni di Furio Colombo sugli Stati Uniti, con particolare attenzione al neo-integralismo dei teo-cons, e di Elio Bromuri, che analizza, anche tramite un’indagine storica, concordanze e discordanze tra Occidente e mondo ortodosso sul modo di concepire la religione nel “pubblico”. Francesco Viola caratterizza e distingue le identità religiose e culturali, a partire dalla tematica del “riconoscimento”, sia questo riferito ai valori o alle persone. Chiude la sezione Ambrogio Santambrogio, che prende spunto dal testo di Enzo Bianchi, La differenza cristiana, per proporre alcune riflessioni sul Cristianesimo e sul principio di laicità.
Nella seconda sezione, Cosmopolis affronta il tema della felicità da punti di vista molto diversi tra loro. Amina Crisma dialoga con François Jullien sulla concezione della felicità in Cina, priva dell’idea di “finalità” propria dell’Occidente. Del rapporto tra felicità e tecnica nel “mercato” occidentale e, in questo contesto, del ruolo svolto dalla psicoanalisi, come educazione alla libertà, si occupa, invece, Sergio Caruso. I contributi di Antonio Pieretti, Franco Crespi e Francesco Totaro offrono una lettura più generale: un excursus storico-filosofico, dall’orfismo al XX secolo, sui significati assunti dall’esperienza radicale della felicità (Pieretti); una riflessione sulla felicità a partire dal rapporto tra costruzione dell’identità, intersoggettività e apertura alla politica (Crespi); un’analisi della compatibilità tra ragione cinica e felicità, sulla base delle contemporanee dialettiche negative dell’apparire e del desiderio (Totaro). Il punto di vista di Paolo M. Di Stefano è invece quello del marketing e rappresenta una possibile risposta alla domanda: la felicità può essere un prodotto di scambio e il danaro può dare la felicità? Le due interviste finali introducono, invece, due approcci particolari: Stefano Rulli ci parla dell’infelicità a partire dal diverso, sulla base della sua esperienza familiare e cinematografica, come regista e sceneggiatore; Candido Cannavò affronta invece il tema della disabilità nella pratica sportiva e, quindi, della felicità attraverso l’esperienza della sofferenza.
Il tema che unisce gli interventi della terza ed ultima sezione è quello del rapporto tra forme di comunicazione e politica, con particolare riferimento alla prevenzione e neutralizzazione dei conflitti nell’era della globalizzazione. Se le interviste a Flavio Lotti e Gino Strada intendono descrivere l’attività di parte delle associazioni e dei movimenti pacifisti e indicano come la scelta dei linguaggi si modelli sui contenuti e sui valori che ne sono la fonte di ispirazione, il contributo di Giovanna Botteri ci mostra come l’utilizzo delle parole cambi la percezione che abbiamo della realtà, soprattutto in situazioni, come la guerra, in cui domina la logica amico-nemico. Elahe Zomorodi scrive invece di Iran, mostrandoci tutta la complessità di un paese che non si lascia ridurre all’immagine semplificata che domina nei media occidentali. L’intervista a Giulio Cozzari ci dà, invece, un’idea di come si possa unire il livello delle istituzioni locali con quello più ampio, europeo, favorendo l’educazione alla pace tramite progetti di cooperazione internazionale. In conclusione, Federica Grandis porta avanti una riflessione sul linguaggio della politica e su come questo si stia appiattendo, anche a sinistra, sulle regole mass-mediatiche, a scapito dei contenuti.

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