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Evoluzioni e involuzioni di un diritto internazionale poco cosmopolita

Attila Tanzi

Il modello westfaliano di un diritto internazionale eurocentrico

Il decorso della storia fornisce al diritto internazionale ora la sua culla, ora la sua tomba, ora gli strumenti per la sua rinascita, a seconda delle configurazioni nel tempo della distribuzione del potere sul globo. Per questo, al fine di meglio cercare di comprendere le potenzialità e i limiti del diritto internazionale nell’epoca della globalizzazione e della post-modernità si propone di dare inizio alle riflessioni che verranno svolte in questa rivista su questo tema con una sua breve rivisitazione in chiave storico-politica.
La nascita del sistema moderno di regole giuridiche internazionali viene generalmente ricondotta all’epoca della formazione degli Stati nazionali, comunemente identificata con la fine della Guerra dei Trent’Anni, sancita dalla Pace di Westfalia del 1648. Il significato simbolico di questo evento è quello di segnare la fine di un tipo di distribuzione gerarchica del potere, quindi anche della potestà regolamentare, che trovasse il suo vertice nell’Impero o nel Papato. In alternativa a quest’ultima prospettiva, si è affermata una distribuzione del potere tra una pluralità di “aggregati” la cui sovranità nazionale non ammetteva autorità ad essi superiore. Da qui la finzione giuridica della “eguaglianza sovrana” tra gli Stati, che identifica sovranità con indipendenza. Così, gli Stati europei, dall’Inghilterra alla Russia, formalmente pari ordinati tra loro, mossi da interessi concorrenti, a volte anche confliggenti, ma ispirati a valori e modelli di comportamento omogenei, si sono forniti di un bagaglio assai limitato di regole giuridiche, basate sulla reciprocità, che assicurassero un regime di libera concorrenza politico-militare ed economica. Sostanzialmente, tali regole miravano a garantire la comunicazione attraverso la tutela della funzione diplomatica, uno standard minimo di trattamento dei rispettivi cittadini all’estero e dei loro beni e diritti economici, la libertà dei mari e minime regole di condotta nelle ostilità belliche, che ne contenessero le atrocità, compatibilmente con la c.d. necessità militare.
Il modello westfaliano della comunità internazionale non è una teoria delle relazioni internazionali, ma una espressione indicativa di una situazione di fatto di distribuzione pluralistica del potere sulla scena internazionale in una prospettiva inizialmente eurocentrica del diritto internazionale. Tale scenario di riferimento si è mantenuto per quattro secoli, seppure a geometrie variabili, resistendo ai diversi tentativi di egemonizzazione verticistica di tipo imperiale, tra cui quello napoleonico, quello nazi-fascista, quello sovietico e, da ultimo, quello propugnato dai neo-conservatori statunitensi[1]. Tale assetto internazionale non ha costituito la realizzazione di un modello teorico politico e giuridico superiore ad altri, per quanto preferibile rispetto ad un modello monocratico, bensì il risultato della combinazione delle forze della Storia. A fronte di un diverso risultato del processo storico-politico, che avesse condotto ad una concentrazione di tipo egemonico-imperiale del potere nelle relazioni internazionali, avremmo avuto un diritto internazionale basato su paradigmi completamente diversi da quelli sperimentati, verosimilmente di tipo gerarchico-istituzionale e verticistico, affini a quelli degli ordinamenti nazionali ad alta caratterizzazione federalista.
Il processo, mai compiuto, di formazione a livello universale di una Respublica Christiana – segnata attraverso l’alto medioevo dalla conflittualità permanente tra l’autorità imperiale e quella pontificia, priva di effettività regolamentare sul mondo afro-asiatico sottoposto dall’VIII secolo alla regola islamica, e ulteriormente indebolita dallo scisma della Chiesa di Oriente nell’XI secolo – può essere considerato come un prolungato tentativo di ereditare, o di ricostruire, il modello egemonico romano su larga parte della scena internazionale. Tale prolungata e articolata conflittualità è equiparabile ad un lungo e incerto processo rivoluzionario, su scala internazionale, che ha portato nel ‘600 alla trasformazione degli assetti della società internazionale. Da tali assetti è scaturita una sorta di costituzione materiale minimale della società internazionale, totalmente nuova. La regola fondante di tale costituzione materiale è la finzione giuridica costituita dal principio dell’eguaglianza sovrana tra comunità statali, tutt’oggi riferimento fondamentale della comunità internazionale. Si tratta di un principio di eguaglianza formale, inizialmente operante tra le comunità dei popoli europei aggregate in forme di governo di tipo statale e “più eguali” delle altre comunità del globo. Le prime, infatti, nel corso dei secoli hanno imposto alle seconde i propri valori giuridici e religiosi e strutture amministrative, utilizzandone le risorse economiche, naturali e umane. Quando possibile militarmente, economicamente e organizzativamente, le regole costitutive degli Stati europei e dell’ordinamento internazionale così concepito sono state imposte al mondo extra-europeo con la forza nel processo di colonizzazione, oppure, più recentemente, imponendo il c.d. regime delle capitolazioni. In base a quest’ultimo, i cittadini europei in Cina, Giappone, Siam (Thailandia dal 1939) e Turchia venivano sottratti alle giurisdizioni locali per essere sottoposti extra-territorialmente ai rispettivi ordinamenti giuridici nazionali. Dall’altra parte del globo, gli Stati Uniti, esempio ante litteram del processo di decolonizzazione con la Dichiarazione d’indipendenza dal Governo britannico del 1776, si avvalsero degli stessi principi europei del diritto internazionale per esercitare un ruolo egemonico in America latina e intrattenere rapporti con i Paesi europei[2].


L’impatto della rivoluzione russa del 1917 e dei regimi nazifascisti

L'omogeneità di valori e modelli di comportamento tra le potenze europee che hanno costruito il diritto internazionale moderno nel corso di quasi tre secoli si è infranta durante la Prima Guerra Mondiale, con la rivoluzione russa del 1917. Quest’ultima ha prodotto non solo una nuova forma di governo nazionale, ma un modello, che la Russia sovietica intendeva esportare su scala mondiale, di rapporti economici che negavano il diritto di proprietà privata e il libero commercio tra privati, infrangendo uno dei pilastri fondamentali su cui si era sviluppata la società internazionale e le relative regolamentazioni giuridiche sino ad allora.
Inizialmente, infatti, la sistematica espropriazione dei beni e privazione dei diritti economici degli stranieri nella Russia sovietica ha violato le tradizionali regole consuetudinarie sulla protezione e il trattamento degli stranieri. Di lì a poco, il rigetto dell'efficacia giuridica di tali regole da parte dei Paesi comunisti si è inserito in modo significativo nella conflittualità ideologica tra il regime sovietico e il mondo capitalista e liberista, fino al disconoscimento della stessa fonte giuridica da cui si erano formate tali regole: la consuetudine[3].
Quest’approccio giuspositivistico e ipervolontaristico bene si adattava alle esigenze ideologiche e agli interessi economici del nuovo attore sovietico sulla scena internazionale, per cui non accettava di essere vincolato da regole basate su modelli comportamentali che non condivideva e che erano maturati consuetudinariamente attraverso un processo plurisecolare cui il nuovo attore sovietico non aveva partecipato. L’esasperazione di questo atteggiamento ipervolontaristico, fino al punto da svuotare di efficacia giuridica con un semplice atto di volontà contrario non solo la consuetudine, ma persino gli accordi internazionali, venne successivamente alimentata con l’avvento dei regimi nazifascisti[4], contribuendo in modo determinante a quella situazione di malessere collettivo che è esplosa con la Seconda Guerra Mondiale, scatenata e condotta all’insegna della violazione sistematica del diritto internazionale.


La rinascita di una prospettiva universalistica del diritto internazionale

Durante lo svolgimento del secondo conflitto mondiale, dall’Alleanza angloamericana contro il nazifascismo, cui si era associata l’Unione Sovietica per autodifesa dopo l’attacco tedesco, è emersa la visione di un nuovo ordine internazionale di tipo universalistico, basata sul principio della legalità internazionale e della eguaglianza sovrana degli Stati. Le linee fondanti di tale visione, suggellata da F.D. Roosevelt e W. Churchill nell’agosto 1941 nella Carta Atlantica, si articolavano sul divieto dell’uso della forza, la protezione e promozione dei diritti dell’uomo, la liberalizzazione degli scambi commerciali e la protezione degli investimenti stranieri. Questa concezione di ordine internazionale, antitetica a quella nazifascista, rilanciava su scala mondiale il modello multilateralistico westfaliano, aggiornandolo con l’introduzione del divieto dell’uso della forza e con il proseguimento del faticoso tentativo, iniziato nel 1919 con la Società delle Nazioni, di istituzionalizzare una gestione sovranazionale della funzione di polizia internazionale. Questa stessa visione venne poi codificata nella Carta ONU nel 1945 dai suoi 51 Stati fondatori. L’omogeneità politica in chiave anti-nazista, che produsse il breve rilancio di un diritto internazionale universalistico basato sulla uniformità dei valori originari di tipo europeistico, s’infranse velocemente sull’irrigidimento sovietico e sull’insorgere del bipolarismo che produsse la Guerra Fredda. Inizialmente, il modello eurocentrico venne sostanzialmente imposto sulla scena mondiale, quantomeno sotto il profilo degli aspetti economico-politici, dai Paesi occidentali e dai loro alleati che detenevano negli anni '50 un’ampia maggioranza nell’Assemblea generale dell’ONU sui Paesi sovietici. D’altro canto, questi ultimi assumevano in quel periodo una posizione di retroguardia ai margini di tale scenario, conducendo, tuttavia, scambi commerciali con il mondo occidentale, attraverso le imprese e le agenzie di Stato, e intrattenendo rapporti sotterranei di sostegno finanziario e militare nei riguardi di numerosi movimenti di liberazione nazionale, che attuavano in termini armati e secessionistici il principio dell’autodeterminazione dei popoli, in chiave anti-colonialista.


Lo strappo della decolonizzazione e la comparsa dei nuovi Stati del Terzo Mondo

Entro la metà degli anni ‘60, con la proliferazione degli Stati membri di nuova formazione emergenti dal processo di decolonizzazione, cambiarono gli assetti di potere sulla scena internazionale e le maggioranze all’interno dell’Assemblea generale. Infatti, la maggioranza dei Paesi del Terzo Mondo, la gran parte dei quali si organizzò nel gruppo c.d. degli Stati non-allineati, di fatto si allineò, quantomeno su numerose istanze di politica economica internazionale, sulle posizioni dei Paesi del blocco comunista. Ne scaturì una situazione nella quale lo schieramento dei Paesi occidentali dovette accettare l’istanza congiunta dei Paesi socialisti e del Terzo Mondo ad intraprendere una sorta di processo di rinegoziazione e trascrizione del diritto internazionale, per secoli espressione della cultura giuridica e politica delle potenze europee, successivamente affiancate dagli Stati Uniti. Tale processo si è materializzato, formalmente, in una pluralità di convenzioni di codificazione adottate in ambito ONU e, meno formalmente, in alcune significative risoluzioni dell’Assemblea generale. Tale istanza di revisione esprimeva esigenze principalmente di retorica ideologico-politica. Infatti, sotto il profilo dei contenuti, tale processo di rinegoziazione ha in larga misura confermato i fondamenti consuetudinari tradizionali del diritto internazionale, di cui gli stessi Paesi socialisti e del Terzo Mondo avevano bisogno a garanzia di una inevitabile vita di relazione internazionale, come il diritto diplomatico e consolare e, soprattutto, il diritto dei trattati.
Va altresì considerato come lo sviluppo di elementi evolutivi del diritto internazionale, verso la tutela di interessi collettivi, promosso in quegli anni principalmente dall’azione diplomatica degli schieramenti socialisti e del Terzo Mondo, ha poi trovato la sua base nella stessa Carta ONU e nel consenso degli stessi Paesi occidentali. È questo il caso, a titolo di esempio, della specificazione e articolazione del divieto dell’uso della forza e del divieto di ingerenza. La rottura tra il gruppo dei Paesi industrializzati, da un lato, e quelli dei Paesi del Terzo Mondo e socialisti, dall’altro, riguardava i rapporti economici e la regolamentazione giuridica internazionale degli stessi. Attraverso una consistente azione diplomatica condotta principalmente negli anni '70 attraverso la proposta di una serie di testi negoziali, che sfociarono in un pluralità di risoluzioni dell’Assemblea generale dell’ONU, le delegazioni dei Paesi del Terzo Mondo cercarono di instaurare un c.d. nuovo ordine economico internazionale. Questo avrebbe dovuto innanzi tutto essere fondato sulla priorità del principio della sovranità permanente degli Stati sulle rispettive risorse naturali, e del diritto, per gli Stati, di regolamentare in piena autonomia le attività economiche sul proprio territorio, senza eccezione per le attività economiche di soggetti stranieri, comprese le multinazionali. A ciò si è associato il perseguimento di una pluralità di obiettivi relativi al commercio internazionale, con particolare riguardo al trasferimento delle tecnologie, basati sulla richiesta di regimi preferenziali e di stabilizzazione dei prezzi delle materie prime di cui sono particolarmente “ricchi” i Paesi “poveri”. Tali istanze hanno trovato riconoscimento in una serie di risoluzioni dell’Assemblea generale dell’ONU, culminata nel 1974 nella Dichiarazione sui Diritti e Doveri Economici degli Stati, sul cui voto si è formalizzata la rottura tra schieramenti, venendo meno il sostegno dei Paesi industrializzati[5].
In sostanza, il braccio di ferro tra Nord e Sud, e quindi Est e Ovest, aveva per oggetto la pretesa e l’aspettativa del Sud del mondo, sostenute tatticamente e ideologicamente dai regimi comunisti, di elaborare un regime regolamentare internazionale che mettesse fine ad un apparato di regole giuridiche che legittimassero la continuazione, anche in epoca post-coloniale, dello sfruttamento economico delle proprie risorse da parte dei Paesi del Nord del mondo, attraverso le proprie imprese private nazionali e multinazionali. Uno dei punti maggiormente controversi di tale negoziato riguardava la tradizionale regola consuetudinaria che prevedeva l’intangibilità della proprietà privata e, più in generale, dei diritti economici di privati stranieri, particolarmente quelli derivanti da contratti di concessione di sfruttamento di risorse naturali, petrolifere e minerarie. Si può dire che, tra gli anni '70 e '80, l’effetto cumulativo delle risoluzioni dell’Assemblea generale in materia, pur non avendo portato alla formazione di una nuova consuetudine, precisa nei suoi contenuti e universalmente applicabile, aveva incrinato il contenuto della consuetudine precedente nella sua universalità. Ne conseguì che un tribunale internazionale avrebbe continuato ad applicare l’obbligo di risarcimento pieno in un caso di espropriazione da parte di un Paese occidentale nei riguardi di investitori occidentali, mentre avrebbe applicato parametri assai più flessibili e incerti in una controversia relativa ad atti privativi di diritti economici stranieri adottati da un Paese in via di sviluppo.
Questa incertezza della tutela giuridica degli investimenti stranieri aveva scoraggiato in quegli anni il movimento internazionale di capitali per investimenti diretti. Tra gli effetti della fine della Guerra Fredda, con la caduta del Muro di Berlino, la posizione di numerosi Paesi in via di sviluppo è mutata, trasformandosi in un atteggiamento di concorrenza nell’attrarre investimenti stranieri. Ciò ha comportato una nuova tendenza, in larga parte del Terzo Mondo, a creare un ambiente regolamentare e fiscale favorevole all’attrazione di capitale straniero e di incentivi ai reinvestimenti dei profitti delle società straniere nel Paese ospite, a beneficio del proprio sviluppo infrastrutturale ed economico in generale. Nei primi anni ‘90, la diffusione di questo orientamento ha portato all’attenuazione di parte delle istanze promosse nell’ambito del c.d. nuovo ordine economico internazionale, ancora formalmente ribadite nel 1986 nella Dichiarazione sul Diritto allo Sviluppo dell’Assemblea generale e, comunque, mai completamente sopite, in ragione del permanere delle cause di fondo che erano state alla base della sua promozione.


Un altro ‘89 e la finta “fine della Storia”

Successivamente al crollo dei regimi comunisti dell’Europa dell’Est, nel 1989, Francis Fukuyama affermava che quegli eventi segnavano la «fine della Storia»[6]. Se per Storia si intende l’evoluzione dialettica come alternata interazione e conflittualità tra diversità, tale affermazione, provocatoria per ammissione dello stesso autore[7], aveva il merito di cogliere e sottolineare la prospettiva in corso di realizzazione a quel tempo, e per qualche anno a seguire, della omologazione spontanea delle diversità su scala globale ad un unico modello economico, quello liberista, e ad un unico modello politico-istituzionale, quello delle democrazie occidentali.
Analoga omogeneizzazione sembrava configurarsi sotto il profilo degli strumenti per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, quando l’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq, nell’agosto del 1990, suscitò, per la prima volta dopo quarantacinque anni dalla nascita delle Nazioni Unite, una risposta coercitiva decisa all’unanimità dai diversi schieramenti della Comunità Internazionale, compresi i cinque Membri Permanenti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite (Cina, Francia, Regno Unito, Russia e Stati Uniti). A partire dai primi fallimenti di un apparente nuovo ordine internazionale, per usare il paradosso di Fukuyama, la storia è ripartita, in termini assolutamente accelerati, con la riapparizione di evidenti squilibri sulla scena internazionale e di sostanziali divergenze di interesse tra i diversi attori, governativi e non, e, in particolare, tra numerosi di essi e la superpotenza americana.
Sotto il profilo della regolamentazione dei rapporti economici internazionali, mentre nei primi anni ‘90 proseguiva l’ampliamento del quadro giuridico della liberalizzazione del commercio internazionale con la trasformazione del GATT (General Agreement on Tariffs and Trade) in WTO (World Trade Organization) e l’ingresso nella stessa Organizzazione della Cina nel 1994, si segnala il fallimento dei negoziati MAI (Multilateral Investment Agreement) per una regolamentazione universale degli investimenti stranieri, principalmente a causa dell’intransigenza della delegazione degli Stati Uniti. D’altro canto, il superamento delle richieste dei Governi del Sud del mondo degli anni '70 e '80 di regolamentare un nuovo ordine economico internazionale e l’adattamento delle loro economie al liberismo interno e internazionale non ha ad oggi comportato una significativa redistribuzione della ricchezza su scala mondiale. Al contrario, esso ha alimentato il divario tra Nord e Sud e, nei Paesi del Sud del mondo, tra le loro classi dirigenti e il resto della popolazione.
È anche, seppur non esclusivamente, in quest’ottica economica e post-colonialistica che può essere letta la tensione internazionale di tipo interreligioso di questi giorni e, all’interno dei Paesi islamici non teocratici, tra governi moderati e movimenti integralisti. Analoghe considerazioni si applicano, con le dovute differenze di fondo, alle tensioni sociali urbane di questi ultimi mesi in Europa, particolarmente in Francia: da un lato, si segnala l’internazionalizzazione delle istanze economiche delle frange violente della contestazione civile, come il movimento “no-global”, comunque rivolta contro lo sfruttamento del deficit dello sviluppo su scala mondiale da parte del capitale finanziario e produttivo; dall’altro, le tensioni sociali in questione si alimentano in parte dalle difficoltà di integrazione legate al fenomeno della immigrazione, spesso da Paesi di religione musulmana, a sua volta legato al fenomeno della decolonizzazione e del sottosviluppo.
Per quanto riguarda gli aspetti interculturali e interreligiosi delle tensioni sociali attualmente in corso su scala internazionale, va ricordato che, se è vero che il fenomeno del colonialismo si è realizzato per secoli nell’affermazione su scala internazionale del capitalismo dei Paesi pre-industriali e poi industrializzati europei, è altresì vero che il fenomeno coloniale si è accompagnato in larga misura con una cristianizzazione, in chiave politica, sociale ed economica, in termini ben difformi dalle finalità genuinamente religiose e umanitarie perseguite nel corso dei secoli dai missionari cristiani. Sulla scorta di tutto ciò, le condizioni di povertà di larghe frange delle masse di Paesi in via di sviluppo, molti dei quali di civiltà islamica, inducono, per fini anche spontanei di aggregazione interna, i loro leader di turno a sostituire i valori ideologici marxisti con quelli religiosi in termini massimalistici e rivoluzionari, in chiave anti-occidentale e contro i governi locali moderati.
La pace e la sicurezza internazionale possono apparire maggiormente a rischio quando simili movimenti integralisti prendono il potere instaurando un regime teocratico, come in Iran, a seguito della rivoluzione Komeinista, alla fine degli anni '70. Tuttavia, simili evoluzioni, riportano la dialettica e la conflittualità internazionale in un alveo interstatale, rispetto al quale il diritto internazionale e i suoi soggetti governativi si trovano meglio equipaggiati nella valutazione e reazione, rispetto alle azioni di organizzazioni non governative come Al-Qaeda, come ha dimostrato la reazione degli Stati Uniti autorizzata dal Consiglio di sicurezza ONU contro l’Afghanistan in risposta all’attentato alle Torri Gemelle.
Sotto il profilo del mantenimento della pace e della sicurezza internazionali, dopo i primi entusiasmi per l’unanimità ritrovata nel Consiglio di sicurezza successivamente all’invasione del Kuwait, si ricorda il fallimento dell’azione delle Nazioni Unite nella crisi di Somalia a partire dal 1993 e nel ‘94 rispetto alle stragi interetniche in Ruanda e nella ex-Iugoslavia. L’intervento della NATO del 1999 contro la politica di genocidio nei riguardi della minoranza albanese in Kosovo si colloca a cavallo tra illegalità e legittimità ONU: da un lato, l’autorizzazione del Consiglio di sicurezza non fu formalmente possibile per il veto rispettivo di Russia e Cina; dall’altro, tutti gli altri componenti del Consiglio stesso hanno manifestato il loro appoggio all’intervento respingendo una proposta di risoluzione di condanna dello stesso presentata dalla delegazione russa.
Le proporzioni drammatiche dell’attacco terroristico dell’11 settembre 2001 e la cointeressenza diffusa tra i governi di tutto il mondo, compresi quelli dei Paesi arabi moderati, nel contenimento e contrasto del fenomeno del terrorismo, ha consentito un provvisorio ricompattamento del Consiglio di sicurezza nel fornire approvazione e sostegno all’azione militare del Governo USA contro l’Afghanistan, il cui governo talibano era stato individuato come fiancheggiatore dell’organizzazione terroristica Al-Qaeda. Questo non ha dissuaso la Casa Bianca dal cercare successivamente di perseguire, seppure in modo oscillatorio, il disegno di egemonia nazionale, teorizzato da tempo dai consiglieri neo-conservatori dell’amministrazione americana, non più cercando la copertura delle pur deboli istituzioni internazionali multilaterali, bensì attraverso un rinnovato unilateralismo[8].


I tentativi di egemonismo statunitense, tra unilateralismo e multilateralismo


Come è noto, lo strappo unilateralistico più significativo è avvenuto con l’attacco anglo-americano all’Iraq, nel marzo 2003, senza l’autorizzazione del Consiglio di sicurezza. Ciò ha accentuato la conflittualità nella dialettica transatlantica tra una buona parte dei Paesi europei e gli Stati Uniti e, naturalmente, tra questi ultimi, insieme ai loro alleati europei, e larga parte del mondo islamico. Se nel breve termine i costi politici ed economici dell’azione anglo-americana in Iraq hanno superato i benefici per la potenza americana, tali costi rischiano di crescere nel lungo termine. Infatti, nella prospettiva di un seppur graduale cambiamento degli assetti di potere sulla scena internazionale, in relazione alle nuove grandi potenze emergenti – particolarmente, Cina e India – gli argomenti di autolegittimazione morale contra legem, utilizzati dagli Stati Uniti a giustificazione dell’attacco contro l’Iraq, potranno essere impiegati domani da altre potenze a sostegno di proprie pretese antagonistiche, se non egemoniche, sia di tipo strategico-militare che economico, finanziario e commerciale, senza incontrare il contenimento di un principio di legalità generalmente condiviso. Ciò ad ovvio discapito della pace e della sicurezza internazionali, degli stessi Stati Uniti, che oggi hanno più potere da perdere di ogni altro attore, e subordinatamente dei pur riluttanti alleati europei.
Se gli impulsi di unilateralismo egemonico contra legem di una potenza sono direttamente proporzionali alla percezione della propria superiorità rispetto agli altri attori, individualmente o collettivamente intesi, uno degli impatti positivi dei costi evidenti dell’operazione irachena sembra essere stato quello di indurre il Governo americano ad una auto-percezione, in termini di significativo ridimensionamento rispetto al momento dell’attacco del marzo del 2003. Ciò ha spinto l’amministrazione americana a cercare di mitigare i danni (se mitigabili) ai propri interessi nazionali, e indirettamente agli altri Paesi occidentali, dell’avventura irachena, attraverso un pacato riavvicinamento della propria politica estera alla strada multilaterale e della legalità condivisa. Ne è stata una prima indicazione la ricerca di legittimazione attraverso le Nazioni Unite della gestione postbellica in Iraq[9]. Rispetto alla minaccia statunitense di colpire con la forza, unilateralmente, gli altri Stati definiti canaglia (rogue States) – Iran e Siria – l’azione diplomatica che ha portato nel 2005 all’attivazione dei poteri vincolanti del Consiglio di sicurezza, in relazione all’attentato al Primo Ministro libanese, Rafiq Hariri, da parte di soggetti legati all’apparato governativo siriano, e il coinvolgimento dell’AIEA e del Consiglio di sicurezza, in relazione ai progetti di proliferazione nucleare e alle enunciazioni contro Israele dell’Iran, costituiscono ulteriori conferme del riavvicinamento americano alla strada del multilateralismo.
Nella prospettiva di una ripartenza della storia a ritmi fortemente accelerati, si tratta di tendenze erratiche e rapidamente reversibili. Vi è inoltre l’ipotesi, seriamente considerata da studiosi e osservatori, secondo cui gli Stati Uniti potrebbero perseguire una sostituzione meramente cosmetica di una forma di egemonismo unilateralistico con un metodo che si potrebbe definire di egemonismo multilateralistico[10]. Esso consisterebbe in un utilizzo formale delle istituzioni multilaterali per realizzare i propri disegni unilateralistici, cercando nella sostanza di aggirare un genuino processo decisionale collettivo. Un esempio recente di tale approccio si ritrova nei metodi di pressione utilizzati proprio nel 2003 dalla delegazione americana all’ONU, nel vano tentativo di ottenere la maggioranza necessaria all’autorizzazione del Consiglio di sicurezza all’attacco in Iraq. Ma se così fosse, alla diffusa percezione della illegittimità dell’azione angloamericana in Iraq si aggiungerebbe la delegittimazione dell’ONU, che resta attualmente l’unico foro di legittimazione internazionale a livello universale nella lotta al terrorismo e nel quale cercare di elaborare i parametri regolamentari generalmente condivisi per affrontare le nuove forme di minaccia alla sicurezza e alla pace internazionale. Questo, inoltre, priverebbe la superpotenza di oggi – ma anche le medie potenze industrializzate in declino – di un tavolo negoziale, la cui autorevolezza si è già considerevolmente affievolita, attorno al quale ridefinire le regole di comportamento con le emergenti potenze di domani, in un regime di legalità che possa appunto contenere eccessi unilateralistici.


La necessità di un difficile uso del diritto internazionale come alfabeto di linguaggi diversi

L’ONU, indipendentemente dal funzionamento dei suoi poteri coercitivi, in ragione della universalità della composizione e delle materie oggetto delle sue competenze, appare ancora come foro principale di legittimazione di un tavolo negoziale attorno al quale ritrovare per il diritto internazionale la sua funzione di linguaggio condiviso, o quantomeno di alfabeto comune a linguaggi diversi, ma compatibili per una comunicazione internazionale, non solo e non tanto tra rappresentanti di Stati tradizionalmente intesi, ma tra rappresentanti di diverse civiltà etnico-religiose. L’apertura di un tavolo per il dialogo diplomatico-interculturale appare oggi indispensabile alla luce del fatto che, in termini inopinatamente vicini alle previsioni del Professor Huntington di oltre dieci anni fa[11], la conflittualità internazionale, abbandonati i binari della contrapposizione ideologico-strategica Est-Ovest e Nord-Sud tra capitalismo e comunismo, sta imboccando il canale della contrapposizione tra civiltà e culture religiose. Ne è prova il rinnovato risentimento di crescente parte del mondo arabo e islamico nei riguardi del mondo occidentale conseguente all’intervento in Iraq, e in parte in Afghanistan, e al trattamento dei prigionieri in quei Paesi e a Guantanamo[12], azioni a loro volta direttamente e indirettamente legate alla reazione all’epocale attentato alle Torri Gemelle rivendicato dall’organizzazione terroristica Al-Qaeda. Agli inizi del 2006 si inseriscono in tale clima conflittuale, alimentandolo, le minacciose enunciazioni del presidente dell’Iran nei riguardi di Israele, insieme alla ripresa del programma nucleare di quel Paese, le violente manifestazioni contro la civiltà giudaico-cristiana e le ambasciate di alcuni Paesi occidentali da parte delle folle in numerosi Paesi islamici, contro le improvvide vignette blasfeme pubblicate dalla stampa danese, replicate da quella francese e da un ministro del nostro governo.
Si tratta di una conflittualità che comprende e supera il tradizionale antagonismo tra Stati. Affinché il diritto internazionale possa nuovamente tornare a svolgere quel ruolo di alfabeto comune a linguaggi diversi e se si vuole genuinamente evitare, o contenere, il ripetersi e il dilagare delle violenze della storia, sembra giunto il momento, per i diversi protagonisti sulla scena internazionale, di riprendere ad usare quell’alfabeto ed eventualmente di rivederne in termini condivisi alcuni elementi essenziali. Questa esigenza ci porta ad affermare che il diritto internazionale non va considerato solo come un insieme di regole di comportamento che forniscono la soluzione di problemi e contenziosi, ma anche come codice di dialogo per la creazione di nuove regole di comunicazione tra i rappresentanti degli Stati, delle civiltà e delle culture che essi, a loro volta, rappresentano. Resta alla volontà politica dei governi, e possibilmente degli altri attori non-governativi, di fare uso di tali regole di comunicazione.
A questo proposito, assume speciale rilievo la proposta, presentata dal Cardinale Renato Martino, già rappresentante della Santa Sede alle Nazioni Unite per sedici anni, di proporre un tavolo negoziale per il dialogo tra culture e religioni[13]. A titolo di modello di approssimativo riferimento, il diplomatico vaticano ricordava la Conferenza per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (CSCE, oggi trasformatasi in OSCE) che, oggetto di profonde divergenze e reciproci timori tra i Paesi dell’Europa Occidentale, Canada e Stati Uniti, da un lato, e i Paesi comunisti, e dopo circa sei anni di negoziati su diverse tematiche (dall’inviolabilità delle frontiere e il divieto di intervento negli affari e dell’uso della forza, al controllo degli armamenti e ai diritti dell’uomo in senso lato), sfociò nel famoso Atto Finale di Helsinki del 1975. Questa pietra miliare della diplomazia moderna, tanto da essere ritenuta uno dei fattori essenziali che hanno portato alla fine della Guerra Fredda, raccoglieva il minimo comune denominatore del pensiero e delle disponibilità politiche e culturali dei due blocchi e delle rispettive componenti contrapposte. Nascendo da un dialogo pluriennale, a volte aspro, esso determinò gli estremi di un foro diplomatico itinerante e permanente per la continuazione del dialogo stesso, che nel corso degli anni successivi al 1975 ha contribuito a consolidare in obblighi giuridici molti degli impegni politici in esso enunciati.
La speciale difficoltà, e necessità ad un tempo, di una simile prospettiva negoziale, risiede soprattutto nel fatto che i fondamenti ideologici e argomentativi di natura politico-economica, alla base della contrapposizione di ieri tra Paesi comunisti e capitalisti liberisti, tendono oggi a trasformarsi, massimizzandosi, attraverso la sostituzione con valori religiosi e culturali a fini conflittuali. Simili valori esasperano il senso di appartenenza a diversità presuntamente non omologabili, diversità consolidatesi attraverso secoli di contrapposizioni ben più lunghe e radicate rispetto a quella tra marxismo e capitalismo. A fronte di tale scenario risulterebbe fortemente significativa l’istituzione di un foro negoziale del tipo sopra proposto, in una o più sedi itineranti come fu per la CSCE o nel quadro di una sessione speciale dell’Assemblea generale, che sia caratterizzato da una dimensione ad un tempo interstatale e interreligiosa e che possa decidere la reiterazione a cadenze regolari negli anni successivi del dialogo su singole aree tematiche. A tal fine, sicura priorità potrebbe avere un esercizio negoziale finalizzato alla elaborazione in termini multiculturali di un codice di condotta nel quale compiere una rivisitazione condivisa di alcuni diritti fondamentali dell’uomo – in particolare, la libertà religiosa e di espressione e la tutela delle minoranze – attraverso l’elaborazione di criteri di interpretazione e applicazione degli stessi e altri diritti fondamentali. Parallelamente, si potrebbero rivisitare diversi principi di diritto internazionale generale, verificando la conformità di numerosi di essi che trovano fondamento in principi della civiltà giuridica occidentale – di diritto romano e di common law – e che coincidono con i principi di diritto islamico. Si pensi, a titolo di esempio, in tema di diritto dell’ambiente, come l’esigenza della sostenibilità dell’uso delle risorse naturali discenda direttamente dalla concezione coranica dell’ambiente. Coniugando i fondamenti religiosi, culturali e normativi della civiltà islamica con gli orientamenti e i linguaggi della comunità internazionale contemporanea, principalmente attraverso i concetti e la terminologia delle civiltà giuridiche occidentali, l’ambiente viene considerato “contenitore della vita” (bi-a).
Vi è poi l’ulteriore difficoltà per cui, anche sul fronte musulmano, esistono Paesi diversamente collocati tra moderazione e integralismo. A questo proposito, va peraltro rilevato come all’interno dell’ONU esista da lungo tempo un gruppo di consultazione di circa cinquanta Paesi islamici, che svolge una attività di coordinamento molto stretta ed efficace, pur in presenza all’interno del gruppo di governi, ora a forma monarchica, ora repubblicana, ora moderati e progressisti, ora conservatori e radicali[14]. Inoltre, si dovrebbe tenere conto che, tra le voci più conflittuali e integraliste, si distinguono quelle di aggregati e organizzazioni che non si identificano con le voci governative dei Paesi cui appartengono, quando non vi si oppongono apertamente[15]. A questo proposito, può considerarsi l’opportunità della partecipazione ai negoziati di rappresentanti di gruppi religiosi, con lo status di osservatori, che offra significativi diritti partecipativi nei fori diplomatici, analogamente a quanto già previsto per le organizzazioni non governative (ong). Sarebbe questa l’occasione per applicare su scala globale e su tematiche non settoriali gli sviluppi recenti in tema di partecipazione della società civile al processo regolamentare internazionale[16], coinvolgendo rappresentanze di attori non-statali, provenienti non più solo dal mondo occidentale.


[1] Si veda il fascicolo monografico sul tema Unilateralism in International Law: its Role and Limits. A United States-European Symposium della rivista “European Journal of International Law”, 2000, pp. 1-186, 249-411; W. PFAFF, The Question of Hegemony, in “Foreign Affairs”, gennaio/febbraio 2001, pp. 221 ss.; F.D. VAGTS, Hegemonic International Law, in “American Journal of International Law”, 2001, pp. 843 ss.; J.E. ALVAREZ, Hegemonic International Law Revisited, in ivi, 2003, pp. 873 ss.; M. BYERS – G. NOLTE (a cura di), United States Egemony and the Foundations of International Law, Cambridge University Press, Cambridge 2003.

[2] La c.d. dottrina Monroe fu elaborata nel 1823 dall’allora Presidente degli Stati Uniti contro ingerenze europee, specialmente di Portogallo e Spagna, in America latina.

[3] Si veda K. GRZYBOWSKI, Soviet Theory of International Law for the Seventies, in “American Journal of International Law”, 1983, pp. 862 ss.

[4] Si veda, per tutti, D.F. VAGTS, International Law in the Third Reich, in ivi, 1990, pp. 661 ss.

[5] Questi si espressero con sei voti contrari (Belgio, Danimarca, Germania, Lussemburgo, Regno Unito e Stati Uniti) e dieci astensioni (Austria, Canada, Francia, Giappone, Irlanda, Israele, Italia, Norvegia, Paesi Bassi e Spagna).

[6] F. FUKUYAMA, The End of History?, in “The National History”, 1989, n. 16, pp. 3 ss.

[7] ID., The West May be Cracking, in “International Herald Tribune”, 8 agosto 2002, p. 4.

[8] Cfr. supra nota 1.

[9] Si veda R. KAGAN, America’s Crisis of Legitimacy, in “Foreign Affairs”, marzo/aprile 2004, pp. 65 ss.

[10] J.E. ALVAREZ, Hegemonic International Law, cit.

[11] S.P. HUNTINGTON, The Clash of Civilizations?, in “Foreign Affairs”, vol. 72, 1993, pp. 22 ss.

[12] Si veda la rassegna delle informazioni riportate dagli stessi quotidiani statunitensi in “American Journal of International Law”, 2005, p. 486.

[13] Si veda l’intervista al Cardinale Renato Martino: L’Occidente è stato arrogante, più rispetto per la cultura altrui, in “La Repubblica”, 9 febbraio 2006, p. 4.

[14] B. LEWIS, Il linguaggio politico dell’Islam, Laterza, Bari 2005, p. 6.

[15] Si veda il fascicolo monografico sull’Islam di “Limes, rivista italiana di geopolitica”, n. 3, 2004.

[16] Si veda, per tutti, H. GHERARI – S. SZUREK (a cura di), L’émergence de la societé civile internationale. Vers la privatisation du droit international?, Éditions A. Pedone, Paris 2003.

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