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Il nuovo governo cileno: i nodi gordiani di Michelle Bachelet

Patricia Mayorga
Dialogo con Carlos Peña


È veramente conservatrice la società cilena che ha eletto una donna, separata, agnostica e socialista? Quali sono le principali sfide alle quali quest’ultima dovrà far fronte in un Paese caratterizzato da enormi disuguaglianze? Abbiamo cercato di chiarire tali questioni attraverso un confronto con l’analista politico e Vice rettore dell’Università “Diego Portales”, Prof. Carlos Peña.
Dall’11 marzo, giorno dell’insediamento, Michelle Bachelet siede nel Palazzo della Moneda, sede del governo del Cile e da sempre Casa dei presidenti cileni, bombardata l’11 settembre del 1973 dal generale Augusto Pinochet, oggi agli arresti domiciliari e in attesa di giudizio per continue e reiterate truffe, svariate ruberie e loschi traffici. La Moneda è anche il luogo in cui morì Salvador Allende.
Cinquantasette anni dopo che le donne cilene hanno ottenuto il diritto di voto, una donna è stata eletta alla massima carica politica del Cile. È anche la prima donna ad essere stata eletta democraticamente Presidente di un Paese dell’America Latina, dove vige dappertutto il sistema presidenziale.
Medico pediatra di 54 anni, socialista, agnostica, madre di tre figli, attualmente single, la nuova Presidente del Cile è figlia del generale dell’Aeronautica Alberto Bachelet, stroncato da un infarto dopo essere stato arrestato dai propri commilitoni all’indomani del golpe del settembre 1973. Due anni dopo, nel 1975, anche la nuova Presidente del Cile viene arrestata e torturata, insieme a sua madre, l’archeologa Angela Jeria.
Poi l’esilio, in Australia e nella Repubblica Democratica Tedesca, a Berlino, dove Michelle Bachelet frequenta la Facoltà di Medicina presso la Humboldt University. Nel 1979, nonostante la feroce repressione di Pinochet, decide di tornare in Cile dove, ripresi i suoi studi di medicina, si laurea nel 1982. Non può entrare nel servizio di sanità pubblica per motivi politici: tutte le sue richieste sono state rifiutate.
Nonostante le difficoltà, in quel periodo riesce ad ottenere una Borsa di Lavoro del Collegio Medico del Cile e in quattro anni si specializza in pediatria e salute pubblica. Alla fine della degli anni '80, la dittatura è costretta ad allargare un po’ le maglie della repressione e il Paese vive un momento di euforia democratica: nel 1988, per la prima volta, l’opposizione riesce a presentare una piattaforma unitaria e alla fine dello stesso anno la grande maggioranza del popolo cileno, con un plebiscito, obbliga il dittatore ad indire elezioni.
In quel periodo Michelle Bachelet diventa responsabile del servizio di salute dell’Ong PIDEE (Protezione all’Infanzia Martoriata a causa di Situazioni di Emergenza), che si occupa di dare sostengo medico e soprattutto psicologico ai figli delle vittime del regime militare. E' inoltre consulente dell’Organizzazione Panamericana della Sanità, dell’Organizzazione Mondiale della Salute e dell’Agenzia di Cooperazione Tecnica Tedesca (GTZ).
Nei primi due governi democratici dopo i 17 anni di dittatura, Michelle Bachelet lavora come consulente dei Ministeri della Sanità e della Difesa, ottiene il primo posto in un corso di strategia militare all’Accademica Nazionale di Studi Politici e Strategici del Cile e, nel 1977, è inviata al corso di Difesa Continentale nella Scuola Interamericana della Difesa, a Washington, insieme a 35 militari e alcuni civili di vari paesi americani.
Nel 2000, diventa ministro della Sanità nel governo di Ricardo Lagos (1999-2005, il primo socialista in 27 anni e il terzo dopo la caduta della dittatura), mentre, due anni dopo, con una mossa giudicata da molti audace, il Presidente Lagos la nomina Ministro della Difesa, prima donna cilena a ricoprire questo incarico. Inoltre, è una donna che viene dalla cosiddetta “famiglia militare” e che ha anche visto morire suo padre per le umiliazioni e gli abusi subiti dai suoi stessi commilitoni .


Le ragioni del trionfo


La vittoria di Michelle Bachelet, ottenuta al secondo turno con il 53,5% dei voti, è stata accolta con grande entusiasmo in tutto il mondo, anche se la maggior parte degli analisti – soprattutto in Europa – ha dimostrato un certo stupore per il fatto che una società tradizionalista, patriarcale e cattolica, quale quella cilena, abbia scelto come Presidente una donna che, per di più, si dichiara anche agnostica, separata, e con una figlia (la più piccola) nata da un rapporto di convivenza.
Ma quanto c’è di vero in questa fotografia della società cilena?
Secondo il professor Carlos Peña, non è così vero che la società cilena sia di stampo conservatore, anche partendo dalla famiglia e dal peso della Chiesa cattolica: «I dati relativi ai cambiamenti nella vita di famiglia o nell’influenza della gerarchia ecclesiastica non sembrano dimostrare che la società cilena sia conservatrice, anche perché la famiglia tradizionale cilena è stata sostituita poco a poco da una notevole varietà di forme di famiglia».
«Oggi esistono in Cile moltissime famiglie di fatto che non hanno niente a che fare con il presunto conservatorismo della società cilena. Il Cile sperimenta i processi abituali delle società che si modernizzano». Per capire meglio questo fenomeno, Peña illustra alcuni dati.
La famiglia «è diventata più piccola, si è ristretta. Questo è ciò che nella sociologia della famiglia è stato descritto come il passaggio dalla famiglia estesa, o tradizionale, a quella nucleare, e da questa alle varie forme di famiglia, come la famiglia monoparentale». E' un processo significativo: «La media dei componenti della famiglia, secondo il censimento del 2002, è oggi di 3,6 membri (i dati disponibili, basati su indagini CASEN, indicano che nel 1996 solo il 28% delle famiglie si potevano considerare estese). Il numero di famiglie monoparentali (con un solo genitore) raggiunge oggi, sempre secondo l’ultimo censimento, quasi il 17%».
Il matrimonio è diventato più instabile, più fragile e allo stesso tempo non è più considerato “l’ultima spiaggia”, spiega il professore Peña, anche se l’evidenza indica che vivere in coppia continua ad essere una scelta generalizzata. Questo dimostra, secondo diversi sondaggi, che la famiglia non è più vista come una conseguenza naturale del matrimonio. Un indicatore di questo fenomeno, per il caso cileno, è costituito dal tasso di annullamenti, che nel 1980 era del 35,7 e nel 1998 dell’85,3 per ogni mille matrimoni, secondo i dati del Servizio Nazionale della Donna (SERNAM, Servicio Nacional de la Mujer, ente simile alla Commissione per la Parità). Per il matrimonio si registra la tendenza opposta: il tasso scende da 7,7 nel 1980 a 4,6 nel 1999 (per ogni mille abitanti), cifre estremamente alte se comparate con i Paesi che ammettono il divorzio.
E’ evidente, quindi, che separazioni e annullamenti sono diventati più normali. Le coppie cilene cominciano ad adottare comportamenti di “autoprotezione” contro i fallimenti matrimoniali, sia rimandando le nozze, sia diminuendo il numero dei figli. Molte volte anche qui la scelta è tra rimandare la maternità oppure l'entrata nel mondo del lavoro, decisione quest'ultima che aumenta il costo alternativo di avere figli, innescando così un circolo vizioso.
Le separazioni (compresi gli annullamenti e le rotture definitive), per così dire, si “normalizzano”, non incontrano più il rifiuto di prima e diventano pubbliche. Si può quindi affermare che la vita di coppia si “de-istituzionalizza”, diventa indipendente da norme giuridiche. D’altra parte, «in Cile esiste una debolezza sempre più evidente delle élites tradizionali, e lo si è visto in modo esplicito nelle ultime elezioni politiche».


Il ruolo della Chiesa Cattolica

Peña contesta anche l’influenza della Chiesa Cattolica sulla popolazione cilena: «I sondaggi disponibili mostrano che un’ampia maggioranza di cileni non condivide le opinioni della gerarchia ecclesiastica sul controllo delle nascite e il divorzio». A tale proposito cita la recentissima legge sul divorzio approvata durante il governo di Ricardo Lagos: «èstata approvata in Cile una legge sul divorzio con l’esplicita opposizione della gerarchia cattolica; si è stabilita la parità di diritti sia per i figli nati all’interno che fuori il matrimonio; si distribuisce la pillola del giorno dopo. E tutto ciò con l’ampio appoggio dell’opinione pubblica».
Sempre sul versante religioso, anche i programmi del canale televisivo dell’Università Cattolica, e quindi della Chiesa, dimostrano che il conservatorismo cileno appartiene più alle sue élites che al comportamento reale della popolazione.
Inoltre, secondo Peña, non bisogna tralasciare «il fatto che Michelle Bachelet appartiene alla coalizione partitica che ha avuto più successo nella storia politica cilena, con un presidente (Ricardo Lagos) che lascia il governo con un livello di approvazione vicino al 70%. Quindi, l’elezione della Bachelet risulta meno sorprendente. Ed è una prova che il conservatorismo della società cilena è più un ideale delle élites più tradizionali che una realtà radicata nei costumi».
«D’altra parte aggiunge si può ancora sostenere che i cambiamenti nella vita materiale dei cileni sono stati accompagnati da una certa sensazione di rischio. Ed è probabile che ciò induca anche alla ricerca di leadership che diano più sicurezza».
A proposito dell’impatto del nuovo governo sulla società cilena e del fatto che il nuovo esecutivo sia paritario -10 donne e 10 uomini- secondo Peña «sarebbe fuorviante pensare che, con questo semplice provvedimento, senza aggiungere altro, le donne miglioreranno la propria condizione». «Né la divisione sessuale del lavoro, che insegna che le donne devono dedicarsi alla riproduzione della vita e gli uomini alla produzione; né la violenza all’interno della famiglia, favorita dal pregiudizio che la famiglia sia l’ambito dell’affetto e lo spazio pubblico quello del potere; nemmeno la ‘vittimizzazione’ secondaria che molte donne patiscono quando denunciano delitti, in particolar modo sessuali, laddove si è soliti rimproverar loro di aver provocato il criminale, nulla diminuirà automaticamente solo per questa nomina ministeriale. Non bisogna farsi illusioni».
In ogni caso, la costituzione di un governo paritario costituisce un fatto con un effetto simbolico importante, «che ci ricorderà sempre, nel momento in cui saranno assegnate opportunità e risorse (le più importanti delle quali sono il rispetto ed il riconoscimento), che tutti abbiamo il diritto di essere trattati come pari, che è diverso dall’essere trattati tutti allo stesso modo».
Peña avverte però che «non bisogna nemmeno esagerare con la parità», in quanto «i problemi di genere non sono i principali in un Paese come il Cile, dove il divario – vertiginoso se guardiamo al resto del mondo – nelle condizioni materiali di vita e nelle entrate continuano ad essere la principale fonte di discriminazione e disuguaglianza. 
Perché, nonostante i notevoli miglioramenti nelle condizioni materiali di vita, il Cile ha ancora importanti sfide da affrontare».
Per l’analista «bisogna continuare innanzitutto gli sforzi per superare la disuguaglianza. C’è stato, su questo punto, un accordo unanime tra tutti i candidati alla presidenza ed è forse la sfida principale del governo di centrosinistra capeggiato dalla Bachelet». Il Cile – nonostante la crescita e la modernizzazione delle sue città principali – è ancora una società di ereditieri ed uno dei Paesi del mondo in cui sono più profonde le disuguaglianze: si pensi soltanto che, mentre lo stipendio di un dirigente cileno è pari a quello di un europeo, un operaio guadagna 15 volte meno.


Le sfide: scuola e diritti umani

Tra le cause principali di tali diseguaglianze Peña pone in evidenza il problema della scuola, cioè «l’esistenza di un sistema scolastico segregato e strutturato per classi sociali. Il risultato
come evidenziano le prove di rendimento scolastico e gli esami di ammissione alle università è una scuola che produce disuguaglianza invece di eliminarla. In Cile, sapendo in che scuola ha studiato un ragazzo, è possibile predire il suo destino. Un esempio: la metà di tutti i giovani che hanno studiato nelle scuole gratuite in Cile non ha raggiunto nemmeno le condizioni di base per frequentare l’università. La maggior parte della restante metà non ha potuto accedere alle università più selettive del sistema per il basso rendimento o per le difficoltà economiche. Le ultime prove di rendimento scolastico mostrano che, nonostante gli sforzi, la disuguaglianza nella scuola resta».
Migliorare quindi il sistema scolastico, impedendo che sia un luogo dove viene riprodotta l’origine sociale dei bambini, è forse la sfida più rilevante del nuovo governo: «Una sfida paragonabile solo alla stessa fondazione del sistema scolastico e della scuola dell’obbligo alla fine del diciannovesimo secolo», sottolinea convinto Carlos Peña.
Anche i diritti umani costituiscono una sfida per il governo di Michelle Bachelet, come si è già detto, anche lei stessa vittima della dittatura. È vero che in materia di diritti umani il Cile, negli ultimi quindici anni, «è andato da meno a più», dice Peña, ma è anche vero che si potrebbe fare di più. Ricorda che negli anni ’90 il presidente Aylwin
il primo eletto democratico dopo i 17 anni di dittatura disse che sarebbe stata fatta «giustizia nella misura del possibile». «L’ambito del possibile si è allargato in tutti questi anni. Oggi siamo arrivati alla verità globale (grazie al Rapporto Rettig su sparizioni e crimini; al Rapporto Valech sulla tortura; e al riconoscimento ufficiale del Comandante in capo dell’Esercito); ci sono state riparazioni materiali e simboliche di gran parte della società verso le vittime e i loro familiari; e nei casi più noti è stata fatta giustizia in modo progressivo». I familiari delle vittime otterranno un giorno piena giustizia?, insistiamo. «Certo che no. Ma allo stesso modo non ci sarà mai l’oblio».
«Il Cile – avverte Peña – deve imparare che i diritti umani sono un principio di legittimità di tutti i regimi politici e in special modo delle democrazie; deve sforzarsi di migliorare i livelli di formazione civile ed impegnare il sistema scolastico nell’insegnamento di virtù quali la tolleranza e la disposizione al dialogo, indispensabili per il rispetto di questi diritti; deve custodire la sua memoria storica, senza cedere alla tentazione di stringere le mandibole e chiudere gli occhi. Il Cile deve rimanere attento, nell’impegno di non dimenticare, fino a che il tempo non riesca a cancellare le ferite, in quanto questa attenzione costante è l’unico modo di restare in guardia in materia di diritti umani»”.
«Infine, bisogna ricordare sempre che i diritti umani non hanno a che vedere solo col passato, ma anche con il futuro e con l’esistenza di una società sempre più diversa e plurale. Ma sono soprattutto le élites politiche e culturali quelle che devono ricordare sempre che, come ha dimostrato la nostra storia, la civiltà nasconde la tentazione della barbarie quasi a fior di pelle», aggiunge.
«I conti lasciati in sospeso in materia di diritti umani sono di quelli lenti da salvare, che si consegnano al ritmo inevitabile e paziente della cultura, piuttosto che alle politiche pubbliche. In ogni caso, l’elezione della Bachelet è già un passo simbolico e importante in queste materie. Dopotutto, la Bachelet è stata una delle vittime delle violazioni dei diritti umani e la resistenza che ha dimostrato di fronte al dolore, senza cancellarne il ricordo, forse è la strada per la quale il Cile dovrà passare in futuro».


Politica internazionale e economia

All'orizzonte dei rapporti internazionali del governo cileno appaiono alcune nuvole, anche se in questi anni il Cile ha consolidato una rete molto ampia di trattati di libero commercio con le principali economie dell’America Latina e del mondo, con U.S.A., Messico, Canada, U.E. e Cina. Sono inoltre attualmente oggetto di trattative accordi con Giappone e India.
Per Carlos Peña «la sfida internazionale del Cile consiste nel fare tutti gli sforzi necessari affinché i propri rapporti politici e culturali con il continente sudamericano siano sullo stesso piano dei rapporti commerciali col resto del mondo. Il pericolo per il Cile di oggi è dimenticare che, suo malgrado, la sua vocazione storica è legata all’America del Sud».
Da un punto di vista culturale, la sfida principale del nuovo governo «è stimolare il dibattito pubblico su questioni di indole morale». «La diversità in aumento nella società cilena, nonché i processi crescenti di individualizzazione che stiamo sperimentando, richiedono una maggiore riflessione civica e pubblica riguardo ai dilemmi morali delle società contemporanee. Quale deve essere il livello di protezione della vita umana? Lo Stato deve intervenire nel tipo di famiglia che scelgono i cileni per sviluppare la propria vita affettiva e sessuale? Le politiche sociali devono trattare con rigida neutralità tutte le forme di vita familiare? Sono alcune delle domande che sono circolate in Cile e alle quali i cileni dovranno dare una risposta nei prossimi anni».
Ci sono inoltre alcune sfide che riguardano la modernità acquisita a cui far fronte, alcune delle quali si riferiscono alle politiche economico-sociali, in quanto il Cile ha scelto un modello di sviluppo che si avvicina più a quello americano che a quello europeo. I sistemi di sicurezza sociale (simili all'assicurazione privata), il sistema universitario (non gratuito e con un’ampia presenza di università private), l'assetto urbanistico (stratificato geograficamente) dimostrano che il Cile ha sperimentato ciò che si potrebbe denominare un processo di privatizzazione del rischio.
In questo senso i cileni sentono che oggi godono di un benessere maggiore, ma alla minima scossa, per esempio la perdita del lavoro o una malattia improvvisa, possono rimanere in mezzo alla tempesta. Questo sentimento di fragilità, che è proprio del tipo di modernizzazione che la società cilena sta sperimentando, richiede lo sviluppo di sentimenti comunitari che sostengano la solidarietà e compensino l’individuazione crescente.
Il governo di Michelle Bachelet è il quarto governo democratico e il quarto di una coalizione di centro sinistra dopo la fine della dittatura nel 1989. Secondo Peña, l’elemento essenziale della democrazia non è dato dall’alternanza, ma dal fatto che «governi chi riesce ad ottenere l’appoggio della maggioranza». «L’essenziale della democrazia è la regola della maggioranza, non dell’alternanza. E il Cile, non fa male ricordarlo, è stato all’altezza della regola negli ultimi quindici ann»”. Comunque, l’analista concorda sul fatto
che una stessa coalizione che governa per molto tempo corre dei rischi, il principale dei quali è che «finisca per confondere gli interessi dei propri membri, che sono inevitabilmente parziali, con quelli dello Stato, che deve promuovere gli interessi comuni». Tutto ciò, «è chiaro, finirebbe per pregiudicare l’esercizio quotidiano della democrazia».
Tuttavia Carlos Peña è convinto che Michelle Bachelet sia pienamente cosciente di questi pericoli come «dimostra il fatto che si è data da fare per nominare i suoi ministri, stimolando ciò che potremmo definire ‘la circolazione delle élites’. Le élites, e la Bachelet lo sa bene, quando non si rinnovano finiscono per trasformarsi in oligarchie. Da qui il fatto che lei ha compiuto degli sforzi per rinnovare l’élite di governo, cosa che, com’era inevitabile, ha causato qualche frizione coi partiti».


Aspettative e frustrazioni

Tra le diverse aspettative della società cilena, alcune necessariamente provocheranno frustrazioni in quanto incompatibili tra di loro: «Per esempio, c’è un’aspettativa di ampia partecipazione e, allo stesso tempo, un desiderio di decisioni rapide ed efficienti. Disgraziatamente un governo, in soli quattro anni, non può stimolare una partecipazione ampia alla presa di decisioni ed essere al tempo stesso efficiente. O una cosa o l’altra».
Ci sono anche aspettative di ampliamento dell’apertura su alcuni temi relativi a questioni morali, come il matrimonio gay o l’aborto, e ciò può non risultare coerente con le aspettative dei settori democristiani. «E qui bisogna di nuovo scegliere», ricorda Peña. Infine, «c’è un’ampia aspettativa intorno all’istruzione e alla protezione sociale come forme di superamento, o correzione, della disuguaglianza. Tuttavia è difficile che un governo, in quattro anni e senza possibilità di rielezione, possa ottenere frutti tangibili. È probabile che col passare dei mesi quelle aspettative andranno aggiustandosi poco a poco e le incoerenze che ho citato spariscano».
Conclude Peña: «La democrazia cilena non ha speranze sproporzionate, manca di componenti utopistiche e quindi non è più esposta a grandi frustrazioni. Com’è stato detto molte volte, le democrazie sono mediocri e noiose. Grazie a Dio, in Cile siamo in questa mediocrità. Anche se questo può deludere alcuni intellettuali europei che continuano a credere che ciò che è buono per loro, e mi riferisco alla mediocrità democratica, non sia buono per i sudamericani».

pmayorga@fastwebnet.it

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