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Il futuro dell'Europa fra politica, sovranità e cittadinanza

Giuliano Amato


Vorrei proporre un’applicazione del pensiero di Jacques Maritain al problema dell’Europa, anche considerando che questo autore ha trattato ne L’Uomo e lo Stato più del governo globale e della degradazione delle pretese di esclusivismo degli stati nel governo globale che non del governo europeo, in quanto tale opera nasce da lezioni tenute negli Stati Uniti alla fine degli anni Quaranta, quando vi era la guerra appena alle spalle e l’esperimento delle Nazioni Unite era al suo inizio.
Partirò dalla premessa che l'Europa è malata e che è un errore attribuire alla sua malattia una mera natura economica.
In realtà sono convinto che l'Europa stia tradendo se stessa e che la sua malattia sia un tradimento di sé e dei valori (non soltanto economici) che ha saputo trarre dalla propria storia e dal proprio presente, e che la cura di questa malattia esiga un po' di economia e tanto Maritain. È verissimo quello che viene spesso detto, ovvero che l’interdipendenza economica spesso esaspera gli egoismi, e certo la vicenda in cui l'Europa è stata impegnata recentemente è la più adatta ad esasperare gli egoismi e ad esprimere un contesto che è fondamentalmente economico-finanziario; mi riferisco in particolare alla discussione sulle prospettive finanziarie che altro non sono se non il bilancio pluriennale 2007-2013 dell’Unione. Quando si parla di bilanci, è difficile che si manifesti uno spirito molto diverso da quello puramente contabile, ma è sbagliato pensare che questo esaurisca il senso dell'Europa e bisogna diffidare dagli editoriali in cui si finisce per far coincidere l'essere dell'Europa con la difficile elaborazione e decisione comune su un bilancio. Non dico che l'economia non abbia importanza; della malattia del nostro continente essa è in parte responsabile, ma l'equivoco può essere nato da una visione impropria di ciò che i padri fondatori decisero di fare quando si adottò la decisione di costruire l'Europa a partire da un mercato comune.
Partendo da questo equivoco, sarebbe facilissimo fare un’equiparazione fra mercato comune e Europa come semplice mercato. Questa prospettiva, tuttavia, non tiene conto di un fatto precedente che ipoteca tutti i successivi, e cioè che per i padri fondatori dell'Europa la costruzione del mercato comune altro non  era che uno strumento per aggirare le difficoltà incontrate nel dar vita ad una autentica unione dei popoli europei. Questo è il loro intendimento, esplicito in Schumann, ma ancora di più nel nostro De Gasperi quando negli anni '53-'54 si batté più di ogni altro perché si arrivasse subito alla formazione di un'assemblea parlamentare europea munita di poteri politici. È il “no” francese a questa impostazione che determinò il ripiegamento sulla costruzione di un mercato comune senza però far venir meno la stessa aspettativa e la stessa ambizione che portava in sé l'unione politica.
Questa aspettativa era medesima in Maritain: la creazione di un’unione tra gli europei che eliminasse l'esclusivismo della sovranità nazionale, rendendo impossibile per il futuro il riprodursi di conflitti militari tra i paesi europei, e che, quindi, prevenisse il formarsi della tentazione di risolvere i futuri conflitti in chiave militare.
La finalità ultima dell’Unione Europea è, dunque, la pace tra gli europei. Ed è una finalità che nasce da un orrore della guerra che non è esterno ma tutto interno alle coscienze della generazione che la guerra l'ha vissuta e che, soprattutto, ha sentito sulle sue spalle la responsabilità di due conflitti mondiali e dell’esplosione dell'ordigno nucleare per la prima volta nella storia, con la consapevolezza che ciò ha avuto origine all'interno dell'Europa.
La costruzione della pace, dunque, nasce come qualcosa di interno alle persone, come il tentativo di creare rapporti fra gli europei che facessero scoprire gli interessi e le prospettive comuni e, di conseguenza, l'assurdità del rivolgersi l'uno contro l'altro con le armi in pugno, rendendoli consapevoli che la loro stessa prosperità e il loro benessere potevano venire non dalla conquista del territorio dell'altro, ma da una sorta di condivisione del territorio attraverso l'esercizio delle rispettive attività economiche senza più la traccia dei confini.
Creare un'identità di interessi attorno a cui cominciare a costruire un’identità di molti, creare conseguentemente le premesse di una comune cittadinanza europea all'interno della quale le differenze permangono ma come connotati di ciascuno in quanto – lo dico con Maritain – membro di una comunità, ma con una proiezione in una società politica – sempre per citare Maritain – che è quella che conferisce la cittadinanza che diviene europea.
Il mercato comune è questo. Il senso dell'abolizione delle barriere è questo. Rendere evidenti le ragioni di convenienza che giustificano il nostro stare insieme è funzionale a ritrovare le ragioni che superano la stessa appartenenza alla comunità.
Dal mercato comune, dunque, il passo successivo è stato quello di far emergere dai fondamenti giuridici dei paesi membri alcuni princìpi fondanti comuni, capaci di diventare pian piano valori comuni di quella che parte come una comunità economica e che, dopo alcune decine di anni, si autodefinisce e viene definita e percepita all'esterno come una comunità di valori. Si è arrivati al punto che, secondo la Dichiarazione di Copenaghen del 1993, i paesi che vorranno accedere all’Unione Europea dovranno dimostrare di aderire ai valori e ai princìpi europei per quanto riguarda i diritti della persona e delle minoranze. E nel testo mai entrato in vigore della Costituzione, all’art. 6, si afferma esplicitamente che l'Unione Europea è aperta agli stati europei che ne condividono i valori e non solo i princìpi economici.
Dopo aver cercato di spiegare come il genio originario del mercato comune non sia economico, vorrei tornare al tema della malattia dell’Europa, argomentando nuovamente come neppure la causa di questa malattia  abbia una ragione economica.
L’Europa ha sempre dimostrato nella sua storia di saper utilizzare le diversità che progressivamente ha accolto, arricchendo la propria identità, riconducendo ad alcuni valori chiave diversità progressivamente assimilate. I diritti e i valori europei non sono creati costitutivamente da qualche autorità, non sono octroyés, ma scaturiscono progressivamente. Dal punto di vista giuridico, si vede come essi siano progressivamente accertati, come mostrano le sentenze della Corte Europea, a partire innanzitutto dai trattati e dalle tradizioni costituzionali comuni dei nostri paesi, affermandoli poi come princìpi di diritto europeo.
In questo contesto, una carta fondamentale dei diritti degli europei costituirebbe ciò che i giuristi di common law definirebbero restatement of law, vale a dire una carta che non è costitutiva di questi diritti ma che elenca, attraverso i suoi articoli, i diritti esistenti nei trattati, nella giurisprudenza della Corte di Giustizia, nelle tradizioni e nelle culture costituzionali. E' chiaro però che c'è qualcosa di vero e, al tempo stesso, di fittizio in questa operazione di accertamento.
C'è una comunità che sta crescendo, che sta affidando buona parte di sé ad un idem sentire che prende corpo e che viene progressivamente riconosciuto. Questa costruzione di valori e princìpi è dunque una costruzione dal basso perché coinvolge tutti nel momento in cui viene agevolata la formazione di un consenso comune intorno ai diritti, ai valori e ai princìpi europei; è questo il processo che, esaminando la storia d'Europa, ha reso ricco culturalmente il Continente, che l'ha reso una democrazia e ne ha fatto la parte del mondo che per prima ha visto l’affermazione dei diritti umani, della persona e non degli individui, come direbbe Maritain. Questo è l’essenziale: una nozione di cittadinanza che è fondata, strutturata, imbevuta del rifiuto di qualunque discriminazione. Una nozione che abbiamo fatto nostra e che è di derivazione francese, poiché è stata la Francia il primo dei paesi europei che ha disconnesso la cittadinanza dall’elemento etnico, religioso o sociale compiendo la separazione della cittadinanza dall’ambito comunitario di cui parla Maritain.
Quando, in una fase precisa della nostra storia di europei (e penso proprio a Copenhagen 1993), noi abbiamo guardato ai paesi fuori dall’Unione Europea, ad esempio ai Balcani, lo abbiamo fatto esattamente da questa prospettiva. Entrare a far parte dell’Unione è possibile solo se si comprende che la cittadinanza prescinde dall'essere serbo o bosniaco, dall'essere cristiano o musulmano, dall'essere ortodosso o cattolico; cioè che una comunità statuale non può essere fondata su presupposti differenti dagli stessi princìpi su cui è fondata l’Unione Europea.
Uniti nella diversità è dunque il giusto motto dell’Unione. È la nostra storia e la nostra visione del futuro. Dietro queste pressioni, i paesi balcanici hanno cominciato a lavorare con impegno e buona fede e con risultati alterni nel tentativo di adeguarsi alla nostra nozione di cittadinanza: in Macedonia le due comunità albanese e macedone, prima all'orlo della guerra civile, hanno sconvolto addirittura i confini delle loro municipalità per consentire in ciascuna la compresenza di entrambe le etnie. La Bosnia-Erzegovina si avvia a trasformare le sue comunità in una società politica, riunendo serbi e bosniaci, musulmani e croati cattolici. Il discorso vale anche per il Kosovo, in cui ancora oggi essere serbo significa essere un cittadino di seconda classe, sprovvisto anche delle più elementari sicurezze.
Noi abbiamo preteso dai Balcani l’avvio di questi processi e la fine di queste situazioni drammatiche ma paradossalmente, appena abbiamo avuto qualche difficoltà al nostro interno, abbiamo rinnegato il cuore dei nostri princìpi e la nostra idea di cittadinanza. Questo è accaduto con il referendum olandese e francese e continua ad accadere ogni volta che i valori cristiani e la radice cristiana dell’Europa viene reclamata da qualche sciagurato per creare una barriera nei confronti di chiunque non sia cristiano. Questa diffidenza nei confronti delle diversità è cresciuta nel continente fino al punto (ed è la storia del referendum francese) che si è diffusa l’immagine dell' “idraulico polacco”, l’idea cioè che una diversità relativamente limitata (rappresentata dai polacchi) costituisca in questo caso una minaccia.
Abbiamo rinnegato i princìpi che ritenevamo fossero nostri e che abbiamo imposto agli altri. Guardandoci alle spalle, dobbiamo constatare con amarezza che la cittadinanza di tipo francese, la cittadinanza coniugata sul principio di non discriminazione, ha retto tra di noi fino a quando eravamo tutti cristiani, fino a quando eravamo tutti bianchi, fino a quando eravamo probabilmente tutti già parte di una di quelle precostituite comunità delle quali abbiamo parlato. Già l'essere ebreo ha dimostrato di mettere a rischio il principio di non discriminazione e abbiamo visto quali spaventose conseguenze questo abbia comportato.
Abbiamo dimostrato di essere in grado di fare il salto verso la società politica sino a quando le nostre comunità, uso sempre l’espressione di Maritain, erano molto simili. Lo sanno gli algerini, perché la Francia, fedele a se stessa, è sì il paese europeo che ha da molto tempo riconosciuto il diritto alla cittadinanza francese con più facilità di ogni altro, ma essere, da algerino, cittadino francese in Francia, in tutti questi decenni ha sempre significato essere un “diverso” rispetto agli altri e su un gradino quasi immancabilmente più basso degli altri. Questa contraddizione è esplosa quando in Europa sono tornati a convivere, come altre volte nella storia, cattolici e ortodossi, cristiani e mussulmani. Guardandoci intorno, vediamo che, nonostante avessimo pensato di poter insegnare agli altri, forse noi stessi dobbiamo ancora imparare.
Se, poi, vediamo che già siamo riusciti a infettare anche i giovani con le nostre diffidenze e le nostre paure, allora si può dire che la malattia è in uno stadio avanzato, perché è dei bambini e dei giovani la caratteristica di essere disposti all'amicizia civile indistintamente e naturalmente. In un paese nel quale c'è un po' di integrazione, una delle cose che colpisce è la naturalezza con la quale i bambini di colore diverso si tengono per mano.
Di certo comunque, politica, economia e valori hanno un rapporto di interconnessione che non voglio negare. Se la Francia fosse in una fase di crescita economica, l'incubo dell’“idraulico polacco” probabilmente non sarebbe stato vissuto in maniera così significativa. È una cosa assolutamente elementare ma dobbiamo esserne consapevoli, le difficoltà economiche ci fanno vedere gli altri non come un'opportunità ma come un rischio. Non si può quindi negare che l'economia abbia una grande importanza e che, quindi, la nostra unità nella diversità dipende molto dalla nostra capacità di crescere, di liberare dalla paura del bisogno i nostri concittadini, di renderli disponibili ad atteggiamenti di solidarietà che hanno meno forza, se affidati soltanto all'etica, di quanta ne potrebbero avere in un clima economico che ispira ottimismo e fiducia.
Non vi è dubbio però che, oltre al peso dell'economia, qualcosa si sia inceppato anche nel motore dell'assorbimento delle diversità che è l'antico motore della civiltà europea. Esiste oggi una propensione a chiudersi, a temere la contaminazione di costumi, tradizioni e regole diverse dalle nostre, perfino una mancanza di reale volontà di porsi sinceramente in dialogo, anche conflittuale, con l’altro.
In Olanda è questo che è accaduto con le elezioni che hanno portato il partito di Pim Fortuyn al 25% dei voti. Questo risultato ha dato ai dirigenti degli altri partiti maggiori, cristiano- democratico e socialista, la consapevolezza che la frattura della società olandese era identitaria e non economica.
Quando pensiamo in termini di identità contrapposte dovremmo pensare anche alla nostra cultura in una prospettiva storica. Certamente nella cultura islamica esistono delle tradizioni che sono incompatibili con i diritti e la dignità della donna, ma, se siamo onesti con noi stessi, fino al 1975 (ovvero fino all'approvazione del nuovo diritto di famiglia in Italia) anche nel sistema fino ad allora vigente la donna era assoggettata al capo famiglia maschio.
In questa prospettiva possiamo renderci conto che certe tradizioni non sono figlie di princìpi di per sé immutabili e immutabilmente diversi dai nostri, ma possono anche essere figlie di stadi di sviluppo che noi stessi abbiamo attraversato e che, quindi, ci può essere un’evoluzione che porti ad una lettura dei medesimi princìpi che poco alla volta si assimili alla nostra. Ma questo è possibile purché manteniamo dentro di noi quello spirito europeo che è stato forse uno spirito di conquista anche culturale: una volontà di mostrare quello che si è, non solo attraverso le scelte che ci riguardano direttamente ma anche attraverso la capacità di stimolare il cambiamento altrui. Questo è ciò che è accaduto e sta accadendo con i paesi dell'Allargamento, in cui l’Unione Europea si è impegnata a cambiare le diversità incompatibili (guai a ritenere tutte le diversità compatibili!), aiutando questi popoli a introdurre princìpi per noi fondamentali come, per esempio, la democrazia politica e l’indipendenza del potere giudiziario.
Questi risultati sono stati raggiunti in passato grazie alla volontà di cimentarci con le diversità, forti dei nostri princìpi e valori comuni. Ora, invece, ci stiamo ritirando in noi stessi. È questa la causa vera del declino dell'Europa, il quale è facilitato dal fatto che le élites politiche si nascondono dietro gli umori degli elettori e abdicano alla loro leadership per diventare follower. Aggiungere che queste stesse élites bestemmiano i valori democratici definendo democrazia questo stato di cose e scordando che non è la democrazia che impone di ripetere pedissequamente gli orientamenti dell’elettorato, perché se esiste un disegno politico migliore, se esiste la consapevolezza che sono in gioco diritti umani fondamentali o princìpi irrinunciabili, è un dovere della politica parlare con l’elettorato, spiegare le proprie ragioni, cercare di convincere i cittadini, fino a rischiare la perdita di consenso in nome di un principio superiore; diversamente, non vi sarebbe differenza fra elezioni e sondaggi.
Questo è un tema cruciale. Non si riesce ad andare avanti se non vi è qualcuno che guida in sintonia con gli altri. Tuttavia, questa sintonia si deve costruire, si deve cercare, perché se la si cerca e la si costruisce sarà una sintonia forte, mentre se sarà basata sugli umori non potrà esserlo, dato che questi possono cambiare.
La terza causa della malattia dell’Europa è il rischio di un uso strumentale della religione in un modo che dovrebbe offendere qualunque persona di fede, mentre proprio alcune persone di fede fanno loro questo modo di usare la religione gli uni contro gli altri. Questa strumentalizzazione della religione fa dei princìpi cristiani non dei valori per, ma dei valori contro, li rende espressione di un confine, li trasforma in una bandiera dell'occidente contro le bandiere degli altri. Questo offende doppiamente una religione come il cristianesimo che aspira ad essere universale e che è fondata sull'amore; l'amore non è territorializzato ma legato all'idea che in ogni essere umano c'è il segno di Dio, sottolineo, dello stesso Dio.
E questo è un fenomeno in crescita che si mescola ovviamente anche alla politica, perché quando sono dei laici a farsene banditori diviene quasi inevitabile che essi curino anche i propri interessi politici e cerchino di piegare la religione a supporto della propria parte politica. Questo atteggiamento costituisce una terza offesa alla religione che, se è universale geograficamente, non può che esserlo anche politicamente.
Non possiamo lasciare immutato questo stato di cose. Dobbiamo, invece, ancora una volta seguire Maritain rifiutandoci di cedere all'idea che, constatate le differenze, le intese sono da raggiungere soltanto sulle procedure, lasciando i grandi temi e le diversità fondamentali fuori dal discorso politico, inteso propriamente come discorso della società politica. In fondo anche Habermas ha ceduto a questa tentazione relegando la discussione sui valori nel prepolitico. Questa scelta è una fuga e rappresenta un errore, poiché in un sistema democratico non si possono mettere i valori sotto il tappeto e perché non c'è intesa possibile su nessuna regola, neppure procedurale, se al fondo non c'è anche un'intesa sui princìpi fondamentali, sul modo di intendere il bene comune.
Perché, infatti, dovrei accettare di essere messo in minoranza, se non perché ho una qualche condivisione dell'idea del bene comune con la maggioranza? Se non condivido nulla, perché dovrei raggiungere un'intesa sulle procedure?
Oggi non possiamo lasciare tutto questo nell'equivoco. Bisogna diffidare di chi dice che la democrazia vive al di fuori dei valori assoluti. La democrazia è, anzi, fondata su valori assoluti, perché la dignità della persona, che è coessenziale alla democrazia, è un valore assoluto; perché la libertà di coscienza, che è coessenziale alla democrazia, è un valore assoluto; perché l'eguaglianza di ogni essere umano rispetto ad ogni altro essere umano è un valore assoluto. Quando allora si parla di relativismo non si deve pensare ad un mondo in cui non vi sono valori assoluti, ma ad un mondo nel quale le declinazioni di questi valori debbono essere tali da tenere conto delle ragioni degli altri.
Questo punto è stato affermato con grande chiarezza proprio da Maritain ne L’Uomo e lo Stato, dove si legge che lo Stato non dovrebbe proibire comportamenti di una minoranza dei suoi cittadini qualora una simile proibizione contrasti «col codice etico di comunità di cittadini la cui lealtà nei confronti della nazione, la cui fedeltà alle proprie convinzioni morali»[1]siano indiscutibili. È quindi possibile trovare etiche diverse, se etiche sono, che abbiano entrambe dentro di sé la dignità della persona, l'eguaglianza, la libertà di coscienza. Sono le declinazioni di queste etiche che debbono essere rese pubbliche, non ignorate, perché non esiste alla fine altra regola che valga se non quella che porta alla convivenza pacifica fra gli esseri umani, e se gli assoluti rimangono come falde sotterranee che si possono scontrare, esse, emergendo, possono portare alla fine della convivenza umana.
Questo implica, ad esempio, religioni che dialoghino, sentendone la responsabilità. Le ragioni del dialogo sono incomprimibili e devono essere avvertite come tali; sono fondamentali sia per l’autorità religiosa che per il governo civile, perché l'importanza che hanno oggi le religioni nelle nostre società è talmente elevata che il dialogo civile può essere reso impossibile da una loro mancata assunzione di responsabilità. Anche i leader politici debbono essere all’altezza di tutto questo e muoversi in base a visioni di futuro e non in base a sondaggi, con il coraggio di chi afferma ciò in cui crede e non con la timidezza di chi non osa dire ciò che l’elettorato mostra in un determinato momento di non gradire.
E abbiamo bisogno di noi stessi, indipendentemente dalle responsabilità e dai ruoli che rivestiamo; abbiamo bisogno di credere in noi, credere che ci possiamo aprire con fiducia agli altri; abbiamo nuovamente bisogno di quella curiosità verso qualunque essere umano che ci porta a discutere con lui anche nelle divergenze. Abbiamo bisogno che ciascuno acquisisca la consapevolezza che le distanze non esistono più.
Questa è la cosa che più conta, perché le religioni dialogano, i leader politici parlano attraverso le televisioni e i giornali, ma sono parole che entrano nelle nostre menti e possono concorrere in un modo o nell'altro ai nostri comportamenti. Sono però questi ultimi, il nostro modo di agire, ad essere determinanti, se riusciamo a vivere con gli altri, se riusciamo a biodegradare le diversità all'insegna non di qualunque convivenza ma degli assoluti della democrazia e di quel processo di contaminazione che si costruisce non sul dialogo fra sistemi ma sul dialogo fra esseri umani che, vivendo uno accanto all'altro, finiscono in qualche modo per influenzarsi e per diventare l'uno parte dell'altro.
È questo processo di contaminazione nella vita quotidiana che può realmente unirci nelle diversità. Se avremo successo, l'Europa avrà un futuro.

(testo non rivisto dall'autore)

Le Jacques Maritain Lectures costituiscono un appuntamento annuale del Centro Studi e Ricerche dell'Istituto Internazionale Jacques Maritain: alcuni protagonisti della vita politica, economica e culturale europea ed internazionale sono invitati a confrontarsi, nel contesto del nuovo Millennio, con le pagine più importanti del filosofo francese.
La Lecture del 2005 (Trieste, 6 dicembre) è stata tenuta da Giuliano Amato, che ha offerto una riflessione sul futuro dell'Europa a partire dal volume Man and the State (1951); l'incontro è stato introdotto da Francesco Russo, direttore del Centro Studi e Ricerche, e da Riccardo Illy, Presidente della Regione Autonoma Friuli-Venezia Giulia. Michele Nicoletti ha quindi presentato i luoghi di maggiore attualità del volume di Jacques Maritain proposto per la Lecture.
Maggiori informazioni sulle Jacques Maritain Lectures e sulle attività del Centro Studi e Ricerche sul sito www.maritain.org o all'indirizzo centrostudi@maritain.org.


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