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Tra vedovi della secolarizzazione e atei devoti
(dopo la mancata visita del Papa alla “Sapienza”)

Luigi Alfieri

1. Non mi pare necessario rievocare il noto episodio della mancata visita del Papa all’Università “La Sapienza” di Roma, con le polemiche e le strumentalizzazioni che ne sono seguite. Il fatto ormai non è più agli onori (assai dubbi) della cronaca, e tra non molto nessuno se ne ricorderà. Il problema è che di fatti del genere rischiano di succederne ancora molti, e ogni volta ci sarà qualche strascico, e alla lunga l’effetto di accumulo potrebbe fare dei danni anche seri. Quindi vale forse la pena di tentare qualche riflessione, prima che la questione sfugga alla possibilità di una valutazione critica serena.
Prima di tutto, non sarebbe il caso di evocare i fantasmi di Galileo e di Giordano Bruno. Ci dovremmo accordare sulla necessità di limiti temporali alle evocazioni di fantasmi. Dopo un certo numero di secoli, da stabilire di comune accordo, si smette di rinfacciare agli inglesi il rogo di Giovanna d’Arco, agli austriaci lo Spielberg, agli americani la schiavitù dei neri, alla Chiesa cattolica il processo di Galileo (che non è neppure la cosa peggiore da rinfacciarle, ovviamente). Perché, trascorso un tempo adeguato, non è più vero che sono stati loro. Sono diventati un’altra cosa, non lo farebbero più, non sarebbero più d’accordo con chi l’ha fatto, non capiscono neanche più perché è stato fatto, oggi non gli verrebbe neppure in mente: a prendersela con loro si spreca parecchia energia nello sfondamento di porte aperte. E poi, se si continua a rinfacciare Galileo ai cattolici, prima o poi qualche cattolico imbecille si sentirà in dovere di dire che Galileo era un tipaccio (mi dicono che è già successo…), e si ricomincia tutto daccapo. Certamente però il Papa non sarebbe andato alla Sapienza a parlare male di Galileo, dunque non c’è motivo di tirare in ballo Galileo per parlare male della Chiesa. Se proprio si vuole, non mancano argomenti più seri e più freschi.
Tolti di mezzo i fantasmi, si tratta di vedere qual è il vero argomento del contendere. Il Papa attuale è un serio e autorevole intellettuale. Si può non essere d’accordo con lui (chi scrive non lo è), ma non si vede perché un serio e autorevole intellettuale riconosciuto a livello internazionale non debba inaugurare l’anno accademico di un’università. Il fatto che si tratti anche di un’autorità religiosa è irrilevante, a meno che non si pensi che l’università debba essere laica nel senso di irreligiosa o antireligiosa: e non si vede cosa autorizzi a pensarlo (ma su certi inquietanti equivoci su cosa significa essere laici tornerò dopo). Naturalmente, invitare il Papa non avrebbe significato che la scienza deve sottomettersi alla fede, non avrebbe minimamente ostacolato professori e studenti nel perseguire le loro attività senza farsi guidare da dogmi religiosi, non avrebbe significato che un’università statale diventava ufficialmente cattolica. Naturalmente il papa avrebbe espresso, in maniera presumibilmente moderata e rispettosa, la convinzione che la verità religiosa sia di ordine superiore rispetto alla verità scientifica, e non mi pare che la cosa debba suscitare meraviglia. Su ciò nessuno sarebbe stato obbligato ad essere d’accordo, e chi non trovava interessante la cosa poteva semplicemente non andare alla cerimonia (come avrebbe fatto chi scrive). Nessuno avrebbe fatto del male a nessuno, nessun valore di nessuno sarebbe stato messo a rischio. Quel che è accaduto, alla fine, è uno stravagante gioco d’equivoci che fa poco onore a chi se n’è lasciato coinvolgere in maniera esagerata. Solo che, evidentemente, dietro c’è dell’altro. E il vero problema è quello. Parliamo dunque del vero problema.


2. Il vero problema, mi pare, ha due livelli. Uno grave ma contingente, rimediabilissimo; uno fondamentale, nell’immediato forse non ancora percepito come grave, ma di soluzione estremamente complessa e forse impossibile. Il primo livello del problema, è che la Chiesa oggi è schierata. Molto schierata, con amici e nemici ben precisi. Schierata per valori che possono essere riconosciuti anche da chi muove da altri presupposti e su cui potrebbero esserci importanti e benefiche convergenze, ma schierata, anche, su posizioni di potere che poco hanno a che fare con la sua natura spirituale, e fanno molta, molta confusione tra Pietro e Cesare (e forse anche tra Cristo e Mammona, potrebbe pensare qualcuno, non senza argomenti). Non è un fatto nuovo, anzi. Solo che dopo il Concilio ci eravamo abituati diversamente, ci eravamo fatti un’altra idea di Chiesa, e troppo spesso non la troviamo dove ci verrebbe naturale cercarla e ci accorgiamo che sta altrove, dove la sua presenza ci crea forte disagio, perché non sembra che stia al posto suo. E allora si può anche capire che chi non avrebbe affatto voglia di definirsi un nemico della Chiesa ci resti un po’ male quando ha la sensazione che la Chiesa, da parte sua, ci tenga ad averlo come nemico, e pensi che a quel punto tanto vale accettare lo scontro. A Roma è successo sicuramente un po’ questo. Non è così che se ne esce, si fa solo danno. Però passerà. La Chiesa ha fatto molto col Concilio, a un certo punto ha temuto di aver fatto troppo, ha innestato la marcia indietro, e probabilmente sta esagerando in questa direzione. Pazienza, riprenderà la sua strada, ha tempo, è abituata a lasciarsi tempo. Non misuriamola col metro della contingenza, anche se troppe volte lei stessa lo fa.
Il punto più interessante è l’altro. Ed è che stanno venendo al pettine certi nodi aggrovigliatissimi che pensavamo di aver già sbrogliato, mentre li avevamo solo imbrogliati di più. E qui si tratta anzitutto del problema della secolarizzazione.
Il concetto di secolarizzazione, mi sembra, ha tre implicazioni principali. Le prime due sono dati di fatto storico-culturali evidenti, la terza invece è un’illusione che sarebbe tempo di lasciar cadere. Secolarizzazione significa (seguendo l’ordine storico nel quale il fenomeno si è manifestato): 1) che le appartenenze religiose e quelle politiche non solo sono distinte (in ambito cristiano lo sono sempre state), ma non condividono più lo stesso principio di legittimazione, e non fanno dunque parte di un unico ordine cosmico; 2) la verità di fede e la verità di ragione non solo sono distinte (lo sono sempre state), ma non sono più articolate gerarchicamente all’interno di un unico sistema. Non solo la verità di fede non prevale in assoluto su quella di ragione, ma all’interno del discorso filosofico-scientifico cessa di avere senso e non ha più alcun potere esplicativo, neppure per quei soggetti che individualmente vi aderiscono.
E fin qui, si tratta di storia. Poi c’è l’illusione: 3) le convinzioni e le istituzioni religiose rappresentano un residuo sempre più debole di epoche e condizioni sociali passate, e sono destinate ad essere travolte dagli sviluppi della scienza, dell’economia, della politica, e ciò costituisce un progresso. E invece è accaduto che non soltanto le vecchie religioni resistono o addirittura si rafforzano malgrado crisi e conflitti, ma ne nascono in continuazione di nuove e quelle antiche si incontrano e si mescolano tra loro in maniera impensata, e il futuro dell’Occidente non si configura più come il trionfo della scienza, e magari del socialismo (o del liberalismo, a seconda dei gusti), ma come un caos multiculturale e multireligioso in cui bisognerà pur trovare un principio d’ordine condiviso che certamente non sarà il superamento dei valori religiosi. E questo costringerà a fare i conti con gli equivoci di cui soffre il principio di laicità dello Stato.


3. Per capire che cos’è la laicità, bisognerebbe capire che cos’è la religione. E a questo proposito soffriamo ancora dei postumi di un’antica illusione ottica: quella che i conflitti religiosi si possano superare soltanto riducendo la religione all’interno della sfera individuale e privata. Ma la libertà religiosa non può essere considerata nell’ambito delle libertà individuali. La vera libertà religiosa non è quella di pensiero, è quella di associazione. Un individuo può avere interessi, opinioni, passioni, credenze, bisogni, desideri e tanto altro ancora, ma non può avere una religione. Una religione, ogni religione storicamente e culturalmente significativa, ha alle spalle un passato spesso millenario, sulla cui base coltiva un progetto di senso che ha come orizzonte, di solito, non meno che l’eternità, ed è retta da fortissimi legami istituzionali e comunitari, spesso posti essi stessi come il valore religioso fondamentale (l’essere figli di Dio, l’essere fratelli, l’essere legati da amore). Ciò postula un campo d’azione che coincide addirittura con l’universo: nessun sistema di pensiero pensa tanto in grande come fa anche la più modesta delle religioni, e naturalmente nessuna religione è solo un sistema di pensiero, di credenze, di dottrine sulla natura e il senso del mondo. Ogni religione apre dimensioni emotive, immaginative, artistiche, espressive in tutte le possibili declinazioni del termine, coinvolge o vorrebbe coinvolgere la totalità umana dei propri aderenti, e questo coinvolgimento implica una condivisione comunitaria della prospettiva religiosa che richiede necessariamente, per ogni e qualsiasi religione, una forte affermazione precisamente nella sfera pubblica. Riconoscere e tutelare la libertà religiosa in quanto libertà individuale, equivale precisamente a proibire, o quanto meno a snaturare, tutte le religioni. Una religione non è un modo di pensare soggettivo, e neppure uno stile di vita privato: è un affacciarsi su un orizzonte che ha come spazio l’universo e come tempo l’eternità da parte di una collettività che ha come patrimonio un’esperienza storica non di rado di millenni e che progetta il futuro nell’ottica dei millenni, ricomprendendo nel proprio seno tutti i propri morti e tutti i non ancora nati e che aspira (non proprio in tutti i casi, ma come caso normale) a coincidere, nella pienezza dei tempi, con l’umanità intera, sconfiggendo la morte stessa, nientemeno. Questo è una religione: non un’idiosincrasia più o meno eccentrica che ciascuno può coltivare nel proprio cantuccio, insieme alle sue predilezioni alimentari, ai suoi pregiudizi e ai suoi gusti sessuali, secondo un’ottica di tutela della religione come tutela della privacy. No, le religioni sono strutture comunitarie, e di dimensioni e prospettive titaniche: nessuno Stato al mondo regge il confronto. C’è da sentirsi ridicoli al solo prospettare la tutela della libertà religiosa come compito dello Stato: un nanerottolo stortignaccolo nato l’altro ieri e già moribondo come lo Stato dovrebbe tutelare un gigante, anzi un dio!
E qui diventa urgente decidere che cos’è il laicismo, se un valore o un metodo, se un corpus di dottrine oppure uno spazio d’incontro. Se il laicismo è intrinsecamente un valore, questo implica che la religione è intrinsecamente un disvalore, quindi il principio laico dovrebbe consistere nell’arretramento progressivo delle religioni finché saranno felicemente rinchiuse nella sfera domestica: il che equivale ad auspicare che le tigri si trasformino progressivamente in simpatici gattini. Spiacente, non lo fanno, e non è colpa loro, le tigri sono tigri. Inteso in questo senso, il laicismo è una dottrina perdente, ed anche piuttosto stupida. Se la sfera pubblica è solo la sfera dello Stato, nessuno Stato può credibilmente promettere un centomillesimo di quel che promette una religione. Welfare, pensioni, istruzione gratuita, tribunali equi ecc.: tutte bellissime cose. Ma dall’altra parte si promette TUTTO: la salvezza, l’immortalità, la visione di Dio… E se il nanerottolo con la sua vocina stridula dice che tanto non è vero niente, lui che ne sa? E perché questa vocina dovrebbe convincerci più del ruggito della tigre che dice che la morte è vinta? No, se il laicismo è lo Stato che vincola, limita, regola la religione e la manda a cuccia nel privato, lo Stato può solo fare una bruttissima fine, e con lui il laicismo.
Dunque il laicismo può essere soltanto un metodo. Ed implica in prima battuta un arretramento non della religione, ma dello Stato. Lo Stato deve offrire spazi di convivenza, non prospettive di senso. Deve darci la possibilità di cercare ragioni di vita confrontandoci con l’infinito, non ossificarle dentro le sue regolette legali. Laicità significa che lo Stato cede ugualmente il campo davanti a tutte le religioni (ed anche, naturalmente, davanti alla possibilità folle e grandiosa di intraprendere una ricerca di senso persino al di là delle religioni), non che si sforza di ridurle tutte quante all’insignificanza di gusti individuali. E lo scenario di questa convivenza è pubblico. Ogni religione o è pubblicamente o non è. Lo Stato non deve sposarne nessuna proprio perché non deve entrare in uno spazio che non è suo, proprio perché deve tacere sulle verità (o sulle speranze) ultime. Deve garantire che tutti i soggetti storici portatori di senso che hanno una presenza sociale significativa si esprimano con pari diritti e pari dignità, e che nessuna prospettiva di senso si affermi in maniera violenta e coercitiva. Laicismo, in definitiva, è proprio lasciare che lo Spirito soffi dove vuole. Laicismo non è, invece, portare il lutto per la secolarizzazione defunta: probabilmente non era neanche mai nata.
Però ci sia consentito di arrabbiarci, e di arrabbiarci anche molto, se poi vediamo la tigre andare a leccare la mano del nanetto, chiedendo protezioni, privilegi, tutele, spazi esclusivi, magari offrendosi come comoda cavalcatura per un tronfio galoppo nelle praterie del consenso di massa. Se la religione, che è esplosione di senso che cambia l’universo, accetta di farsi piedistallo per nanetti, strumento di mera conservazione di potere, se consente a certi personaggi di trasparente e persino esplicita ipocrisia di atteggiarsi a difensori dei suoi valori, se sente talmente poco la mano di Dio da avere paura del futuro e cercare protezioni politiche come una qualsiasi lobby, allora non ci si meravigli se si reagisce col rifiuto: anche smoderato, imprudente, non meditato, ingiusto. Può darsi, allora, che il laicismo, sotto la maschera dell’irreligiosità, si faccia immagine di una ricerca di senso più sincera. E dopo tutto, Gesù non era un prete (e neanche Maometto, e neanche Buddha, e, a quanto dicono, neanche Dio…).


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