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La democrazia di Karl Marx.
La Kritik e la Comune di Parigi: per una «forma politica espansiva»

Andrea Serra
Articolo pubblicato nella sezione "Tra le righe"

1. Un passo prima dell’utopia

Circa la possibilità di rinvenire una dimensione politica nella futura società comunista vagheggiata da Marx, Giuseppe Bedeschi scriveva: «Si tratta di tentativi a volte ingegnosi, ma necessariamente votati all’insuccesso» (Bedeschi 2008, p. 225).
Un ovvio epilogo se si considera la dottrina marxiana nel suo complesso, la quale naturaliter giunge alla realizzazione dell’interesse sociale «unico» (superamento della divisione in classi) e dell’omogeneità «assoluta» (ivi, p. 227), con la conseguente inutilità della politica stessa. È anche fin troppo nota la formulazione che Marx diede della cosiddetta concezione materialistica della storia nella Vorrede allo scritto Zur Kritik der politischen Ökonomie del 1859, ma giustamente Norberto Bobbio notava come questa teorizzazione fosse già stata esposta negli Ökonomisch-philosophische Manuskripte ben quindici anni prima (Bobbio 1997, p. 99). Il giovane filosofo, nel terzo manoscritto (Heft), così anticipava: «La religione, la famiglia, lo Stato, il diritto, la morale, la scienza, l’arte, ecc., non sono che modi particolari della produzione e cadono sotto la sua legge universale» (Marx, Engels 1968, p. 537).
Medesime considerazioni venivano espresse nell’opera Die deutsche Ideologie, dove lo Stato era considerato «la forma in cui gli individui di una classe dominante fanno valere i loro interessi comuni e in cui si riassume l’intera società» (Marx, Engels 1978, p. 62); e ancora nel Manifest der Kommunistischen Partei: «Il potere politico dello Stato moderno non è che un comitato, il quale amministra gli affari comuni di tutta quanta la classe borghese» (Marx, Engels 1977, p. 464); répétition della conclusione di Misère de la philosophie: «il potere politico è precisamente l’espressione ufficiale dell’antagonismo nella società civile» (ivi, p. 182).
Sulla conclusione della teoria politica di Marx, dunque, sembrano esservi pochi dubbi. Ci troviamo così a dover valutare due possibili linee di ricerca: quella dell’ultimo passo, corrispondente al non-luogo dell’utopia, al télos raggiunto; ovvero quella che rispetto all’utopia s’arresta un passo prima, contemplando nella dialettica storica e la democrazia e la politica.
Quello che in questo studio si vuol cercare di proporre è proprio questa seconda via: un passo indietro rispetto all’utopia. Le ragioni attengono sia alla storia di idee che alla storia di fatti. Se, relativamente alla prima, è corretto asserire che al di là dello scritto critico giovanile, Zur Kritik der Hegelschen Rechts-Philosophie, Marx non affrontò mai direttamente il problema dello Stato, è altresì vero come, in relazione a tutto il suo lascito teorico non vi è «opera in cui non si possano estrarre su questo stesso problema brani rilevanti e illuminanti» (Bobbio 1997, pp. 99-100). Il che non solo ci impone di dover necessariamente considerare l’anticamera politica quale elemento non così privo di significato, ma di rinvenire altresì in tale fase tutti gli elementi di quella «true democracy» tratteggiati per la prima volta nella Kritik del 1843 e sorprendentemente riproposti quasi trent’anni dopo nello scritto sulla guerra civile in Francia (1871), dove la storia di idee e quella di fatti si identificarono. Invero, quest’ultima non ebbe a riguardare solo i comunardi parigini. Ancora Bobbio, riferendosi allo sforzo intellettuale di Lenin per una democrazia «più democratica», fondata sullo stretto vincolo tra rappresentanti e rappresentati (mandato imperativo) e sulla cosiddetta «rappresentanza organica» (funzionale all’interesse di classe), evidenziava come tali principî fossero direttamente trapassati nell’art. 105 della Costituzione sovietica (Bobbio 1995, pp. 41-42).
È esattamente questo filo conduttore «democratico» a palesarsi un passo prima dell’utopia. Si tratta di un terreno complesso, cedevole, che per certi versi può essere considerato già utopico, essendo dell’utopia la premessa, e che tuttavia ci permette di cogliere una continuità di pensiero scevra, in questo caso, di «coupure épistémologique» (Althusser 2005, p. 25). Il pensiero di Marx sulla democrazia, infatti, rimase sempre lo stesso. Ciò che espresse in teoria giovanissimo lo ritrovò nella pratica quasi trent’anni più tardi. Per usare le parole di Alexandros Chrysis: «la teoria pre-comunista marxiana della democrazia [...] non sparisce nell’opera matura», anzi si inserisce dialetticamente nella teoria della lotta di classe e nella complessa tensione tra borghesi e proletari (Chrysis 2018, p. 7).
In accordo con quest’approccio le pagine a seguire proveranno a delineare il significato originario, le influenze teoriche e il riscontro storico della democrazia marxiana, intendendo quest’ultima come lo stadio ancora politico di una società pre-comunista; ovvero, prendendo nuovamente in prestito la terminologia del Chrysis: lo stadio in cui la politica non solo non si dissolve, ma smette di essere creazione di pochi (poíesis) per realizzare più compiutamente se stessa come pràxis, restituendo a ciascun individuo il suo ruolo attivo e la socialità perduta (ivi, pp. 214-215).


2. La democrazia come forma di governo riconciliante: il giovane Marx della Kritik

Il manoscritto che a partire dal 1927 assumerà il titolo di Zur Kritik der Hegelschen Rechts-Philosophie, trovò la sua ultima stesura a Kreuznach, nell’estate del 1843, quando Marx si trovava a soggiornare nel Palatinato renano. Lì presero forma gli ultimi apporti al testo che, di fatto, rimase incompiuto e sconosciuto fino alla pubblicazione di Rjazanov (Merker, 2011, p. 39). Un’oblio durato circa ottant’anni, che tuttavia, nell’ultimo cinquantennio, si è voluto riscattare. Tanto che si può convenire con quanto scriveva Umberto Cerroni a proposito della portata scientifica di un’opera «apparsa sempre più rilevante e organicamente connessa sul piano metodico alla generale prospettiva teorica di Marx» (Cerroni 1972, pp. 117-118).
Ciò detto, pare davvero opportuna la schematizzazione del Petrucciani, utile a ricomporre un percorso di semplicità in un’opera rimasta nella torbida forma di minuta, mai consegnata alle stampe dall’autore. Segnatamente, si possono individuare tre piani, dipanatisi da una dimensione universale fino al cerchio concentrico più interno: politico-particolare. Abbiamo quindi: 1) una sfera «teorico generale», che attiene al Sistema hegeliano nel suo complesso; 2) una ontologico-sociale, relativa al rapporto tra il massimo momento dell’Eticità, lo Stato, e i «precedenti» della famiglia e della società civile; 3) una teorico-politica stricto sensu, «cioè il modo in cui Hegel articola lo Stato e le istituzioni nelle quali si organizza la sovranità» (Petrucciani 2010, p. 22).
Relativamente alla sfera teorico generale, è ben nota la parte della Kritik dedicata alla demistificazione dell’Idea hegeliana, nucleo primigenio e fondativo del suo pensiero, tale che Marx non mancò di rammentarlo tre decenni più tardi nel Poscritto alla seconda edizione di Das Kapital: «Ho criticato il lato mistificatore della dialettica hegeliana quasi trent’anni fa, quando era ancora la moda del giorno» (Marx, Engels 1962, p. 27). In sintesi, possiamo definire l’aspetto teorico generale dell’opera come critica alla filosofia idealistica, nella quale il soggetto reale, vivente, viene declassato a predicato del concetto: ciò che è astratto si sostituisce al reale, mentre il reale diviene il prodotto dell’astratto. È a questo punto, secondo Marx, che si realizzerebbe il cosiddetto «misticismo logico panteistico» (logische, pantheistische Mystizismus) (Marx, Engels 1981, p. 205), ovvero l’infecondità scientifica di una speculazione che da un lato, invertendo il nesso di causalità, divinizza l’Idea quale motore del reale, e dall’altro fa del reale acritico (empirico) la verità inoppugnabile dell’Idea.
Su questo si era già espresso con chiarezza Ludwig Feuerbach nell’opera Das Wesen des Christentums (Feuerbach 2006, p. 46), e dunque non sta certo qui la novità apportata dal giovane Marx. A ben vedere non sta neanche nel passaggio successivo, quello dell’applicazione di tale critica (in Feuerbach rimasta ferma sul piano antropologico) all’ontologia sociale, ossia all’essenza dei rapporti tra famiglia, società civile e Stato. Siffatti rapporti, in Hegel, risulterebbero capovolti, con la conseguente divinizzazione dello Stato: è quest’ultimo a scindere se stesso nelle sfere della famiglia e della società civile, non già esse a costituirlo. Il vero apporto teorico, di rilevanza per il seguente studio, lo rinveniamo così nel terzo ed ultimo passaggio, volto ad analizzare più d’appresso la sfera politico-sociale. Qui Marx evidenzia i due grandi meriti di Hegel: 1) l’aver descritto «l’essere (Wesen) dello Stato moderno tal qual è» (Marx, Engels 1981, p. 266), nella sua duplice e antinomica veste pubblica e privata, con annessa la conseguente scissione dell’individuo in bourgeois e citoyen; 2) «la profondità che sta in questo suo cominciare ovunque con l’opposizione delle determinazioni (proprie dei nostri Stati) e porvi l’accento», ossia la dialettica propriamente detta, la negazione (ivi, p. 257).
Soffermiamoci sul primo punto. Che cosa si deve intendere, nello specifico, quando ci si riferisce alla separazione della sfera privata-sociale da quella pubblica-politica? Seguendo Marx, al fatto che per la prima volta nella storia, quale conseguenza della Rivoluzione francese, le determinazioni economico-sociali non assumono più formalmente il loro corrispettivo in determinazioni giuridico-politiche. Tuttavia, il passaggio da un sistema nel quale «il servo della gleba era per ciò stesso suddito» e «il proprietario terriero era per ciò stesso signore o sovrano» (Bobbio 1997, p. 11) alla nuova fase storico-borghese della dimensione pubblica universale, all’interno della quale tutti i cittadini sono uguali, se da una parte diviene funzionale affinché la nuova classe titolare dei mezzi produttivi acquisti il potere politico, dall’altra fa sì che la dimensione asimmetrica dei rapporti sociali permanga nello sfondo privato, ed anzi tragga la sua forza proprio da tale divisione. Così che il codice genetico dello Stato moderno può rinvenirsi nella contraddizione di forma e sostanza: formalmente il popolo è tutto uguale, eppur nella sostanza permangono le vecchie pastoie di matrice servile, alimentate dal misticismo hegeliano e dalla forma politica monarchica.
Ed è proprio giunto a questo punto, dopo aver arrovesciato l’idealismo hegeliano nel suo rapporto tra soggetto e predicato, dopo aver riconosciuto nella società civile il vero soggetto dello Stato, che Marx può passare alla critica della monarchia, proponendo l’unica forma di governo a suo dire legittima, in quanto unica verità dei rapporti politici: la democrazia. Essa rappresenta per il giovane filosofo la costituzione compiuta, coincidenza di forma e sostanza, là dove tutte le altre costituzioni possono essere solo forma e mistificazione del contenuto materiale. «Nella democrazia la costituzione, la legge, lo Stato stesso, sono solo un’autodeterminazione del popolo e un suo contenuto determinato» (Marx, Engels 1981, p. 232).
La «vera democrazia» è la costituzione a cui tutte le altre tendono, il télos di ciascuna forma di governo, l’arcano dei rapporti politico-sociali risolto. Nella democrazia il popolo non è più in funzione dello Stato e della carta ottriata, ma invero è egli stesso a darsene una propria. In questo senso deve intendersi la costituzione politica, in ciò che essa, oltre all’elemento formale, incarna ora la sostanza, l’essenza reale del popolo che l’ha prodotta. Quel che Marx rileva circa lo Stato moderno è un duplice vizio: da un lato esso finge di permeare tutta la sfera della vita civile, inquadrandola nella sua forma organizzatrice; dall’altro, non volendo onorare tale divisamento, lascia che la dimensione della proprietà e del contratto seguitino per loro conto, contribuendo alla separazione di bourgeois e citoyen. L’alienazione politica si configura quale diretta conseguenza di questo falso dominio, tanto che solo la democrazia, riconciliando la dimensione privata con quella pubblica, permette il suo superamento. Di qui il suo fine intrinseco: «l’assorbimento dello Stato da parte della società civile» (Bobbio 1997, p. 103). Divenendo la politica un contenuto particolare pari alle altre forme di regolamentazione dei rapporti umani (proprietà, matrimonio, contratto), scendendo essa dall’Olimpo per fare il suo ritorno alla Pnice, la sua funzione non necessiterà più di una dimensione generatrice d’alienazione: diviene universale in quanto particolare, mentre nella monarchia scadeva a particolare (per la sola classe proprietaria) proprio in quanto astrattamente universale. In questa accezione devono intendersi due frasi emblematiche di Marx: 1) «Il medioevo era la democrazia della illibertà»; 2) «I francesi moderni hanno inteso questo così: che nella vera democrazia lo Stato politico perisca» (Marx, Engels 1981, pp. 232-233). Della frase «Das Mittelalter war die Demokratie der Unfreiheit» l’espressione Demokratie può colpire solo apparentemente: nel Medioevo le determinazioni economico-sociali coincidono con quelle giuridico-politiche, non v’è separazione alcuna: l’essere privato è al contempo essere comunitario (communistische Wesen); tuttavia Marx precisa «Unfreiheit» proprio perché tale coincidenza si basava sulla rigidezza della proprietà dominante. Nel Medioevo forma e sostanza coincidono, ma non sono libere, bensì imposte dai signori. Accade invece che, nel momento in cui si realizza la vera democrazia, nella quale il popolo decide per sé stesso, «der politische Staat untergehe».
Il giovane Marx non si ferma qui, indicando il passaggio decisivo per la realizzazione della vera democrazia e la morte dello Stato politico (da intendersi come «borghese») nell’auto-legislazione data dal suffragio universale: «egli attribuisce al suffragio universale il suo pieno significato, mentre rifiuta la ricchezza e la proprietà come prerequisiti per lo status di cittadino nel pieno senso del termine» (Chrysis 2018, p. 176).
La questione del suffragio universale è nient’altro che la naturale conclusione del ragionamento fin qui condotto. Non scompare l’elemento della rappresentatività, quanto l’elemento dei rappresentanti così come percepiti dal sistema cetuale hegeliano o dal pensiero liberale; il potere legislativo rimane quindi rappresentativo, ma «nel senso in cui ogni funzione è rappresentativa: come, ad esempio, il calzolaio è mio rappresentante in quanto soddisfa un bisogno sociale» (Marx, Engels 1981, p. 325). Nel momento in cui la frattura Stato-società civile viene ricomposta, poiché il politico si fonde con la società reale, divenendo una parte della vita umana insieme alle altre, tale attività sociale sarà sottoposta alla rappresentatività non più di quanto ogni uomo, nelle altre sfere della vita, rappresenti i suoi simili. Subentra dunque un forte elemento di pragmatismo il quale spinge a considerare il rappresentante non più nel suo velo astratto, «ma per mezzo di ciò ch’egli è e fa» (ibidem). Il tutto si sostanzia in un unico, imprescindibile, diritto: «si tratta dell’estensione e della generalizzazione al massimo possibile dell’elezione, sia del diritto di suffragio attivo che di quello passivo» (ivi, p. 326). Da un lato, dunque, avremo un ridimensionamento della sfera politica, scendendo questa dal cielo alla terra, dall’altro, tuttavia, essa sarà realmente universale, in quanto particolare della vita concreta insieme alle altre forme di rappresentanza sociale. Si capisce, a questo punto, come anche il ceto dei funzionari statali, burocrati, cesserà inevitabilmente d’esistere. Costoro per Marx rappresentavano e l’interesse corporativo che si conserva e alimenta secondo parassitismo, e l’esercito in difesa degli interessi dei più ricchi (Chrysis 2018, p. 196). Vivendo i burocrati della separazione di società civile e Stato non è difficile concludere che, ove vi fosse stato un reale ricongiungimento di queste due dimensioni, essi avrebbero visto eo ipso annullata la ragione della loro esistenza.


3. Ancora un passo indietro: defensio pauperum e democrazia integrale

Giunti a questo punto due quesiti potrebbero sorgere spontanei: 1) pur non avendo ancora elaborato una teoria delle classi sociali, possiamo comunque affermare che il giovane Marx avesse un’idea così marcatamente duale della società? 2) come possiamo classificare, nello specifico, la democrazia marxiana presentata nel precedente paragrafo?
Tornando ab ovo, alla rilettura dei primi articoli giornalistici scritti per Arnold Ruge e la «Rheinische Zeitung», scorgiamo un Marx precipuamente attivo in difesa della libertà. Nel primo articolo datato 1842, inizialmente composto per i «Deutsche Jahrbücher», e pubblicato negli Anekdota l’anno seguente (Merker 2011, p. 31), Bemerkungen über die neueste preußische Censurinstruction. Von einem Rheinländer (Osservazioni di un cittadino renano sulle recenti istruzioni per la censura in Prussia), Marx inaugura il suo impegno in favore della libertà di stampa. Tale patrocinio verrà reiterato pochi mesi dopo nel suo articolo d’esordio per la «Rheinische Zeitung», Debatten über Preßfreiheit und Publication der Landständischen Verhandlungen (Dibattiti sulla libertà di stampa e sulla pubblicazione delle discussioni alla Dieta), ove egli accusava la censura di ridurre il popolo a plebaglia, agente e significante nella sola sfera privata (Privatpöbel; cfr. Marx, Engels 1981, p. 64). Emergono in questo scritto argomentazioni classiche, che avrebbero potuto seguire i lineamenti della penna di un Kant, e che riguardano quella libertà per la quale non si è mai abbastanza maturi prima che la si eserciti, che attengono al rifiuto della censura in luogo di una libertà acerba (ivi, p. 77). Perorazioni di carattere liberale, si potrebbe pensare, come quando nel più noto articolo Debatten über das Holzdiebstahlsgesetz (Dibattiti sulla legge contro il furto di legna), che criticava aspramente la scelta della Dieta di commutare in reato la raccolta di legna secca nelle proprietà private, Marx citava, senza citarlo, John Locke e il quinto capitolo del suo Second Treatise. Il senso era chiaro: raccattare rami secchi caduti naturalmente non poteva configurarsi come furto, essendo il furto una violazione della proprietà, e basandosi quest’ultima sul trasferimento della forza lavoro nella cosa (Marx, Engels 1981, p. 112). Tuttavia, il pensiero di un Marx liberale pare fuorviante, ne è testimone lo stesso articolo summenzionato, che poche righe dopo il riferimento lockiano riportava, con tanto di virgolettato, l’insegnamento del Montesquieu circa il potere corruttivo della legge sull’individuo (ibidem), «male incurabile», scriveva il pensatore francese, «poiché ha le sue radici nel rimedio stesso» (Montesquieu 2015, p. 173). Cogliendo la situazione tedesca quale esempio di tale corruzione, attraverso l’esercizio dell’auctoritas che strizzava l’occhio ai grandi proprietari terrieri, Marx metteva così a nudo quel «come se» di kantiana memoria, pilastro della rappresentanza liberale. Ed invero, fin da questi primi articoli, appare lapalissiano il riconoscimento marxiano del dualismo sociale, così come la sua presa di posizione in favore del popolo, parte debole e sofferente sottoposta alle mistificazioni di una politica solo velatamente universale. Si può dunque accettare la classificazione di Miguel Abensour, che coglie in questa fase giornalistica protratta fino al testo critico su Hegel «l’utopia dello Stato razionale» (Abensour 2011, p. 9), ed anzi la tesi quivi sostenuta ne rafforza la presente: proprio perché hegeliano, Marx non poteva non aver già interiorizzato il problema della questione sociale. La giovane età, del resto, non deve ingannare, e a tal proposito è abbastanza esemplificativo quanto scrive Maximilien Rubel circa una delle prime letture del giovane Marx, Men and Manners in America, di Thomas Hamilton, testo capace d’illuminarlo sulle condizioni economiche della democrazia americana, il crescente divario tra ricchi e poveri, la condizione di subalternità dei «workers» (Rubel 1962, pp. 83-84).
Rimane ora da chiarire il significato della democrazia marxiana: come dobbiamo intenderla, e quali furono le sue ispirazioni? Il Chrysis ha il merito di tracciare una panoramica riassuntiva delle principali interpretazioni, tra le quali spicca «The italian school» (Chrysis 2018, p. 14) di Galvano della Volpe e i suoi allievi, i quali hanno scorto nella teoria democratica di Marx chiarissimi riferimenti rousseauiani. In realtà l’opera di della Volpe, se vogliamo, si colloca in un orizzonte ancor più ampio: quello del nesso storico Rousseau-socialismo, ossia «della continuità della genuina problematica egualitaria russoiana nel socialismo scientifico» (Della Volpe 1997, p. 7). Ed invero tanto il tema della Souveraineté non rappresentabile, che consiste nella volonté générale, quanto il tema dei deputati commissaires del popolo, costituisce più di una casuale analogia con la successiva trattazione marxiana. È fuor di dubbio come il pensiero democratico marxiano abbia colto in questo lascito una fonte d’ispirazione ben più credibile rispetto a quel mondo inglese libero soltanto durante le elezioni (Rousseau 2006, p. 137). Il Chrysis, dal canto suo, non può trascurarne l’influenza, e tuttavia è ben lungi dall’esaltarne la portata: «In democrazia non c'è posto né ruolo assegnato al legislatore carismatico di Rousseau, questo semidio che è chiamato a fondare la nuova politica» (Chrisys 2018, p. 175). La concezione politica di Rousseau costituisce ancora qualcosa di estremamente alto, divino (perché di dèi la democrazia necessita), ed il suo appunto critico circa l’insufficienza della forma di governo democratica, quale «governo senza governo» (Rousseau 2006, p. 137), pare quasi un ammonimento ante litteram rispetto a quanto Marx, invece, avrebbe esaltato. Non trascurabile pare anche la precisazione del Colletti esprimente una certa perplessità circa la continuità con la Kritik des Gothaer Programms: sia il Rousseau del Discours che il Marx della Kritik «auspicano una eguaglianza fondata sul riconoscimento delle “differenze”» (Colletti 1972, p. 259), nel primo il riconoscimento sarebbe rivolto ai meriti; mentre nel secondo ai bisogni (ivi, p. 262). Il riferimento è alla nota espressione «Ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni» (Marx, Engels 1987, p. 21).
Non solo lo spettro di Rousseau aleggia, ma si lega altresì a quella concezione democratica classica che per Hannah Arendt fu vera ispiratrice della dottrina di Marx. Nel suo studio sulle contraddizioni della teoria politica marxiana e la continuità di questa con il pensiero occidentale, la Arendt contrastò l’idea che si dovessero definire utopistici i pochi paragrafi lasciatici dal filosofo sul modello di società futura:


Tanto più se con utopia si intende una società che non ha topos, che non ha sulla terra uno spazio storico e geografico, essi non sono sicuramente utopistici: il loro topos geografico è Atene e la loro collocazione storica è il V secolo avanti Cristo (Arendt 2016, p. 72).


Tentativo d’«umanismo» che Lefebvre avrebbe più tardi così definito: «Marx vuole fondere l’idea antica, risalente ai greci, della felicità, con l’idea moderna della libertà» (Lefebvre 1983, p. 198). Oltre a Rousseau albergherebbe dunque nel pensiero politico marxiano anche l’influenza della democrazia ateniese, o quanto meno la sua idealizzazione, nella misura in cui ad Atene la dimensione privata e quella pubblica poterono coincidere solo grazie alla presenza degli schiavi.
Piuttosto suggestiva, in tema di influenze esercitate sull’opera democratica marxiana, si configura la teoria del Rubel dimostrante una chiara ispirazione di matrice spinoziana (Rubel 1962, p. 82). Del resto, che Marx, fin da giovanissimo, avesse scorto nel pensiero democratico di Spinoza un’intuizione degna d’essere seguita, è dimostrato sia dal quaderno berlinese del 1841, contenente circa centosessanta estratti del Tractatus Theologico-Politicus, sia dal significato stesso di quegli estratti spinoziani, esaltanti la democrazia come la più naturale forma di governo, capace di creare un’unità d’eguali, garanzia del diritto di natura ed esercizio dei pubblici affari (ibidem); significato che ritroveremo proprio nella Kritik del ’43. Ancora Antonio Negri, nella sua opera monografica sullo Spinoza sovversivo-democratico, fiero avversario della tendenza assolutistica del suo tempo, nonché sostenitore di una società libera costruita attraverso il lavoro comune ed eguale, poteva affermare: «Con Spinoza, Machiavelli e Marx rappresentano l'unica corrente di pensiero politico di libertà che l'età moderna e contemporanea abbiano conosciuto» (Negri 2006, p. 311).
Ed insieme a Spinoza come non rammentare, a questo punto, Feuerbach:


Ricordando in qualche misura l'antropologia feuerbachiana che, attraverso il suo rovesciamento del rapporto teologico tra l'uomo e Dio, si sviluppa in una critica della religione, la teoria marxiana della democrazia, attraverso il rovesciamento del rapporto hegeliano tra l'uomo e lo stato, si sviluppa in una critica della politica (Chrysis 2018, p. 184).


Rousseau, la Rivoluzione francese, Pericle, Spinoza, Feuerbach, tutto questo parve abbattersi contro la monarchia costituzionale di Hegel. V’è un po’ di parricidio in quel Aufhebung hegeliano, che elimina e conserva, e che nella democrazia marxiana servì a negare la politica, allo stesso tempo elevandola in una forma integrale d’autogoverno, di uguali, eletti ed eleggibili, rappresentabili solo per preciso scopo, donne e uomini totali, non più separati nelle loro determinazioni economiche e giuridiche, private e politiche.


4. Due passi in avanti: dalla teoria alla prassi della Comune parigina

Lo sforzo teorico di Marx contro lo Stato borghese proseguì alacremente. Ne fu sunto palmare il Manifest del 1848: un opuscolo di appena trenta pagine, dato alle stampe anonimo in lingua tedesca, «tuttora lo scritto di argomento socio-politico più conosciuto dell’epoca moderna» (Merker 2011, p. 76). Il 1852 vide la pubblicazione di Der achtzehnte Brumaire des Louis Bonaparte. Qui lo Stato (sia monarchico che repubblicano-parlamentare) veniva accusato di centralizzare il potere, e la borghesia, servendosi dei burocrati, di far man bassa del bottino (ferrovie, ponti, edifici scolastici) strappato «all’iniziativa individuale dei membri della società e trasformato in oggetto di attività del governo» (Marx, Engels 1960, p. 197).
Sia all’interno dei singoli paesi, ove la classe operaia autocosciente avrebbe dovuto ricongiungere la politica agli interessi economico-sociali (direttamente, non per interposta persona), sia nei congressi dell’Associazione internazionale degli operai, di cui fu guida perspicua (cfr. Bravo 1979, p. 33), l’attività direttiva di Marx seguitò senza posa. Fu tuttavia in seguito ai drammatici eventi della Comune di Parigi del 1871 che la sua teoria democratica trovò la formulazione più esplicita. Il risultato fu lo scritto The civil war in France.
Non è forse un inutile pleonasmo quello di mettere in guardia il lettore circa i toni entusiastici dell’Engels, secondo i quali Marx avrebbe colto l’importanza storica della Comune come nessuno mai (Marx 1977, p. 13). Sappiamo infatti che una cosa è il giudizio storico su tali eventi, ben altra è il giudizio che Marx ne ebbe, tanto che pare doverosa la premessa di Robert Antonio sul «Leaving aside questions of historical accuracy» (Antonio 2003, p. 45). Ciò che venne a determinarsi in quei primaverili mesi parigini del 1871 fu, senza dubbio, un prodotto composito e variegato, il cui carattere screziato e polisemico trovò la sua ratio proprio in quel processo storico che Marx vide solo attraverso le sue lenti interpretative. Dopo Sedan, il governo Thiers e le dure condizioni imposte da Bismark, la Comune, più che un fatto voluto, fu semplicemente l’inevitabile: il popolo parigino, isolato, non poté far altro che riconoscersi nell’unica istituzione rimasta a sua difesa, la Guardia nazionale. E tuttavia, quali che fossero le ragioni, quale che fosse la sua composizione, ci si riferiva, comunque, ad uno degli esperimenti di democrazia diretta più importanti che la storia europea avesse mai conosciuto: «the first workers’ state» (Gluckstein 2006, p. 7). Era la talpa dello Spirito che aveva generato un nuovo corso, di cui la nottola doveva prender coscienza: quanto sino ad allora era rimasto sotto forma di ricetta per l’osteria futura, diveniva di colpo realtà, prassi. Non solo, ma pur nell’inevitabilità del contesto la Comune non fu questione repente, estemporanea. Ciò è confermato da quanto scrisse P.M. Keržencev, il quale ci informa su una Parigi che fin dal 1860 aveva preso ampia confidenza con il movimento operaio, e che soli dieci anni dopo poteva vantare venticinque sezioni e sottosezioni dell’Internazionale (Keržencev 1959, p. 30). Il Manifesto discusso e approvato dalle assemblee operaie parigine un anno prima del famoso diciotto marzo sapeva di anticipazione: vi si rivendicava la soppressione dell’esercito permanente sostituito da milizie cittadine (vecchio sogno kantiano), la confisca dei beni della Chiesa da destinare alle necessità pubbliche, la revisione del sistema delle imposte, la riorganizzazione delle grandi imprese, l’instaurazione di una «repubblica sociale e democratica» (demokratičeskuju i social’nuju respubliku) fondata sul lavoro (ivi, p. 31).
Quasi trent’anni separavano questi eventi dalla Kritik di Kreuznach, ed un continuum lungo tre decenni parve stagliarsi in tutta la sua trasparenza. Dopo aver ribadito il ruolo di assoluta connivenza della Rivoluzione francese rispetto agli interessi della classe dominate, a cui servì come «gigantesca scopa» (Marx, Engels 1962, p. 336) per spazzar via le ultime incrostazioni di carattere feudale e creare l’impero - creatura a cui contribuirono le guerre contro le forze semifeudali della vecchia Europa alleate sotto il vessillo della reazione -, dopo aver rimarcato l’equazione parlamento-classe dominate, Marx individuava nella Comune «l’antitesi diretta dell’Impero» (ivi, p. 338), forma espansiva diversa da tutte le precedenti e repressive alchimie politiche.


Il suo vero segreto fu questo: che essa fu essenzialmente un governo della classe operaia, il risultato della lotta della classe dei produttori contro la classe appropriatrice, la forma politica finalmente scoperta, sotto la quale poteva avvenire l’emancipazione economica del lavoro (ivi, p. 342).


Ebbene, come si sostanziò questa «forma politica finalmente scoperta»? Nientemeno che realizzando quanto Marx aveva sviluppato a partire dalla sua critica hegeliana. Composta da consiglieri municipali eletti a suffragio universale nei vari mandamenti di Parigi, responsabili e «revocabili in qualunque momento» (ivi, p. 339), la Comune, costituita da operai o rappresentanti da questi riconosciuti, abolì immediatamente l’esercito permanente, sostituendolo con milizie cittadine armate, e spogliò la polizia del suo significato politico, facendo dei suoi membri comuni cittadini revocabili in qualsiasi momento. Allo stesso regime di controllo furono sottoposti tutti gli altri funzionari pubblici i cui stipendi vennero equiparati al salario operaio. Fu abolito il parlamentarismo, il potere legislativo ed esecutivo unificati in un organismo «di lavoro» (ritornava il tema della rappresentanza per scopo, si veda l’esempio del calzolaio), i beni di manomorta espropriati, l’istruzione e la scienza rese accessibili a tutti e liberate dalle ingerenze ecclesiastico-governative. Dopo aver reso giudici e magistrati elettivi e revocabili come tutti gli altri funzionari, la Comune abbozzò, nel breve tempo che ebbe a disposizione, un progetto politico nazionale. L’esempio di Parigi avrebbe dovuto reiterarsi per tutta la nazione producendo comuni locali con le loro assemblee e i loro delegati; a loro volta ogni comune avrebbe espresso i rappresentanti per la delegazione nazionale di Parigi con istruzioni formali e «mandato imperativo» (ivi, p. 340). Si ripresentava l’eco di Rousseau:


Invece di decidere una volta ogni tre o sei anni quale membro della classe dominante dovesse mal rappresentare il popolo nel parlamento, il suffragio universale doveva servire al popolo costituito in comuni, così come il suffragio individuale serve ad ogni altro datore di lavoro per scegliere gli operai e gli organizzatori della sua azienda (ibidem).


La democrazia proletaria, o dittatura del proletariato, là dove Jon Elster ci invita a non scorgere in questa espressione quel carattere inquietante che certamente era sconosciuto a Marx e ai suoi contemporanei (cfr. Elster 1999, p. 165), si riferirebbe per tanto alla politica non più intesa come «superstructure», bensì come «medium» della rivoluzione, dunque del mutamento sociale (ivi, p. 141). In quest’accezione fu colto dal pensatore di Treviri il ruolo dei comunardi parigini; per dirla alla Roper: essi dimostrarono come non fosse sufficiente impadronirsi della macchina statuale, ma bisognasse altresì «build a thoroughly democratic “political form”» (Roper 2013, p. 250). Si trattava, ancora una volta, del sogno di Rousseau, di riproporre nella modernità quanto nella polis greca era ovvietà: la coincidenza piena dell’homme e del citoyen, dell’interesse privato con il pubblico, della volontà privata con la volonté générale (Hunt 1975, p. 53); si trattava di concepire la democrazia quale unica forma in grado di superare la scissione tra determinazioni economiche e politiche; si trattava di partire dai bisogni, considerando il mantra del diritto uguale per tutti, di concessione parlamentare, come il più grande garante d’ineguaglianza, ove la società civile fosse rimasta separata e avviluppata nell’interesse privato, che è interesse ineguale e d’ineguali.


Conclusioni

La presente ricerca ha voluto vertere sullo stadio che precede il comunismo di Marx. Quest’ultimo, alla stregua degli dèi della democrazia di Rousseau, ovvero degli angeli della pace perpetua kantiana può essere inteso come il fine compiutamente realizzato del cammino umano, che più non abbisogna degli strumenti dell’ineguaglianza sociale, quali sono lo Stato e la politica (quanto meno nel loro significato «borghese»). Si è voluto così mostrare il passo che precede la fine, dove la politica, da strumento della contraddizione, diviene la prassi che la contraddizione rovescia (cfr. Galli 2018, p. 114); dove la «libertà assoluta» e l’«assoluta autonomia della persona» sono i segni tangibili della «vera democrazia» (Heller 2018, p. 203). Inizialmente concepita dal giovane Marx a livello teorico, in terra tedesca, quando ancora il soggiorno parigino e l’incontro con il socialismo francese doveva compiersi, essa ebbe a concretarsi, quasi tre decenni più tardi, nella Comune. Fu mercé l’opera dei comunardi che Marx vide la sua teoria divenire prassi: «forma politica completamente espansiva» (Marx, Engels 1962, p. 342), ed espandibile, capace di sostituire l’autogoverno della classe operaia alla forma repressiva precedente. Era la costituzione politica finalmente scoperta, frutto della mediazione storica, dell’arridere del tempo, dunque «per niente affatto librata nel vuoto» (Bloch 1972, p. 67).
Si potrebbe quindi osservare, con il Chrysis (alla cui opera queste pagine devono non poco), che la «vera democrazia» fu per Marx qualcosa di più d’un mero stato transitorio: nella dialettica democrazia-comunismo, il primo termine non sarebbe altro che il preludio al secondo (cfr. Chrysis 2018, p. 216). Un’anticamera volta a durare, a fondersi in quell’«unità necessaria», come la definirà Lukács, col «socialismo cosciente» (Lukács 1978, p. 25). Socialismo cosciente, o comunismo, al quale Cesare Luporini negava l’elemento «anti-democratico», per meglio definirlo: «post-democratico» (Luporini 2014, p. 90). E ancora, ad indicare che un’«amministrazione della produzione», per quanto priva di separazione e dominio di classe, non potesse cancellare il tema del krátos, scrive Michele Prospero: «Scompare, per Marx, “il potere organizzato” utilizzato per esercitare il dominio di classe, non si dilegua il potere in quanto tale» (Prospero 2017, p. 125). Suggerimenti preziosi, e tuttavia travalicanti il perimetro che il presente articolo si è voluto dare.
Il realismo politico di Marx l’obbligava a scorgere nella Comune soltanto il primo atto di una dura lotta: il tempo era propizio, ma per il comunismo, che nello scritto The civil war in France viene descritto come l’unione delle associazioni cooperative secondo un piano comune, l’opera rivoluzionaria era solo nella sua fase iniziale (cfr. Marx, Engels 1962, p. 343). L’importante era aver trovato la formula.
Proprio tale formula politica «finalmente scoperta», nonché il filo conduttore che nell’arco di tre decenni ricongiunse teoria e prassi, è quel che queste pagine hanno cercato di mostrare. Arrestando il focus un passo prima dell’utopia è emerso come la politica non solo non scompaia, ma attraverso la democrazia - capace di trascendere la scissione uomo privato-cittadino, e di creare una comunità in cui la politica «non è privilegio di un gruppo di specialisti, ma un modo di vivere, comune a tutti i suoi membri» (Chrysis 2018, p. 198) - finisca per riprendere vigore, contribuendo alla creazione di una «libera associazione di esseri umani morali» (ivi, p. 214).
Se per la Arendt la democrazia di Marx era tutt’altro che utopica, avendo essa un luogo e un tempo ben precisi (l’Atene del V secolo avanti Cristo), possiamo ora concludere che il dèmos vagheggiato dal filosofo fosse in realtà qualcosa di superiore: una reale comunità di liberi che proprio perché emancipata dal bisogno materiale, poteva superare la scissione pubblico-privato, divenendo unità di differenze, di pluralismo di personalità. Proprio grazie al nuovo stadio di sviluppo dei mezzi produttivi, capace di eliminare la povertà e la privazione per ciascun consociato, la democrazia poteva elevarsi quale unica costituzione in grado di conseguire l’autodeterminazione e il completamento della persona umana, non più schiacciata nella scissione cristallizzata dai rapporti di forza economici.


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